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Antonio Labriola: dal metodo genetico al comunismo critico
Antonio Labriola morì a Roma il 2 febbraio 1904. Era nato nel 1843 a Cassino. Il "Neue Zeit", organo teorico della socialdemocrazia tedesca, la più autorevole rivista socialista in campo europeo, gli dedicò un editoriale non firmato, il cui autore era Franz Mehring.
Mehring definiva Labriola il "capo spirituale del socialismo italiano" e aggiungeva: «1) nel suo spirito, era intimamente affine allo spirito di un Marx e di un Engels. Del tutto indipendentemente da loro, Labriola aveva avuto lo stesso loro sviluppo intelletuale; 2) perfino se esistesse un'ortodossia marxista, e non esiste, Labriola non ne sarebbe mai stato seguace. Questo spirito sottile era uno spirito troppo libero e indipendente per diventarlo.» (1)
Diversamente, Filippo Turati, su "Critica sociale" scriveva, sulla penultima pagina della rivista, un breve articolo volto a ridimensionare l'apporto di Labriola alla causa del socialismo in Italia. Non mancavano apprezzamenti positivi, ma Turati pareva voler evidenziare che i meriti di Labriola si collocavano oltre il perimetro esterno degli interessi pratici del movimento socialista. Lo "spirito più dottamente critico che abbia mai onorato il socialismo italiano" non aveva apportato al socialismo italiano qualcosa di concretamente positivo, tanto che: «La natura essenzialmente critica del suo ingegno non lo lasciò essere un militante del partito nel senso compiuto della parola, né un elemento cooperante alla nostra azione positiva, della quale egli discerneva soprattutto le manchevolezze e le inevitabili incoerenze.» (2) "Ai suoi libri torneremo sovente, nei brevi ozi che la vita militante concede agli studi." Così concludeva Turati. E in queste frasi si può trovare tutta la difficoltà del rapporto tra Antonio Labriola e i socialisti italiani, in particolare il gruppo dirigente.

Antonio Labriola fu una presenza scomoda, dunque una ricchezza teorica, spesso emarginata e sottoutilizzata. Diverse fonti sembrano autorizzare l'idea che persino Gramsci, non si formò su testi di Labriola, anche se, in un secondo tempo, li lesse avidamente.
In verità, pare che il giudizio di Turati suonasse ingeneroso perché Labriola non fu passivo spettatore di eventi, quantomeno dal Congresso socialista di Genova del 1892 in poi. Quel congresso era riuscito a fargli cambiare idea sulla possibilità di un'azione pratica del socialismo in Italia, anche se rimase pessimista. Scrivendo a Engels, annotava: «Comunque la cosa sia nata - e quasi tutte le cose umane nascono male e quasi per caso, almeno all'apparenza - si tratta ora di sapere se potrà avere effetti utili e duraturi, o se dovrà degenerare in una delle solite vanità consortesche all'italiana... Può darsi che il piccolo partito sorto di sorpresa, e il programma votato alla rinfusa, facciano nascere l'amore della disciplina ed il pudore della responsabilità.» (3)
Tra il 1892 ed il 1894 scese in campo per denunciare gli scandali bancari e per attivare la solidarietà attorno al movimento dei "fasci siciliani" definiti come "il primo grande fatto del socialismo italiano". Spronato da Engels, a Zurigo, ad assumere un ruolo dirigente effettivo, gli rispose poi nella stessa lettera già citata: «Voi avevate ragione: dovrei avere più coraggio. Ma per avere coraggio bisogna essere o soldato o capitano. Ed io sono soltanto uno sbandato.» (4) Rifiutò però sdegnosamente l'etichetta di "socialista teorico", arrivatagli non a caso da Turati sulle colonne della "Critica sociale". Labriola reagì: «Dicendo qui noi non intendo adoperare un plurale di mera convenienza retorica; perché in questo noi mi ci comprendo positivamente, sapendomi anch'io per la mia parte responsabile di come le cose vanno e non vanno nel partito, sebbene il Soldi non so in quale numero della "Critica" mi abbia dichiarato un socialista in partibus infidelium.» (5)

