La religione nei limiti della sola ragione
di Renzo Grassano
La storia di questo importantissimo scritto,
e le singolari vicende che ne impedirono
la pubblicazione completa per qualche anno,
potrà essere approfondita con la lettura
della biografia di Kant. Qui è sufficiente
ricordare che la censura prussiana diede
il suo assenso alla pubblicazione del primo
capitolo, dedicato all'esame del male radicale nell'uomo, ma poi negò il permesso di pubblicare i
capitoli successivi.
Dopo le leggi liberticide introdotte da Johann
Christoph Wöllner (definito da Federico
il Grande "un pretaccio fraudolento
ed intrigante"), venne un parere favorevole
alla pubblicazione del testo kantiano da
Hillmer, che era una sorta di supervisore
teologico di stato, con la motivazione piuttosto
singolare che lo scritto "non fosse
destinato a tutti, ma soltanto a dotti capaci
di riflessione, di ricerca e di distinzione,
ed era solo da costoro fruibile." Motivazione
che venne immediatamente rovesciata nel suo
opposto quando Kant presentò al vaglio della
censura prussiana i capitoli successivi.
Si è osservato che, in realtà, il capitolo
sul male radicale aveva in sé un contenuto implicitamente
reazionario, che non poteva risultare sgradito
al nuovo corso politico. A supporto viene
spesso richiamata la valutazione totalmente
negativa data da Goethe, ed in parte da Schiller
e da Herder. Goethe vi ravvisò una concessione
al cristianesimo più deteriore e dogmatico,
quindi un tradimento dello spirito umanitario.
In una lettera a Herder, Goethe scriveva,
non senza amarezza, che Kant aveva imbrattato
il proprio mantello da filosofo "con
la macchia vergognosa del male radicale,
per indurre anche dei cristiani a baciarne
il lembo." Non così duro Schiller, che
dopo un'iniziale reazione di disgusto, comprese
che le motivazioni kantiane erano molto più
profonde di quanto le aveva intese piuttosto
superficialmente Goethe.
L'opera potè venire alla luce solo dopo la
morte del nuovo re e l'allontanamento di
Wöllner. Ma ebbe fortuna relativa, e
fino alla fine dell'Ottocento, fu certamente
oscurata dal romanticismo, dalle posizioni
di Schleiermacher e di Hegel, dalla filosofia
di Kierkegaard, nonché dalla considerazione
generale, presente tra gli stessi kantiani
ortodossi, che il Kant che contava era un
altro, e che questo studio non apparteneva
alla linea maestra del criticismo.
Che dire? Certamente pare corretto partire
da qui: un testo siffatto appartiene alla
comunità filosofica ed, in generale agli
uomini di buona volontà che ragionano, molto
più che alla chiesa, od alle tante chiese
protestanti, evangeliche e calviniste. Nonostante
i notevoli cambiamenti intervenuti nella
teologia dell'Ottocento e del Novecento,
l'idea di una fede razionale (la risposta
al cosa posso sperare di Kant) non gode di grandi appoggi nel
mondo dei religiosi. La grande lezione kantiana
di un cristianesimo il cui nucleo fondamentale
è costituito dalla legge morale rispettata
e vivificata dal buon comportamento e non
da esteriori cerimonie cultuali volte ad
ingraziarsi il favore divino, non pare ancor
oggi facilmente compresa. Ciò che conta è
la fede. La conversione per mezzo della fede
supplisce largamente, e spesso nemmeno rende
indispensabile, una condotta irreprensibile,
perché l'uomo è fallace ed imperfetto. L'indulgenza
verso i credenti fedeli e praticanti è ancora
troppo spesso pari all'intransigenza verso
i non credenti, comunque destinati alle fiamme
della dannazione anche quando moralmente
degni. Alcuni hanno persino la faccia tosta
di sostenere che ciò sia impossibile perché
un non-credente è indegno per definizione.
Cose che, appunto, alla luce di quanto affermato
da Kant e non solo, appaiono francamente
insostenibili.
Ma queste sono oggi le chiese e noi dall'esterno
possiamo fare ben poco per cambiarle. Quasi
ci sarebbe da chiedersi se ne valga la pena.
