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Kant filosofo della pace
di Renzo Grassano
Nessun riassunto può sostituire, in questo caso, la lettura del testo o dei testi.
E poiché Per la pace perpetua è un testo breve, anche se non semplicissimo, esorto a vincere la pigrizia ed a leggerlo. Qui si può cominciare con un ampio estratto dei passi fondamentali. Il resto lo si compra, o lo si trova in qualche biblioteca.
Comunque sia, il mio commentino potrebbe tornar utile (mica l'ho fatto per niente?!) e contiene qualche rimando ai files reperibili in rete.
«Vi sono varie forme di pacifismo, che si distinguono l'una dall'altra sulla base del diverso modo con il quale esse spiegano l'origine della guerra. Il pacifismo di Kant è preliminarmente un pacifismo giuridico, in quanto esso individua la principale causa delle guerre nello stato di anarchia internazionale, e di conseguenza affida la loro eliminazione alla istituzione di una comunità giuridica fra gli stati. L'“idea razionale di una comunità perpetua pacifica [...] di tutti i popoli della Terra che possono vivere tra loro in rapporti effettivi” cosí si esprime Kant “non è tanto un principio filantropico (cioè un principio etico), quanto un principio giuridico”.»
Così scriveva Norberto Bobbio nell'introdurre l'ennesima traduzione italiana di Per la pace perpetua. (1)
Sì, concordo. In effetti il punto vero, che tra l'altro non pare superato nemmeno oggi, è che quando due o più stati entrano in conflitto tra di loro, è perché non vi sono tribunali che possano sentenziare in modo vincolante chi ha ragione e chi ha torto. Pertanto a decidere era, e purtroppo talvolta è, lo scontro violento.
Kant si preoccupò soprattutto di mettere a fuoco come superare l'impasse, arrivando ad una forma di diritto internazionale accettabile universalmente.
E la condizione qual'era e qual'è?
Prima ancora che un'organizzazione sovrannazionale, una federazione tra gli Stati da intendersi come alleanza per la pace, Kant era ben consapevole di una priorità ancora più radicale: porre la ragione, e quindi i ragionevoli, a governare le sorti delle nazioni e del mondo.
Tanto che, parafrasando il Vangelo di Matteo, scriverà nell'Appendice: "Mirate innanzitutto al regno della ragion pura pratica e alla sua giustizia, e il vostro fine (il beneficio della pace perpetua) arriverà da sé". (1)
Come a dire, però, che anche il contrario avrebbe potuto avverarsi, ovvero che pure si fosse riusciti a costruire un sistema di diritto internazionale, un oscuramento di ragione sarebbe stato pur sempre possibile. Paradosso volle che l'agognata federazione nacque con le stimmate della santità: la Santa Alleanza reazionaria voluta da Metternich per impedire con la forza ogni cambiamento in senso democratico. Ecco l'oscuramento realizzato.
In questa luce, è bene mettere in chiaro un punto. Kant non fu mai un rivoluzionario nemmeno in senso liberale. Era un obbediente critico che rivendicava la libertà di parola e di pensiero. Credeva fermamente nel fatto che le riforme si potessero fare dall'alto, per iniziativa dei sovrani.
Vi sono nell'insieme dell'opera di Kant dei passaggi non propriamente pacifisti perchè intrisi nell'amaro calice del realismo e della sua filosofia della storia.
Così, ad esempio, in numerosi scritti precedenti il 1795 si possono trovare considerazioni positive sulla funzione della guerra nella storia.
Alberto Burgio nel nel suo saggio allegato all'edizione Feltrinelli di Per la pace perpetua (1991, prima edizione universale economica), scrive, proprio a proposito del lato positivo che Kant sembra aver riconosciuto alla guerra:
«Il riconoscimento di una funzione progressiva della guerra (e in genere del conflitto e della contraddizione) ricorre in molti scritti kantiani... che accolgono in ciò un topos classico della cultura illuministica (si pensi alle Considerations di Montesquieu sulla grandezza dei Romani o, per citare una fonte rilevante della filosofia classica tedesca, all'Essay di Ferguson). Che ciò non abbia tuttavia impedito ai suoi lettori contemporanei di cogliere nelle sue opere una ferma condanna della guerra - e magar di criticarlo proprio per questo - dovrebbe indurre a grande cautela e prevenire un'enfatizzazione unilaterale di questo motivo. Il fatto è che, sul piano del giudizio di valore, Kant non manca mai di subordinare la guerra al conseguimento della pace. La prima è sempre vista come un mezzo rispetto alla seconda e al fine supremo del raggiungimento della destinazione morale dell'umanità: come un doloroso ancorchè necessario strumento di elevazione della civiltà (dalla "libertà selvaggia degli Stati" all'ordinamento cosmopolitico), sempre a ogni modo teso alla realizzazione del proprio contrario la pace, appunto - e dunque alla propria soppressione.»