Questa breve introduzione mostra che per comprendere Labriola non basta guardare al suo percorso intellettuale in senso stretto. Labriola fu un nuovo tipo di intellettuale e filosofo, attentissimo alla situazione sociale. Ebbe una formazione hegeliana. Ma subito si trovò su posizioni radicali che rivendicavano dallo stato una struttura etica, capace di essere motore di educazione e di sviluppo della comunità nazionale, anche se lo stato non è etico per essenza. La critica al gruppo dirigente del paese è penetrante. E' intriso di conservatorismo, scarsamente dedito al bene pubblico, clientelare, corrotto e persino scandaloso. L'Italia reale è altra cosa. Lo sviluppo industriale metteva in scena la nuova classe degli operai salariati, sia al Nord che a Roma, per esempio nel settore dell'edilizia, un settore ad altissima speculazione. Quando nasce la sua prima attenzione al "marxismo", essa non deriva da un problema di "verità" filosofica, ma dalla necessità di trovare strumenti e categorie conoscitive in grado di spiegare le dinamiche sociali.
Il primo interesse è quello storico. Fin dal 1871, Labriola aveva rifiutato il "metodo dialettico" hegeliano, che gli era parso schematico ed esteriore.
Il primo passo fu quello di sostituirlo con il metodo genetico, cioè un metodo in grado di dare di ogni fatto storico una spiegazione specifica e pertinente. L'impostazione risentiva di un'influenza positivistica. In tale periodo è attratto da ricerche sulla morale, la religione, la libertà ed emerge con forza il tema della intellegibiltà scientifica della storia, non disgiunto dalla rilevanza del problema pedagogico dell'insegnamento della storia stessa. Chi impara la storia, secondo Labriola, si abitua a collocarsi in un ambito di civiltà ed a conquistare una coscienza della propria esistenza che non sia ridotta all'io sono. Le influenze più importanti, in questa fase, sono quelle di Franz Herbart, e quindi si fa strada l'idea che, mentre il fine edicativo è fissato dalla filosofia morale, la pratica educativa può realizzarsi utilizzando al meglio i criteri della psicologia scientifica. Ma, proprio ragionando sugli insegnameti di Herbart, Labriola viene maturando una critica alla pedagogia herbartiana. Nel 1876, scrive che "la pedagogia non è la scienza della scuola", intendo così le scuole concrete non nascona da una deduzione dalla teoria pura, ma sono il frutto di lotte politiche e di ideali sociali, di tradizioni storiche. "Bisogna pensare - scrive - che le condizioni reali della società presentano un grandissimo ostacolo al concetto di una cultura generale comune a tutti".

Si comprende così come Labriola approdi al socialismo ed al marxismo. Egli comincia a vedere, grazie alla lettura di Marx, che vi sono dei limiti intellettuali e filosofici nei socialisti italiani, la cui causa principale è da ricercarsi nel positivismo che affligge i socialisti stessi. Per Labriola diviene essenziale mostrare che il marxismo possiede un'autonomia teorica e può essere svincolato e ripulito dai luoghi comuni positivistici. Ma l'evoluzione del pensiero di Labriola è tormentata e graduale.
Il 1879 è l'anno in cui Labriola comincia ad aprirsi alle idee del socialismo. Il suo interesse si rivolge allora in particolare agli studiosi tedeschi, ed ancora più in particolare ai "socialisti della cattedra". Brentano e Schmoller ricorrono nei suoi appunti. Sembra che nel periodo considerato, Labriola sia orientato non tanto alla ricerca di un modello esemplare di socialismo, ma alla ricerca di una alternativa sia al liberalismo che al socialismo, un mix in grado di mediare, un tertium datur capace di sottrarsi al drastico dilemma. Poco alla volta perviene alla convinzione che il socialismo sia però la molla fondamentale dello stesso sviluppo democratico. Il socialismo non è un sottoprodotto di un più generale processo politico, ma la condizione fondamentale di ogni progresso reale.
Scrive Valentino Gerratana: «Con la conferenza del 1889 sul socialismo, che pure è attraversata da suggestioni e spunti teorici provenienti da diverse direzioni (tra cui particolarmente rilevanti le analisi storiche e le teorizzazioni del cosidetto "socialismo giuridico"), Labriola dimostra di aver acquisito i primi elementi della sua formazione marxista. E' un'acquisizione che non deriva né da un apprendistato scolastico, né da un'improvvisa folgorazione, ma è il risultato di una elaborazione teorica indipendente, maturata lentamente, e di una più intensa e rapida esperienza politica. L'approfondimento di questa formazione avviene con lo stesso metodo anche negli anni successivi, e arriva a piena maturazione solo nel 1894 quando infine potrà scrivere a Engels che "son passati tutti i dubbi su la interpretazione materialistica della storia."» (6)