Comunque sia, Kant ci provò, seminando su
un arco temporale molto vasto, perché credeva
in due cose. La prima che il cristianesimo
fosse un patrimonio da non disperdere, visto
che egli stesso si sentiva cristiano, e fortemente
in debito con l'educazione pietistica ricevuta.
La seconda è che alla lunga la ragione avrebbe
trionfato, consentendo così la realizzazione
della repubblica morale, che per lui era l'equivalente del regno di Dio.
Uscendo dalle nebbie di un linguaggio mistico
ed escatologico, l'attesa del ritorno del
Signore, ed entrando in uno più attuale e
moderno, Kant poneva con forza la questione
della possibilità di una società più giusta
e morale, che è quella che noi illusi ( di
sinistra, ma spero anche di destra) ci aspettiamo
ancora.
La premessa indispensabile veniva da quell'esame
del male radicale dell'uomo, contestata da
Goethe in nome dell'umanità stessa.
Il male radicale
La colpa del male, per Kant, non sta nella
natura sensibile, nella "carne"
(espressione che non usa, ma che uso io per
chiarezza, sapendo di non sbagliare) ma nel
difetto di ragione o nella mancanza di volontà.
Non c'è alla base della malvagità una natura
cattiva, od una natura buona tradita, ma
solo la violazione consapevole della legge
morale.
Per natura dell'uomo si deve intendere solo
il principio soggettivo dell'uso della libertà.
Non si deve vedere in un istinto, in una
tendenza necessitante, che obbligherebbe
al male, alla sopraffazione, alla frode.
Quando si dice che l'uomo è cattivo, si vuole solo significare che pur avendo
coscienza morale, ha scelto di allontanarsi
da essa, e di anteporre altri scopi e motivi
particolari all'imperativo categorico di
realizzare sempre e comunque azioni esemplari
e comportamenti corretti.
L'affermazione l'uomo è cattivo per natura risulta così sbagliata in quanto conduce
ad un falso sillogismo che pretenderebbe
ricavare da una premessa siffatta, una regola
generale per la quale solo il messaggio di
salvezza della religione rivelata avrebbe
effetto positivo e liberatorio.
Noi possiamo conoscere l'uomo solo per esperienza,
ed è solo per esperienza che possiamo dire
che è portato al male, che tutti gli uomini,
compresi i migliori possono cadere in fallo.
Tuttavia, è possibile procedere dal male
al meglio, in conseguenza di un perfezionamento
della volontà.
«Segue da ciò - scrive Kant - che l'educazione
morale dell'uomo non deve cominciare dal
miglioramento dei costumi, ma dalla conversione
del modo di pensare e dalla fondazione di
un carattere; sebbene d'ordinario si proceda
diversamente e si lotti unicamente contro
i vizi, di cui si lascia invece intatta la
comune radice. Ora l'uomo più limitato è
lui stesso capace di sentire tanto maggiore
rispetto per un'azione conforme al dovere,
quanto più nel pensiero sottrae a tale azione
altri moventi, che a causa dell'amore di
sé, potrebbero avere influenza sulla massima
dell'azione, e gli stessi fanciulli sono
capaci di scoprire anche la più piccola traccia
di moventi impuri mescolatisi nell'azione,
poiché questa perde allora istantaneamente
ogni valore morale.» (1)
Il presupposto è che anche in condizioni
di impedimento esteriore, l'uomo sia interiormente
libero ed in grado di scegliere.
I principali ostacoli al retto comportamento
sono la fragilità di carattere, la corruzione
per la quale, appunto, l'uomo subordina il
movente morale a tutti gli altri.
Il male sembrerebbe dunque ineliminabile
e poco importa che si siano adottate intenzioni
buone. C'è un male incombente, di lunga durata,
che fa sentire i suoi effetti come una maledizione
ereditaria. Anche supponendo possibile una
conversione, anche supponendo che l'uomo
non contragga più alcun debito con la moralità,
l'uomo non si deve sentire liberato dai debiti
contratti in precedenza; il suo più stretto
dovere rimane quello, sempre, di fare tutto ciò ciò che si può fare.
