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Matti da curare: la follia secondo Kant
di Guido Marenco
Abbiamo a disposizione un libricino di 111 pagine, Saggio sulle malattie della mente (1), introdotto con ammirevole sapienza da Luciano Dottarelli, ma ciò che interessa veramente qui è l'inedito che va da pagina 59 a pagina 77, con l'aggiunta di una lettera a Borowski avente per oggetto il fanatismo. Un po' poco se si pesano i libri in base alla voluminosità. Che diventa pochissimo se si considera che parte del saggio coincide persino parola per parola con un un capitolo dell'Antropologia da un punto di vista pragmatico, che pure è riportato qui come Delle deficienze e delle malattie dell'anima in relazione alla facoltà di conoscere.
Ciò nonostante, il Saggio sulle malattie della mente, estratto e tradotto da Luisa D'Ortenzi dal II volume delle Opere complete, ha un suo interesse specifico. Fortunamente, si tratta di uno scritto ad alta densità, che dice "in breve" e con amabile leggerezza ciò che non si trova altrove. Kant ha una chiara idea di ciò che significa malattia mentale, e non l'ha derivata solo dalla sapienza medica e psichiatrica del suo tempo. Qualche "folle" deve averlo visto e valutato sul serio, ovviamente secondo criteri non medici. Ma, stranamente e molto opportunamente, giunge alla follia attraverso un ragionamento obliquo e diverso, che si potrebbe e dovrebbe riportare a Rousseau, e che in qualche modo potrebbe anticipare persino il Kipling del Libro della giungla. La società umana corrompe l'uomo. Lo fa anche ammalare. Tocca all'uomo decorrompere la società, ma questo non è facile, anche se non è impossibile, perché in primo luogo l'uomo deve decorrompere sé stesso. Chi non è moralmente puro, anche quando è animato dalle migliori intenzioni, fa solo danni.
Il pensiero mi corre agli anabattisti del XVI secolo ed allo strepitoso L'opera al nero di Marguerite Yourcenar, che sto scandagliando in questi giorni. La vena di follia che percorre il romanzo si estrinseca in vari personaggi tipici. La 'ragione' sta da una parte sola, quella dei mercanti e dei borghesi che sanno il fatto loro. Tutti gli altri hanno un deficit, anche quando risultano intelligenti. Usano la risorsa in modo negativo, che si traduce in una corsa alla morte, spesso alla morte 'gloriosa', al martirio di chi si fa esplodere oggidì. Anche queste sono le radici cristiane dell'Europa, radici rizomatiche di impurità, lascivia, schifose teorie costruite sull'ipocrisia da un lato e l'intolleranza dall'altro.
Il mondo descritto dalla Yourcenar manca già di un 'centro'. Non è più Cristo, non è più la chiesa cattolica, non è nemmeno la fede pura senza la chiesa proposta da Lutero, non è la moderazione di Erasmo, non è ancora la 'ragione' classica contestata da Foucault. E' una terra di mezzo popolata da meccanici ingegnosi che di notte fanno alchimia e commerciano con il maligno e di giorno si prestano alla razionalizzazione produttiva. Alcuni sanno delle bizzarre teorie di Copernico. Molti non sanno, ma fa niente, non è in questione il rapporto tra terra e sole, è in questione il 'centro' terrestre e la direzione da prendere se un 'centro' non c'è più. Ci sono periferie desiderabili?
Un mondo di 'corrotti' e 'de-centrati', abitati dalle passioni, posseduti da visioni, affamati ed ammalati, insicuri quando non guidati da spiriti del mondo: potrebbe essere questa la chiave per interpretare la follia, se la follia esistesse veramente, se questa disperata ricerca di azioni per la morte di qualcuno non fosse altro dalla follia.
O no?
Temo di no.
La corsa alla morte ha in sé la negazione della vita che è la vera follia. Nessuno è entusiasta della vita, ci mancherebbe. Ma, come dice Kant, senza entusiasmo non si va da nessuna parte. Bisogna distinguere l'entusiasmo dal fanatismo.E ciò che purtroppo emerge dal romanzo della Yourcenar è che anche il XVI secolo fu un tempo di fanatismi.
Ai tempi di Kant le cose erano leggermente migliorate.
