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Karl Jaspers: Psicologia delle visioni del mondo
Kant e la sua visione
di Guido Marenco
Un recente lavoro di Pascal Engel, Filosofia e psicologia (Einaudi), ha riaperto gli archivi dell'annosa querelle tra logici e psicologi che animò il confronto all'inizio del '900. Scorrendo il libro, si può rimanere sorpresi dal mancato riferimento a Jaspers, e quindi da una qualsiasi citazione tratta dalla Psicologia delle visioni del mondo, il testo del 1919 che segnava il passaggio di Jaspers, laureato in medicina, dalla disciplina delle psicopatologie alla teoresi filosofica. Eppure, Jaspers si proponeva in modo già piuttosto autorevole come filosofo della coscienza, a partire da una psicologia di taglio fenomenologico. La dimenticanza di Engel a Jaspers si potrebbe spiegare per la scarsa incidenza di Jaspers sul terreno specifico del rapporto tra logica e psicologia, ma va segnalata come una stravagante dimenticanza nel quadro del rapporto generale tra psicologia e filosofia, un rapporto che non si può ridurre alla lotta tra logici e psicologi, quindi al problema della fondazione della logica, dei modo del ragionamento, della matematica e della scienza. In maniera del tutto inedita, Jaspers dimostrava non poco talento nell'evidenziare le radici psichiche non tanto della logica e di quel particolare sapere che ne deriva, quanto di quella parte della filosofia portata al 'grande discorso', al 'giudizio' sul mondo stesso e sulla vita quale portatrice di bene e di male, di dolore e gioia, delle inestricabili vie che portano all'uno e all'altra. Le pagine sul 'mistico' e sul 'demoniaco' hanno una sconvolgente profondità; su alcuni filosofi cade non raramente una nuova luce. Il libro, una volta vinta l'inevitabile irritazione per l'uso esagerato di parole come universale, assoluto, totalità, abisso, essere e nulla (cioè termini che rischiano di non significare più nulla di autentico se riproposti ossessivamente) cattura l'attenzione su ciò che sta al di sotto delle parole stesse, che è poi quello che conta. E ciò che conta è un termine chiave del lessico jaspersiano: situazione. Ognuno di noi si trova in una situazione.

Dimenticare Jaspers, è quindi un errore e vedremo perché poco alla volta. Cominciamo col dire che Jaspers non si si collocò in un punto nevralgico della querelle, non prese partito o per la logica o per lo psicologismo. Si limitò ad asserire che la psicologia può dire qualcosa sulla filosofia, ha il diritto e il dovere di dirlo, può aiutarla a comprendere l'uomo, infanticabile produttore di visioni del mondo. Una visione del mondo nasce da motivi psicologici, anche se non sappiamo quanto essi incidano. C'è un'attitudine alla mistica, così come si da una predisposizione al razionalismo, alla logica, all'analisi del linguaggio, all'empirismo, al marxismo o alla fenomenologia. C'è il fatto che ognuno degli approcci al mondo non è mai presente, salvo casi eccezionali, in maniera esclusiva. E, anche lo fosse, esso dovrebbe nutrirsi di visioni contrapposte per alimentarsi.
Riproporre tali questioni può giovare sia agli studi di storia di filosofia, sia all'aggiornamento dell'armamentario teorico con cui si fa teoresi. Ma, anche sul versante degli studi di psicologia il lavoro non dovrebbe essere disprezzato, se, come osserva lo stesso Jaspers, la psicologia non vuole ridursi ad una mera scienza del potere di uomini su altri uomini, i quali hanno dei punti deboli, non resistono alle seduzioni, non sopportano il dolore, e possono venire condizionati nei loro comportamenti con raffinate tecniche pavloviane. Ognuno di noi, pensando alla psicologia e sentendosi trattato come 'oggetto' di uno studio, potrebbe giustamente inquietarsi o persino ribellarsi all'idea. Qualsiasi ritratto tipologico emergesse, qualunque predisposizione venisse individuata 'scientificamente', anche la più desiderabile, suonerebbe nel nostro intimo come 'ingiusta'. Siamo sempre un po' più complessi rispetto a chi ci vorrebbe semplificare, e sempre troppo semplici per gli amanti delle complicazioni. Chi giudica chi? Il limite della scienza è che essa può oggettivare tutto, salvo l'uomo in quanto uomo e non in quanto parte anatomica, funzionalità fisiologica, sistema nervoso e apparato digestivo. Non solo perché dire cos'è l'uomo in quanto uomo non è affatto semplice, ma perché l'uomo si ribella, credo molto giustamente, ad eccessive intrusioni nella sua sfera privata. Tante filosofie sono nate così: come reazione alle oggettivazioni.
Lo stesso Jaspers, reagendo alla psicoanalisi, decretò che essa sbagliava gravemente nel ridurre l'inconscio alla sessualità. Eppure, ancor oggi, la questione rimane aperta, e non è che le teorie alternative contribuiscano in misura decisiva ad elevare l'essere umano ad una verginea nobiltà. Basta dare un occhio al comportamentismo, per rendersi conto che la teorie del condizionamento e del rinforzo sono ancora più inquietanti, se è vero che muovono dal concetto di individuo plasmabile a piacimento.

