| home | indice Kant bicentenario | indice di filosofia moderna |
La critica della ragion pura (in versione
"light") - 14
Kant come Protagora? No, c'è una bella differenza...
di Daniele Lo Giudice
Ho volutamente ridotto all'osso la discussione kantiana delle prove dell'esistenza di Dio non perché siano di secondaria importanza nell'economia dell'opera, ma perché sostengo che vanno lette integralmente, tanto sono efficienti e rischiaranti. Non c'è filosofo, od aspirante tale, che possa pensare di eludere questo passaggio, e poi tranquillamente mettersi a discutere di ipotesi su Dio e quistioni di alta teologia.
A me interessa, personalmente, mettere in evidenza un altro aspetto, occasionalmente procurato da una discussione con un amico. Sosteneva questi che Kant, in fondo, non andò poi molto oltre Protagora, l'antico sofista, il quale aveva asserito: "riguardo agli dei, non so né che sono, né che non sono, né di che natura sono." Affermò ancora che la vita umana è troppo breve per venire a capo di del problema del divino.
Vorrei far comprendere che la posizione di Kant è molto diversa e non si può certo ridurre ad un semplice asserto: la ragione si arrende di fronte ad un problema insolubile.
Kant non si rifiuta di discutere, e nemmeno si rifiuta di credere e sperare. Non credo si possa leggere Kant per poi concludere che ha buono motivi il fideista a dire che le questioni religiose non possono essere affrontate e risolte razionalmente. Il compito della ragione rimane comunque quello di vigilare sia rispetto ad eccessi razionalistici (e quindi metafisici) sia rispetto agli eccessi mistici ed ad estasi plotiniane. In questo quadro la valenza dell'ideale della ragione rimane regolativo.
Un atteggiamento critico, in senso kantiano ovviamente - perché di "senso critico" in generale ne abbiamo forse tutti pieni le tasche - quindi in primo luogo autocritico nei confronti della propria ragione, è, come avvertiva Kant nella prefazione alla 2° edizione, innanzitutto negativo. Tale funzione si risolve «nell'impedire che noi, con la ragione speculativa, ci avventuriamo al di là dei limiti dell'esperienza; il che costituisce in verità il suo primo vantaggio. » (1)
Ma la critica ha, secondo Kant, una funzione positiva rilevante, sempre che si riconosca che «... sussiste un uso pratico della ragione (l'uso morale) assolutamente necessario, nel quale essa si estende inevitabilmente al di là dei limiti della sensibilità, senza tuttavia richiedere aiuti speculativi, ma semplicemente garantendosi dalle loro controazioni, per non entrare in contraddizione con sé stessa. » (1)
E allora, si dirà, trovandosi nelle condizioni di Protagora, alle soglie del suo stesso pensiero scettico ed ateo, che fa Kant?
Ecco la risposta che può sconcertare, ma che rischiara tutte le pagine che abbiamo letto aprendole a ricevere una luce nuova: «Ho dovuto sospendere il sapere (e non sopprimere, come tradotto da Gentile; e non eliminare, come tradotto da Colli) per far posto alla fede; e il dogmatismo della metafisica, convinto di poter procedere in esso senza una critica della ragion pura, è la vera sorgente dello scetticismo che contrasta con la moralità ed è sempre dogmatico.» (1)
E questo ulteriore passo, sempre tratto dalla prefazione alla 2°edizione chiarisce ulteriormente cosa si proponeva realmente Kant, con grandissima diversità da Protagora: «Ho preso tuttavia in considerazione le pretese del filosofo speculativo che risultino più ragionevoli. Egli resta sempre l'esclusivo depositario di una scienza utile al pubblico, senza che questo se ne renda conto, cioè della critica della ragione; essa non potrà infatti mai diventare popolare, ma non ha bisogno di diventarlo; infatti, allo stesso modo che, al popolo non avviene di considerare verità utili gli argomenti artificiosamente sottili, così non gli appaiono tali le obiezioni contrarie, egualmente sottili; d'altra parte, poiché la scuola, come ogni uomo che si elevi alla speculazione, incappa inevitabilmente negli uni come nelle altre, alla critica incombe di prevenire una volta per sempre, mediante una disanima approfondita dei diritti della ragione speculativa, lo scandalo - che presto o tardi deve giungere sino al popolo - nascente dalla contesa in cui restano coinvolti inevitabilmente i metafisici privi del controllo della critica ( e come tali, infine, anche molti uomini di chiesa), col risultato di falsare le loro dottrine. Solo la critica può estirpare sin dalle radici, il materialismo, il fatalismo, l'ateismo, l'incredulità dei liberi pensatori, la fantasticheria, la superstizione, che posson recare danno a tutti, e finalmente anche l'idealismo e lo scetticismo, che sono pericolosi particolarmente per le scuole, dato che difficilmente possono arrivare al pubblico. » (1)
Ora, lungi dall'affermare che la critica debba censurare in qualche modo le posizioni summenzionate, non vi sarebbe altrimenti nemmeno bisogno di una critica, visto che rimarrebbe ben poco da criticare, è evidente che la lezione kantiana va intesa come soprattutto un invito a prendere tutte le iniziative necessarie per educare all'uso della ragione.