La lotta tra male e bene
Nel secondo capitolo, intitolato Della lotta del principio buono con il cattivo
per la signoria sull'uomo, Kant inizia con un esame della filosofia
stoica che ne evidenzia pregi e difetti.
Annota che "esigere coraggio dall'uomo,
è già per metà suscitarlo in lui". Ed
arriva al punto:«Ma questi valentuomini
non seppero discernere il loro nemico, che
non è da ricercarsi nelle inclinazioni, le
quali semplicemente indisciplinate, tuttavia
si rivelano sinceramente alla coscienza di
ciascuno; mentre questo nemico, quasi invisibile,
si nasconde dietro alla ragione, e perciò
è maggiormente pericoloso. Essi invocarono
la saggezza contro la follia, che si lascia ingannare dalle inclinazioni
solo per imprevidenza, invece di invocarla
contro la malignità (del cuore umano), che con principii corruttori
dell'anima, mina nascostamente la stessa
intenzione.
Le intenzioni naturali - continua Kant -
sono buone, considerate in se stesse; cioè
non riprovevoli, e non soltanto è vano, ma
sarebbe anche nocivo e biasimevole volerle
estirpare; bisogna piuttosto domarle, affinché
possano, non spegnersi fra di loro, ma essere
portate ad armonizzarsi in un tutto, chiamato
felicità.» (1)
La polemica con lo stoicismo si chiude con
una citazione indiretta della epistola agli efesini di San Paolo: "noi non abbiamo da lottare
contro la carne ed il sangue (le inclinazioni
naturali) ma contro principi e potenze: contro
i cattivi spiriti."
La liberazione totale dal male, viste le
condizioni sopradescritte, non può che essere
un atto di grazia non dovuto all'uomo, ma
al Salvatore, Figlio di Dio.
Ad essa si oppone l'idea opposta del diavolo,
che è una rappresentazione popolare del male
radicale.
La solo salvezza, termine che Kant usa davvero in senso cristiano,
sta nell'accettare intimamente i veri principi
morali. Su questa via noi incontriamo come
opposizione non la sensibilità e le inclinazioni
al piacere, ma la perversità, che può anche chiamarsi falsità (inganno del demonio con il quale è entrato
il male nel mondo). La perversione si vince
solo praticando il bene morale.
Ma, continua Kant, la fiducia in questa vittoria
finale, che è del singolo, ma può essere
raggiunta dall'umanità tutta, non può essere
ottenuta superstiziosamente, attraverso espiazioni
che non provengono mai da un mutamento interiore,
o fanaticamente da pretese illuminazioni
interiori puramente passive.
Sotto questo profilo anche la credenza nei
miracoli è inutile. Possiamo infatti ammettere
che influenze celesti collaborino con l'uomo
nella sua opera di perfezionamento morale,
ma l'uomo non è mai in grado di distinguerle
da cause naturali, né può sperare di attirarle
su di sé e constatare così "un miracolo".
L'uomo, secondo Kant, deve quindi comportarsi
sempre come se ogni conversione dipendesse
dai suoi sforzi e dalla sua volontà buona.
Si tratta, come si vede di una posizione
schiettamente illuminista, che ben poco concede
al cristianesimo popolare paganeggiante dei
santini, delle processioni e delle "possessioni
divine".
Stato morale e chiesa invisibile
Sulla scia di Rousseau, che Kant aveva letto
con interesse, il nostro perviene all'idea
che la vita sociale sia il terreno fertile
per la crescita della pianta della perversione
radicale. Il trionfo del bene sul male, quindi,
si potrà verificare solo in una società governata
dalle leggi morali della virtù. Questa non
sarà tanto una società giuridico-civile,
quanto una formazione etico-civile, uno stato
morale, caratterizzato da una chiesa invisibile, l'unica veramente morale, cioè l'unione
delle persone morali. Tale chiesa si dovrebbe
fondare sulla fede religiosa pura, una fede
fondata sulla ragione e per questo veramente universale. La ragione, dunque, per Kant è l'unico
linguaggio capace di universalità. E finché
ci saranno chiese fideistiche, si avrà una
sorta di concorrenza tra esse per accaparrarsi
le anime, ma non vi sarà alcun regno. La
chiesa invisibile non ha bisogno di una rivelazione,
di grandi mistici illumininati, perché la
ragione di ognuno è guida.