Il materialismo storico è per Labriola sia un metodo scientifico per l'interpretazione della storia che uno strumento di azione politica.
La storia è la storia del lavoro umano, quindi delle forme sociali che ha assunto la produzione, sia come insieme di forze produttive mobilitate, sia come rapporti di produzione intercorrenti tra le classi sociali. In tale ottica, la concezione materialistica della storia è sia teoria analitica del processo storico, sia coscienza della possibilità del superamento del modo di produzione ed appropriazione del capitalismo. La concezione materialistica della storia non va intesa come uno schema statico, riproducibile in ogni circostanza. L'uso metodico dei concetti e delle categorie marxiane deve aderire alle situazioni concrete. Si può dire, quindi che Labriola si sia infine rritrovato quasi al punto di partenza. La concezione materialistica della storia coincide con il metodo genetico che egli aveva contrapposto allo storicismo hegeliano. Essa non fornisce leggi statiche, ma una visione dinamica. Assorbe dal positivismo l'esigenza di un approccio scientifico alla storia, ma evita di contaminarsi con la metafisica dello storicismo comtiano o degli evoluzionismi spenceriani.
Tale impostazione di Labriola è particolarmente visibile rispetto al rapporto tra struttura, cioè la sfera dell'economico, e la sovrastruttura, cioè le sfere del politico, del giuridico, dell'arte e della cultura. Se è vero che alla base di ogni epoca storica ci sono le forze produttive e i rapporti sociali di produzione, è vero che essi generano, di volta in volta le situazioni sociali, istituzionali ecc... Tuttavia, è solo in ultima istanza, che dai rapporti economici derivano i fattori sovrastrutturali di ogni epoca storica.
Soprattutto dopo la morte di Engels, la statura teorica di Labriola pare finalmente delinearsi in tutta la sua potenzialità. «Sviluppando il suo "metodo genetico" - scrive Valentino Gerratana - che si sforza di collegare idee e fatti, riconducendoli ad un'unica "genesi" - non lo presenta più come un'alternativa al metodo dialettico, ma quest'ultimo riassorbe come momento subordinato della stessa concezione genetica. In questo modo anche Hegel è riutilizzato, ma in limiti ben precisi e respingendo la tentazione di un'acritica riesumazione scolastica. Non vi era in realtà nulla di nuovo in questo atteggiamento di Labriola: che da tempo si era allontanato da Hegel per seguire altre strade, più accidentate ed impervie, ma senza mai cedere alla moda di volgergli sdegnosamente le spalle. Si era reso conto che volgendo le spalle a Hegel si rimane maggiormente esposti alle sue influenze più nocive, come era accaduto ai "generalizzatori del darwinismo", che con il loro monismo scientista riproducevano una forma di hegelismo "peggiorato perché acefalo".» (7)

Ad un certo punto, Labriola arriva a proporre di sostituire con il termine "comunismo critico" "il complesso di dottrine che ora si è soliti di chiamare marxismo". E aggiungeva: «... questo è il vero suo nome, e non ve n'è altro più esatto per tale dottrina.» (8) Il comunismo critico "non rimarrà tutto rinchiuso negli scritti di Marx e di Engels". Nemmeno si potrà dire che il comunismo critico si identificherà solo come dottrina del movimento operaio, perché il movimento stesso continuerà a generarsi e rigenerarsi "indipendentemente dall'azione ogni dottrina". Il momento soggettivo, dice Labriola, è la vera funzione rivoluzionaria. Tanto che: «Il comunismo critico non fabbrica le rivoluzioni, non prepara le rivoluzioni, non arma le sommosse. E', sì tutt'una cosa col movimento proletario; ma vede e sorregge questo movimento nella piena intelligenza che esso ha, o può e deve avere, con l'insieme di tutti i rapporti della vita sociale. Non è, insomma, un seminario, in cui si formi lo stato maggiore dei capitani della rivoluzione proletaria; ma è solo la coscienza di tale rivoluzione, è soprattutto, in certe contingenze, la coscienza delle sue difficoltà.» (9)


(1) L'edizione italiana dell'articolo apparve su "Rinascita" nel cinquantesimo anniversario della morte di Labriola. XI, 1954, pp. 318-40
(2) F. Turati, in "Critica sociale", XIV, 1904, p 63
(3) Lettera a Engels del 22 agosto 1893
(4) ibid.
(5) Lettera a Turati del 2 settembre 1897
(6) Valentino Gerratana - Labriola e l'introduzione del marxismo in Italia - In Storia del marxismo vol. 2 - Einaudi 1979
(7) ibid.
(8) A. Labriola - Saggi sul materialismo storico -
(9) ibid.
moses - 14 febbraio 2006