Certo, le cose son queste, e lo conferma in uno testo reperibile in rete Mario Miegge (2), il quale si riferisce in particolare a Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico del 1784:
«Questi scritti non avevano carattere utopistico. Kant non si proponeva di descrivere uno stato di perfezione ma di delineare una teoria dello sviluppo morale, giuridico e politico. La "pace perpetua " non era vista come una condizione extra-mondana ma come una possibilità del futuro storico, che è oggetto di speranza . Non "utopia", dunque, ma piuttosto - secondo le parole di Kant - un "millenarismo filosofico" , che si differenzia da quello della tradizione religiosa perché è fondato su di una considerazione razionale della storia del genere umano. Kant pensava che l’umanità, nel suo insieme, è chiamata (dalla Natura o, meglio, dalla Provvidenza divina) a sviluppare tutte le sue capacità e i suoi talenti. Analogamente agli economisti liberali del suo tempo, riteneva che lo sviluppo fosse favorito dalla competizione, che manifesta la "insocievole socievolezza" degli uomini, a condizione che questa competizione sia contenuta in un quadro di legalità. Poiché l’umanità, nella sua storia, è passata dallo "stato selvaggio" allo "stato civile", si può ragionevolmente supporre che anche lo "stato selvaggio" tuttora presente nei rapporti tra gli Stati (la guerra) possa essere superato. La guerra era vista da Kant essenzialmente come spreco e distruzione delle risorse umane. Non dimentichiamo che egli si riferiva alle guerre del Settecento: il secolo in cui i conflitti armati hanno prodotto il minor numero di vittime non soltanto tra i civili ma anche tra i militari!
L’argomentazione kantiana è dunque tanto più pertinente e plausibile, quanto più si accresce ila distruttività della guerra, che è giunta al culmine nel secolo XX. »
Dunque, Kant fu prima ancora che un pacifista giuridico, un pacifista razionale con un certo senso della storia. Anche le guerre hanno avuto una funzione, come lezione per i posteri. Perchè non si ripetano gli errori. Un uomo morale può ritenere indispensabile una guerra solo se con le spalle al muro.
Tuttavia noi dobbiamo lavorare alla costruzione della pace, non come un'utopia irrealizzabile, ma come un insieme di atti realistici che messi una accanto all'altro, uno dietro all'altro, possono portare alla vera pace.
Tra queste conquiste da attuare giorno dopo giorno, Kant vede la fine del dispotismo e l'instaurarsi di repubbliche.
Questo comporta la fine del capriccio privato di un sovrano e delle sue smanie di potenza ed il prevalere del senso popolare che sa quanto costano le guerre ed il mantenimento di eserciti.
Solo tra libere repubbliche, inoltre, sarà possibile costituire patti internazionali vincolanti ed infine una federazione di tutti gli stati.
Per Kant, inoltre, la fine delle ostilità non è sinonimo di pace. Tutt'altro.
La prima frase che incontriamo nel libro è:
Come spesso accade il periodare di Kant è un po' faticoso e pregno di allusioni, ma la sostanza è chiara: non c'è pace ma solo una tregua se nel trattato stesso non si va a fondo nel reciproco riconoscimento del diritto (sicurezza, frontiere sicure, cooperazione, scambi commerciali, culturali ecc.)
«"Un trattato di pace non può valere come tale se viene fatto con la segreta riserva di materia per una futura guerra."
Infatti se così fosse, si tratterebbe soltanto di una tregua e non di pace, che significa la fine di tutte le ostilità, e a a cui aggiungere l'aggettivo perpetuo e già un sospetto di pleonasmo. Le cause di una futura guerra già presenti, pur se al momento non sono forse note agli stessi pacificanti, vengono tutte annullate nel trattato di pace, per quanto poi un'abile ricerca riesca a scovarne cavillosamente nei documenti d'archivio. La riserva (reservatio mentalis) di antiche pretese da avanzare in futuro, cui non si fa ora il minimo accenno perchè ambedue le parti sono troppo esauste per continuare la guerra, malgrado la cattività volontà di utilizzare a questo scopo la prima occasione favorevole, appartiene alla casistica dei Gesuiti che non è degna dei sovrani, così come non è degno di un loro ministro il prestarsi a deduzioni di questo tipo, quando si giudichi la cosa come in sé stessa è.»