L'invito ai governi ad impegnarsi per la libertà di tale critica è esplicito. Diventa automaticamente una posizione politica liberale, quantomeno nel senso che lo stato deve garantire questo diritto ad un'educazione non dogmatica.
Ma il discorso non finisce qui. Proprio là dove Protagora sembra arrendersi alla diversità delle sensazioni in ogni individuo, e quindi cadere in una visione nella quale è "l'uomo la misura di tutte le cose", ma l'uomo come particolare costituzione fisico-psicologica, come particolare risultato di una cultura, in ognuno diversa, Kant non solo afferma che tutti potremmo ragionare allo stesso modo, se solo fossimo più attenti alla struttura del pensiero, ma che proprio la ragione non ha alcuna funzione creativa e diversificante. Il suo oggetto è l'intelligenza stessa. Il compito di fabbricare concetti spetta all'intelletto. Questo raccoglie il molteplice servendosi di concetti, mentre la ragione raccoglie il molteplice dei concetti servendosi delle idee, le quali sono comunque associazioni di concetti prodotti dall'intelletto.
Ma,ancora secondo Kant, le idee trascendentali sono inadatte a qualsiasi uso costitutivo. Il tentativo di impiegarle così conduce ad una tendenza raziocinante e dialettica, ovvero ad un abuso della ragione.
Eppure: «Esse hanno però un uso regolativo vantaggioso e imprescindibile, consistente nel dirigere l'intelletto stesso verso un certo scopo, in vista del quale le linee direttive delle sue regole convergono in un punto, che pur non essendo null'altro che un'idea (focus imaginarius), cioè un punto da cui non possano realmente provenire i concetti dell'intelletto - perchè [tale punto] si trova al di fuori dell'esperienza possibile - serve tuttavia a conferire a tali concetti, la massima unità ed estensione possibile.» (1)
La ragione tende di per sé ad assumere due atteggiamenti opposti, ma non necessariamente contraddittori. Può generalizzare e può specificare. Questi atteggiamenti sono a volte compresenti nella stessa persona, ma spesso e volentieri si trovano in ogni pensatore più accentuati in un senso o nell'altro. Ed è questa tendenza che, unitamente ad eventuali componenti di malafede, porta a dispute di tipo sofistico, dispute di fronte alle quali Protagora avrebbe preso partito in maniera ben differente.
Kant non ha esitazioni ad assumere una posizione davvero interessante: «Se assisto alle dispute colte intorno ai caratteri distintivi degli uomini, degli animali e delle piante, o dei corpi del regno minerale, nel corso delle quali alcuni fanno, ad esempio, leva su particolari caratteri nazionali, trasmessi per discendenza ed anche su nette distinzioni ereditarie fra le famiglie, le razze, ecc., mentre altri pongono mente solo al fatto che la natura, a questo proposito, ha proceduto ovunque allo stesso modo, sicché ogni differenza non si fonda che su accidentalità estrinseche - non ho che da prendere in esame la costituzione dell'oggetto per rendermi subito conto che esso si trova così profondamente celato agli sguardi degli uni e degli altri, da togliere ai loro discorsi ogni possibilità di fondarsi su un'effettiva comprensione della natura dell'oggetto. Tutto si riduce al duplice interesse della ragione, di cui le due parti prendono a cuore, o fingono di farlo, soltanto un aspetto.» (1)
Siamo alla conclusione.
Arrivederci al prossimo capitolo, che è l'ultimo
(continua)
note:
(1) tutte le citazioni dalla Critica della ragion pura
DLG - 20 maggio 2004