Come scrive Ellenberg: « L'enorme influsso dell'Illuminismo sulla medicina viene di solito lasciato in disparte. L'Illuminismo inaugurò la pediatria, l'ortopedia, l'igiene pubblica e, tra le altre cose, anche la profilassi con le sue campagne per la vaccinazione antivaloiosa. L'Illuminismo influì sulla psichiatria in molti modi, incominciando dalla sua laicizzazione. Molti sintomi che prima venivano considerati frutto di stregoneria o di possessione incominciarono a venire considerati forme di malattia mentale. Si cercò di spiegare la malattia mentale in modo scientifico. Il rapido progresso della meccanica e della fisica suggerì di adottare un modello meccanicistico in fisiologia e di riportare la vita psichica all'attività del sistema nervoso. Per l'importanza che si dava alla facoltà della ragione, la malattia mentale veniva considerata essenzialmente come un disturbo della ragione. Si credeva che le sue cause fossero o qualche lesione organica, in particolare del cervello, o il mancato controllo delle passioni. Per questo i rappresentanti dell'Illuminismo insegnavano i principi di quella che oggi chiameremmo igiene mentale, basati sull'addestramento della volontà e sulla subordinazione delle passioni alla ragione. » (2)
Temi sui quali si cimentò anche Kant, possiamo dirlo con tranquillità. L'intera sua opera è una terapia contro le degenerazioni della ragione, non solo quella dei poveri dementi, ma anche quella assai meno diagnosticata di tanti pensatori deliranti. Sragionamenti alla radice di ogni follia che non sia imputabile, secondo il linguaggio attuale dell'OMS, a insufficienze mentali congenite.
Leggendo questo Kant, per un certo tratto, si ha l'impressione che il titolo del saggio sia fuorviante: le malattie della mente sono la bugia, l'inganno, le velate allusioni, il "qui lo dico e qui lo nego", il parlare sommesso alla nuora affinchè la suocera aguzzi le orecchie. Ovvero tutto l'armamentario del doppio-giochismo sociale e familiare cui erano costretti gli individui dell'aristocrazia e della borghesia del tempo ed anche quelli attuali.
Ma non è così: Kant arriva, proprio quando meno te l'aspetti, a dire anche cosa è 'follia', secondo schemi precisi: una degenerazione delle tre facoltà fondamentali dell'individuo umano, ovvero l'intelletto, la facoltà di giudizio, la ragione quale facoltà di discernere tra giudizi di carattere generale. Eppure, Kant si sentì in obbligo, preliminarmente di affrontare un tema sintetizzabile come ipocrisia unita all'astuzia ed alla saviezza. Se il peggior nemico dell'uomo è l'uomo stesso, ma non il medesimo uomo, non la medesima umanità, è ovvio che l'uomo si deve guardare dagli altri, essere socievole per disposizione e calcolo, ma con riserva e molte cautele.
L'avvertenza non è però calata dall'alto, in forma oracolare e sapienziale, ma ragionata.
Come ormai tutti sanno, la vita si dovrebbe affrontare sia per imperativi ipotetici sia seguendo l'imperativo morale categorico, il quale si trova solo nella libertà di decidere. Ma è così solo "sulla carta", un ideale che converrebbe seguire nei momenti cruciali, ma che pochi applicano realmente. Per tutti noi, l'unica cosa che conta, in termini razionali, è il se vuoi questo, devi fare così. Dove, non sono forse chiari né il "questo" che vogliamo, né il "così" del dobbiamo. Il "così" è del tutto relativo, adeguato alla situazione, richiesto dalle circostanze. Il "questo" è spesso inesprimibile, o dichiarabile solo in termini generici, se non si tratta di un oggetto definito, ma di una situazione. Quale situazione? Il bello è che pochi sanno dirlo con precisione. E' un sogno molto sfumato e nebbioso, soprattutto in chi pensa agli altri e non a sé. Ma anche quando si pensa a sé le cose non vanno meglio. Cosa voglio diventare? Cosa voglio avere? Con chi vorrei stare? Come? Fai queste domande ad un insoddisfatto e vedi che succede...

La vita di tutti i giorni si affronta per imperativi ipotetici, anche se per me è categorico anche l'imperativo di mangiare. L'individuo semplice, quello allevato da Rousseau lontano dalle deformazioni etiche della 'buona' società, definito da Kant 'buon uomo' con dolorosa ironia «...viene a significare non più in senso metaforico, ma in senso proprio, "babbeo"...» E Kant accenna ad una parolaccia che la D'Ortenzi traduce con "coglione". Chi non afferra l'invisibile logica del doppio-senso e del doppio-gioco è un coglione.
Ma non è questa una situazione da manicomio?
Non siamo noi i matti che accettiamo di vivere in questo mondo?
Kant non è così esplicito, ma ci va molto vicino con l'allusione.
Tornando a qualche riga indietro, abbiamo che «... ognuno è assai più geloso dei privilegi dell'intelletto che non delle qualità della buona volontà e che, nel confronto con la stupidità e la furfanteria, nessuno esita a dichiararsi a favore di quest'ultima; la qual cosa si può ben comprendere perché, se tutto dipende in generale dall'artificio, non si può fare a meno della sottile astuzia, sì invece della probità che in date circostanze è solo d'impedimento.»
Qui Kant non accenna al fatto che un costante agire disonesto e calcolante, alla fine ti taglia fuori e potrai godere di qualche amicizia solo se ricco e potente. Concetto che fu chiaro ad Adam Smith, che di calcoli economici si intendeva. E' forse un'omissione involontaria, ma al fine del suo dire poteva avere una certa importanza, magari come valore aggiunto all'ipocrisia. Si può provare ad essere onesti per calcolo: è l'ultima risorsa, la più disonesta ed aberrante di tutte, ma spesso funziona. Per questo anche il babbeo potrebbe farcela, secondo Smith, che era lo spot del tempo: Come si fa a non essere ottimisti?