Kant vide una possibile tendenza di fondo nella dinamica storica: la spinta positiva ad una maggiore integrazione dei popoli.. Tuttavia, da buon realista, vide fino in fondo anche le spinte negative. Pertanto si guardò bene dal proporre per l'immediato la nascita di un superstato mondiale (o europeo), giudicandolo impossibile.
Scrisse:
«Per gli Stati, nel rapporto tra loro, è impossibile secondo la ragione pensare di uscire dalla condizione della mancanza di legge, che non contiene altro che la guerra, se non rinunciando, esattamente come fanno i singoli individui, alla loro selvaggia libertà (senza legge), sottomettendosi a pubbliche leggi costrittive e formando così uno Stato dei popoli (civitas gentium), che dovrà sempre crescere, per arrivare a comprendere finalmente tutti i popoli della Terra. Ma poichè essi, secondo la loro idea di diritto internazionale, non vogliono assolutamente una cosa del genere, rifiutando quindi in ipothesi ciò che è giusto in thesi, allora al posto dell'idea positiva di una repubblica universale (se non si vuole che tutto vada perduto) c'è solo il surrogato negativo di un'alleanza contro la guerra, permanente e sempre più estesa, che può trattenere il torrente delle tendenze ostili e irrispettose di ogni diritto, ma nel costante pericolo che questo torrente dilaghi. (Furor impius intus... fremit ore cruento.)»
Nessuna giustificazione all'ingerenza violenta negli affari interni ad un altro stato, perchè questo ha delle conseguenze...
Per la pace perpetua di Kant è uno scritto che può destare più di una perplessità, certo da molto da pensare. Indubbiamente riesce a toccare insieme i vertici del sublime e del meschino. Quanto meno apparentemente, perchè, se poi si scava nelle argomentazioni, si vedrà che il lato meschino è più che altro una sensazione fugace che tocca istintivamente gli animi più giusti, leali e generosi . Poi la fredda ragione la vince facilmente.
La sostanza è questa: se la pace è il primo di tutti i valori, se la vogliamo veramente, una delle cose da non fare è ingerire come stato negli affari interni di un altro stato.
In qualsiasi condizione ed a qualsiasi costo?
Più o meno sì.
L'espressione esatta usata da Kant è la seguente: "Nessuno Stato può intromettersi con la violenza nella costituzione e nel governo di un altro Stato".
Attenzione, quindi. Il discorso è complesso anche se esposto con relativa semplicità, e fondamentalmente lucido e coerente. Però quando si arriva qui, ci si stoppa, anzi ci s'inchioda, e non perchè si sia guerrafondai e teorici dell'attacco preventivo (proprio no), bensì perchè in fondo s'è sempre pensato che non solo si ha il diritto di autodifesa, ma perchè tutti si ha l'obbligo del tutto naturale di agire se qualche innocente è nei guai. Se un nostro vicino picchia sistematicamente la moglie, se un cane nel suo cortile sta per mordere un bambino, e persino se ladri son entrati nella sua casa per rubare... ecco, non ingerire sarebbe non solo meschino, ma proprio da cialtroni.
S'è sempre pensato così, anche tra gente che non fa filosofia, è parte del senso comune, che s'è dimostrato più volte contrario alla guerra.
Epperò ciò che vale per i rapporti tra persone, tra concittadini, può non valere sul piano del rapporto tra gli stati. Anche se c'è in corso un genocidio, una guerra di sterminio etnico, una persecuzione religiosa?
Kant non aggira il problema. Si potrebbe solo osservare che non lo presenta in tutta la sua drammatica verità odierna. Ma come poteva immaginare che saremmo arrivati a questo punto?