Ma a fronte di questa esigenza schiettamente
illuministica, Kant annota che la debolezza
particolare dell'uomo, che ancora caratterizza
la condizione dei più, non consente di fondare
una chiesa visibile, cioè una delle tante
chiese istituzionali sulla fede razionale.
In altre parole: la rivelazione è una necessità
storica e la salvezza attraverso la religione
un passaggio quasi obbligato.
Tuttavia, gli aspetti più deteriori e falsi
della vita religiosa vanno criticati. Nel
IV capitolo intitolato Del vero e del falso culto sotto il dominio
del buon principio; o della religione e del
regime clericale, Kant affronta con molto coraggio tali problemi.
Ma prima di arrivare ad essi vi è un punto
di capitale importanza che merita una citazione
per intero: «Abbiamo visto pure che
che questa comunità, come REGNO DI DIO, può
essere intrapresa dagli uomini solo per mezzo
della religione, e che infine questo regno,
affinchè la religione sia pubblica (ciò che
è richiesto per una comunità) può essere
rappresentato sotto la forma sensibile di
una chiesa, di cui spetta agli uomini stabilire
l'organizzazione, come un'opera, che è loro
riservata e che si può da essi esigere.
Ma, costituire una chiesa, come una comunità
retta da leggi religiose è cosa che sembra
esigere maggior saggezza (tanto dal punto
di vista dell'intellezione, quanto da quello
della buona intenzione), di quanta, in verità,
è lecito attendersi dagli uomini; ed in tal
modo particolare, sembra che, a tale scopo,
occorra presupporsi già negli uomini il bene
morale, cui si mira con tale istituzione.
Difatti è contraddittorio dir che gli uomini
dovrebbero fondare un regno di Dio (così
come si può giustamente dire che essi possono
stabilire un regno di un monarca umano);
bisogna che Dio stesso sia l'autore del suo
regno. Ora, dato che noi non sappiamo ciò
che Dio faccia direttamente per tradurre
in realtà l'idea del suo regno, per essere
cittadini e sudditi del quale noi troviamo
entro noi stessi la determinazione morale;
ma, dato che sappiamo bene cosa fare per
renderci atti a diventare membri di questo
regno; dato questo, una idea siffatta - sia
stata essa destata e resa pubblica nella
specie umana per mezzo della ragione o per
mezzo della Scrittura - ci obbligherà tuttavia
ad organizzare una chiesa. Di essa, nell'ultimo
caso, Dio, essendone il fondatore, sarà anche
autore della relativa costituzione; mentre invece gli uomini, in ogni caso,
in quanto sono membri e cittadini liberi
di questo regno, ne sono autori dell'organizzazione.» (1)
Potrebbe darsi che non si capisca bene il
senso non solo speculativo di queste parole,
ma è evidente che se si pone attenzione al
fatto che la pietra angolare della chiesa
è la sua costituzione, essa non può e non deve essere toccata
in alcun modo da mani umane. La legge morale
ed il comportamento morale sono questa base.
Nient'altro può essere aggiunto, e nient'altro
può essere tolto.
Il libro si chiude con le già citate critiche
al falso culto di Dio, che riguarda soprattutto
le chiese cristiane. Nessun rito, nessun
pelligrinaggio, nessuna messa alla memoria,
nessuna benedizione papale, possono mettere
Dio in pace con gli uomini pervertiti dal
male della disonestà, dal male di usare altri
uomini come se fossero attrezzi da lavoro.
Come può un peccatore incallito sperare di
ingraziarsi Dio, attraverso San Antonio o
San Gennaro, facendosi in ginocchio un pezzo
di strada?
Dio, secondo Kant, non chiede queste schifezze,
non vuole uomini in ginocchio: vuole solo
onestà e moralità. In caso di danno, se c'è
una parte offesa, vuole il risarcimento oltre che il pentimento.
note:1) Immanuel Kant - La religione nei limiti della sola ragione - Laterza 1979
RG - 9 ottobre 2004