Cosa c'entra tutto ciò con la follia?
Domanda che dovrebbe avere già in sé la risposta. A forza di sdoppiarci, se abbiamo un vero "io", si rischia la follia. Ora seguiamo Kant. Le passioni «sono le forze motrici della volontà.» L'intelletto valuta. «Nel caso che una passione sia particolarmente forte, la capacità intellettiva può fare ben poco contro di essa.» Noi siamo infatti in grado di vedere tutto ciò che sconsiglia di agire comunque per raggiungere lo scopo, ma siamo incapaci di sottrarci al sortilegio.
La stoltezza sta, al contrario, nell'incapacità di vedere le conseguenze, alla faccia dell'indeterminismo assoluto (nota mia).
« Uno stolto può avere molta intellelligenza proprio nel giudicare quelle azioni nelle quali si dimostra stolto, anzi deve avere un certo grado di intelligenza ed un cuore buono per potere usare questa denominazione attenuato dai suoi eccessi. In ogni caso lo stolto può essere un buon consigliere per gli altri, benché il suo consiglio non sortisca nessun effetto riguardo a sé. Egli si corregge solo attraverso il danno e l'età, i quali tuttavia spesso rimuovono una forma di stoltezza per dar luogo ad un'altra.»
«Lo stolto non è savio, lo sciocco non è intelligente.»
«Non è lecito disperare del tutto che uno stolto possa un giorno diventare assennato, ma chi intendesse far diventare intelligente uno sciocco è come se volesse candeggiare un moro.»
Gli sciocchi sono quelli che più facilmente si fanno ingannare per mancanza di comprendonio, gli stessi che dopo diversi inganni tornano a commettere il medesimo errore semplicemente perché l'ingannatore è diverso ed allettante. La battuta che ci riserva Kant sarebbe esilarante se non fosse, in fondo, amara e drammatica. «Lascio ad altri decidere se ci sia effettivamente motivo di preoccuparsi per la sconcertante profezia di Holberg: che il quotidiano aumento degli sciocchi sia tanto allarmante da poter temere che essi possano mettersi in testa di fondare la quinta monarchia.» Cioè, detto tra noi, la terza repubblica.

E' molto interessante il modo in cui Kant affronta l'ipocondria perchè fu egli stesso affetto da questo morbo della psiche, come confessò candidamente nello scritto sul conflitto delle Facoltà . Nell'ipocondriaco prevale "la costituzione fantastica dell'animo" che provoca l'illusione, "mera fisima". «L'ipocondriaco soffre di un male che, quale ne sia la sede principale, tuttavia verosimilmente percorre senza sosta tutto il tessuto nervoso, in ogni parte del corpo. Soprattutto però esso avvolge di un velo di malinconia la sede dell'anima, di modo che il paziente sente in sé l'illusione di quasi tutte le malattie di cui abbia sentito parlare. Perciò egli di nulla parla più volentieri che del suo malessere, gli piace leggere libri di medicina, trova dovunque corrispondenze con i propri casi, in compagnia gli ritorna anche inavvertitamente il buon umore e allora ride molto, mangia di gusto e ha di solito l'aspetto di una persona sana. Per quanto riguarda la sua interna fantasticheria, le immagini acquistano spesso nel suo cervello un'intensità ed una durata per lui dolorosa. Quando nella sua mente si forma un'immagine ridicola (per quanto egli stesso la riconosca come una pura immagine di fantasia), se questa fisima gli suscita un riso sconveniente in presenza altrui senza che egli ne manifesti la causa, o se tetre rappresentazioni di ogni sorta suscitano in lui un violento impulso a compiere qualcosa di malvagio, della qualcosa egli stesso penosamente si preoccupa, benché non giunga mai a tradurla in atto: allora il suo stato è molto simile a quello di un allucinato solo che manca la pericolosità. Il male non ha radici profonde e di solito si risolve, per quanto riguarda l'animo, o da se stesso o per mezzo di qualche medicina.» (1)
E' evidente che solo un individuo che abbia vissuto dall'interno questa particolare patologia della psiche, o solo uno psichiatra specialista, avrebbe potuto manifestare una simile lucidità. Come a dire che solo chi è un po' pazzariello, ma conserva un rapporto profondo e fecondo con la propria ragione e, come consiglia la psichiatria moderna, conserva un possibilistico rapporto con la realtà ed un realistico rapporto con la possibilità, può scrivere sulla follia senza farsi troppo male.


note:
1) Immanuel Kant - Saggio sulle malattie della mente - Massari 2001
2) Henry F. Ellenberg - La scoperta dell' inconscio - Bollati Boringhieri, Torino 1972