Infatti scrive:
«Che cosa lo può giustificare a fare così? Forse lo scandalo che uno Stato da ai sudditi di un altro Stato? Ma con l'esempio dei grandi mali che un popolo si è attirato con la sua mancanza di legge, questo Stato può servire piuttosto di monito; e, in generale, il cattivo esempio che una persona libera da all'altra non rappresenta (in quanto scandalum acceptum) alcuna lesione nei confronti di quest'ultima. E' anche vero però che non bisogna far rientrare in questa categoria il caso in cui uno Stato per discordie intestine si divida in due parti, ognuna delle quali rappresenta per sé uno Stato particolare, che pretende la totalità; qui il prestare aiuto ad una delle parti non potrebbe essere imputato a uno Stato come ingerenza nella costituzione di un altro (poiché qui c'è solo anarchia). Finchè però questa lotta interna non sia ancora decisa, questa intromissione di potenze esterne sarebbe un'offesa dei diritti di un popolo alle prese soltanto con la sua malattia interna, e indipendentemente da ogni altro, darebbe essa stessa scandalo e renderebbe insicura l'autonomia di tutti gli Stati.»
Non c'è bisogno di commento, è tutto chiarissimo e sorretto da logica ferrea.
Mi preme solo passare l'evidenziatore sulla considerazione finale: e renderebbe insicura l'autonomia di tutti gli altri Stati. Kant ragiona non solo in termini immediati, ma anche di prospettiva; vede le conseguenze più probabili ed allarmanti di un'azione anche generosa e volta per così dire a fin di bene.
E questo ci riporta a quanto abbiamo detto sopra: lo strapotere di una potenza rende insicuri tutti quelli che non vivono all'ombra della ricchezza e della forza di detta potenza. Se negli spiriti più nobili può provacare desiderio di emulazione, in quelli più ignobili ed abietti provoca risentimento ed odio distruttivo.
Quello che va capito è dunque che la strapotenza militare non rende di per sé più sicuri; tutt'altro: essa può provocare forme estreme di lotta come il terrorismo. Kant non lo aveva previsto, ma parlando di guerre di sterminio, lo aveva in qualche modo prefigurato.
La questione è ulteriormente sviluppata al punto successivo, quando Kant afferma: "Nessuno Stato in guerra con un altro si può permettere ostilità tali da rendere necessariamente impossibile la reciproca fiducia in una pace futura: per esempio, l'impiego di assassini (percussores), di avvelenatori (venefici), la violazione di una capitolazione, l'organizzazione del tradimento (perduellio) nello Stato nemico ecc."
Commento anche qui di estremo interesse:
« Si tratta di stratagemmi disonorevoli. Infatti anche in guerra deve pur continuare ad esserci una certa fiducia nel modo di pensare del nemico, perchè altrimenti non potrebbe essere conclusa alcuna pace e le ostilità si trasformerebbero in una guerra di sterminio (bellum internecinum); poichè la guerra è solo il triste rimedio necessario nello stato di natura (dove non esiste alcun tribunale che possa giudicare in forza del diritto) per affermare con la violenza il proprio diritto, in essa nessuna delle due parti può venire dichiarata nemico illegittimo (perché ciò già presuppone una sentenza del giudice), ma è solo il suo esito (come se si fosse davanti a un cosiddetto tribunale divino) che decide da quale parte stia la ragione; ma tra due Stati non si può pensare a nessuna guerra punitiva (bellum punitivum), dato che che fra di essi non ha luogo rapporto di superiore e subordinato. Da ciò consegue che una guerra di sterminio, nella quale l'annientamento può riguardare tutt'e due le parti contemporaneamente, e insieme ogni diritto, non concederebbe altro posto alla pace perpetua che non il grande cimitero del genere umano. Una guerra del genere quindi non deve assolutamente essere permessa, così come l'uso dei mezzi che ad essa portano. Che però i mezzi che abbiamo nominato portino inevitabilmente ad essa risulta chiaro dal fatto che quelle arti infernali, poichè sono ignobili in sé stesse, una volta che diventino abituali non si contengono a lungo dentro i confini della guerra, come per esempio, l'uso di spie (uti exploratoribus), dove non viene utilizzata che la mancanza di onore di altri (che ormai non si può più estirpare), ma si trasferiscono anche allo stato di pace, e così annullerebbe del tutto la sua intenzione.»
Fidarsi dei politici? Può un politico piegarsi alla legge morale e perfino farla propria?
Tra le cose che mi avevano più colpito quando lessi per la prima volta il Per la pace perpetua c'erano le considerazioni sul rapporto tra politica e morale nell'Appendice allo scritto. Anche se non viene richiamato esplicitamente, il nome che aleggia in negativo su tutto il passaggio è quello di Machiavelli e l'ovvietà universalmente riconosciuta della massima cara a politici e tiranni di tutto il mondo e tutte le epoche: il fine giustifica i mezzi.
Per Kant, niente di più falso. Se tutti ragionassero così, vivremmo in una jungla, anzi in un inferno, perchè a Kipling va ascritto il merito di aver chiarito che la legge della jungla giustifica solo gli animali che uccidono per procurarsi cibo secondo la loro natura. Dunque meglio la jungla che l'inferno.
Tuttavia, proprio il dispiegarsi del politico moderno, dei principi e dei despoti alla Machiavelli, costituisce la più radicale minaccia alla pace.
In teoria, dice Kant, non dovrebbe esistere alcun conflitto tra la politica in quanto dottrina pratica del diritto e la morale in quanto anch'essa dottrina del diritto. Kant dice quindi: nessun conflitto tra pratica e teoria del diritto.
Ma se si presenta la morale come una dottrina generale della prudenza, "una teoria cioè delle massime per scegliere i mezzi più validi per realizzare le proprie intenzioni calcolate sul vantaggio", si finisce col negare che esiste in generale una morale.
In realtà è l'arte politica a confezionare il detto: "siate prudenti come serpi." Ed è la morale ad aggiungere: siate candidi come colombe."Ma in questo si vede chiaramente il tentativo di iscrivere il politico in una dimensione cristiana piuttosto restrittiva, mentre le cose nella realtà non sono mai andate così. Nemmeno i Papi han fatto politica da cristiani.
Orbene, nonostante le difficoltà e gli insegnamenti negativi della storia, Kant non è pessimista: politica e morale possono congiungersi.
Questa è, anzi una delle condizioni della pace perpetua.
In questo quadro, Kant attua una distinzione (non troppo felice, a mio parere sotto il profilo delle definizioni) tra politico morale e moralista politico mirante ad evidenziare che solo il primo si muove nella piena legalità (morale e giuridica), mentre il secondo non rispetta i limiti e le regole, ordisce inganni, calunnia e ricorre volentieri a mezzi condannati dalla morale.
Sia che ciò avvenga all'interno di uno stato, sia che avvenga nei rapporti con gli altri stati, porta naturalmente alla guerra.
E' evidente che il cosiddetto moralista politico non è altro che un immorale, mentre il politico morale rischia di diventare nella sua versione più negativa, un moralista dispotizzante.
Di essi Kant scrive:
«Può sempre avvenire che i moralisti dispotizzanti (che errano nell'applicazione) contravvengano in vario modo alla prudenza politica (con misure prese e approvate frettolosamente); ma così l'esperienza di questo loro errore contro la natura non può non condurli a una via migliore; viceversa, i politici moralizzanti, mascherando i principi di stato contrari al diritto col pretesto di una natura umana incapace del bene che la ragione le prescrive, rendono impossibile il progresso, per quanto sta in loro potere, e perpetuano la violazione del diritto.»
In un saggio pubblicato sul web, Antonio Gargano presenta sinteticamente il ragionamento kantiano (3):
Politica e morale sono perfettamente ricongiungibili. [Kant] Prende in esame tre massime della politica che demolisce con critiche molto acute. Dice: la politica che respingo, inconciliabile con la pace perpetua, si fonda su massime spregiudicate, che portano soltanto a danni, non servono a niente. La prima, la più nota, è “Divide et impera”: seminare la discordia tra gli avversari in modo che si possa dominare più facilmente; la seconda è “Fac et excusa”, agisci e poi chiedi scusa, o, meglio, agisci e poi giustifica quello che hai fatto, cioè, agisci prima, usa la violenza, uccidi, conquista, dopo troverai sempre una giustificazione per poter dare conto delle tue azioni; crea prima la situazione di fatto e cerca solo dopo di darne giustificazione. Infine la massima suprema dell’uomo politico spregiudicato, del politico immorale, è: “Si fecisti nega”, se hai compiuto un atto malvagio, riprovevole, negalo. Kant analizza questo tipo di massima dell’uomo politico adducendo tutta una serie di esemplificazioni. Se è successo qualche cosa di negativo al tuo popolo, nega che sia dipeso da te, perché questo più o meno ti darà sempre vantaggio: l’importante è negare con decisione di aver fatto le cose che sono andate male. Kant sostiene che queste tre massime tratte machiavellicamente dal mondo romano sono tre massime negative, che portano vantaggi nell’immediato, ma sui tempi lunghi portano sventure. Il politico machiavellico, che si vuole fondare su queste tre massime, finisce anche col non avere successo. Invece bisogna ipotizzare la saldatura tra politica e morale.
E le parole usate da Kant spiegano ancor meglio:
«Queste massime politiche, è vero, non ingannano nessuno; infatti sono già universalmente note; e non è più neanche il caso di vergognarsene come se l'ingiustizia apparisse già palese davanti agli occhi. le grandi potenze infatti non temono il giudizio della massa comune, si vergognano solo l'una rispetto all'altra, ma per quanto riguarda quei principi, ciò che può far provare vergogna non è il loro venir resi pubblici, ma solo la loro mancata riuscita (infatti riguardo alla moralità delle massime sono tutti mperfettamente d'accordo), così a loro resta sempre l'onore politico, sul quale possono sicuramente contare, l'onore cioè di aver ingrandito la loro potenza qualsiasi strada sia stata percorsa per arrivare a questo risultato.
Da tutte queste contorsioni di serpente, fatte da una teoria immorale della prudenza per cavare fuori lo stato di pace tra gli uomini da quello di guerra dello stato naturale, risulta chiaro almeno che gli uomini, tanto nei loro rapporti privati quanto nei loro rapporti pubblici, non riescono a sottrarsi al concetto di diritto e non osano fondare la politica pubblicamente solo sugli artifici della prudenza e rifiutare così ogni obbedienza al concetto di diritto pubblico (cosa sorprendente soprattutto nel concetto del diritto internazionale), ma al contrario gli rendono tutti gli onori che gli spettano, dovessero anche escogitare cento scappatoie e mascheramenti per sottrarsi a esso nella pratica, e per attribuire a torto alla violenza scaltrita l’autorità di essere l’origine e il vincolo di ogni diritto.»
Moralizzare la politica: un'utopia? No, una condizione per la pace
Ancor oggi ha senso chiedersi se si possa ripulire il mondo della politica nazionale ed internazionale dalle figure più sconce ed immorali.
Chi ha memoria, sa che con Mani Pulite s'era solo iniziato... ed ora sembra d'essere tornati al punto di partenza.
Potremo mai uscirne?
Sono pessimista, però...tutto è possibile, se cresce la coscienza civile e quindi il potere d'influenza della ragione auspicato da Kant, che comunque era ben consapevole che senza moralità e ragione non si va avanti, anzi si torna indietro.
«La vera politica quindi non può fare nessun passo avanti senza prima aver reso omaggio alla morale e benché la politica in se stessa sia una difficile arte, tuttavia non è certo una tecnica la sua unione con la morale, infatti è questa che taglia il nodo che quella non è capace di sciogliere appena l’una e l’altra entrano in conflitto. Il diritto degli uomini deve essere considerato sacro per quanto grande sia il sacrificio da pagare per il potere dominante. Quindi non si possono fare le cose a metà e inventare un termine intermedio di un diritto condizionato pragmaticamente (tra diritto e utile), ma ogni politica deve piegare le ginocchia davanti al diritto e può però in cambio sperare di raggiungere se pure lentamente quello stadio in cui splenderà senza posa [...]. Se c’è un dovere e se insieme a esso esiste una fondata speranza di rendere reale lo Stato del diritto pubblico, pur solo in una progressiva approssimazione all’infinito, allora la pace perpetua, che segue quelli che finora falsamente sono stati chiamati trattati di pace (in realtà sono solo armistizi), non è un’idea vuota, ma un compito, un compito che, risolto a poco a poco, si fa sempre più vicino alla sua meta poiché i tempi in cui succedono progressi uguali diventano sperabilmente sempre più brevi.»
Compito dei filosofi è non stare a guardare, ma prendere pubblicamente posizione
«Che i re filosofeggino o i filosofi divengano re non c'è da aspettarselo, e neppure da desiderarlo, perché il possesso del potere corrompe inevitabilmente il libero esercizio della ragione. Che però re e popoli regali (che si comandano da sé secondo leggi di uguaglianza) non facciamo scomparire o ammutolire la classe dei filosofi, ma la facciano parlare pubblicamente, è ad entrambi indispensabile per la chiarificazione del loro compito e, dato che questa classe è per sua natura incapace di rivolta e unioni in club, la calunnia di fare propaganda non la riguarda.»
(1) I.Kant - Per la pace perpetua - Editori Riuniti, Roma, 1992.
(2) Mario Miegge, Intervento alla conferenza Diritti umani e ordine internazionale 26 maggio 1999, Biblioteca Comunale Ariostea, Ferrara
(3) Antonio Gargano, Il progetto per una pace perpetua di Kant