Jaspers, in realtà, non è facilmente classificabile. Non si può iscrivere al partito dello psicologismo con gesto forzoso. Il suo metodo è la fenomenologia. Che nonostante tutti gli sforzi husserliani e post-husserliani, mai è riuscita a diventare scienza rigorosa, anche se non si può negare abbia portato notevolissimi contributi alla rigenerazione della filosofia.
Spiegare cos'è la fenomenologia non è affare semplice. Si dice spesso "andare alle cose stesse", con un approccio pre-categoriale. Semplificazione ai limiti della caricatura. Tentativo di ridurre la fenomenologia al 'mistico', cosa che non è accettabile perché la fenomenologia evidenzia sempre 'qualcosa', anche se non è estranea a configurazioni di Gestalt. Che comunque non sono 'mistiche', ma olistiche ed hanno base percettiva, mentre il mistico nemmeno sai se,destandosi al mattino, riesce a distinguere il rosso dal blu o il caldo dal freddo.
Jaspers non può esimersi dal muoversi in termini categoriali: qualità, relazione, contesti temporali. Perfino schemi. Non si fa psicologia in modo precategoriale. Per valutare il 'mistico', cosa che a Jaspers riesce egregiamente, occorrono le categorie della logica e della storia, nonché l'arte della descrizione. Insisto su questo punto: una fenomenologia che si rispetti comincia con descrizioni appropriate, ricorre a tecniche letterarie.
Comunque sia, questo lavoro di Jaspers può aiutare a capire come si possa fare fenomenologia in concreto.
Si tratta di un tentativo di una fenomenologia delle visioni del mondo che non pretenda di descrivere l'uomo come un invasato posseduto dallo spirito del mondo. Essa va all'uomo in modo più semplice, un uomo che non è solo un fattore storico, una pedina sulla scacchiera, un inconsapevole portatore dello spirito e delle tante astuzie della ragione impersonale. Così, entra in gioco Hegel e la sua Fenomenologia. «A dispetto della nostra ammirazione - scrive Jaspers - e per quanto sia impossibile, non dico contrapporre, ma paragonare qualche cosa a quest'opera, noi siamo insoddisfatti di tale unità sistematica. Essa è troppo manifestatamente e troppo definitivamente un sopruso, poiché non c'è mai un momento in cui il sopruso cessi. E' più che psicologia, e d'altra parte è psicologicamente insufficiente. Noi avvertiamo che essa limita i nostri orizzonti. Siamo costretti a uscire all'aperto nella vastità del psicologico, dove facciamo sì uso di troppe enumerazioni, di troppi cataloghi, ma possediamo anche, in cambio, degli spunti sistematici che non si assolutizzano. Noi utilizziamo in parte, con gratitudine, i punti di vista e le descrizioni hegeliane, ma le spoglieremo inevitabilmente del loro slancio, della loro forma filosofica, poiché le assumiamo soltanto in senso psicologico.»
Detto brutalmente, dalla rivolta antihegeliana Jaspers esce rimettendo al centro l'idea che non l'uomo è posseduto da una visione del mondo, ma l'uomo produce e possiede visioni del mondo. Salvo poi ritrovarsi a constatare che alcune visioni del mondo possiedono davvero l'individuo, fino ad annullarlo. Come stanno realmente le cose? Fino a che punto una psicologia generale improntata e orientata dalla fenomenologia può dar conto di questi esiti così diversi? Fino a che punto, in ultimo, siamo veramente in grado di sfondare le pareti protettive del noumeno e vedere quale sia il 'contenuto della forma', come si sia costituita una coscienza nei suoi diversi gradi: individuale, sociale, globale? E' la visione del mondo che produce una coscienza, o è la coscienza che genera visioni? E poi, perché tutte le visioni del mondo tendono ad assolutizzarsi, a presentarsi cioè come "la" verità?

1. La psicopatologia
Jaspers, nato nel 1884, quando pubblicò questo testo aveva 35 anni e già portava sulle spalle il peso di un'opera come Psicopatologia generale, un tentativo ambizioso di applicare la fenomenologia alla delicatissima materia del disturbo psichico, centrato sulla critica allo scientismo meccanicistico e organicistico nella definizione, nella diagnosi e nella terapia del mal di vivere. Più prossimo a Freud ed a Janet - pur nelle loro irriducibili differenze - che alla psichiatria con fondamenti fisiologici, Jaspers credeva nell'autonomia dello psichico e quindi sosteneva che le anomalie non dipendono esclusivamente da cause fisiologiche, dal malfunzionamento nervoso, o da quant'altro sia riconducibile al corpo ed alla 'materia' di cui è fatto. In linguaggio attuale e appropriato alla scienza dei nostri giorni, diremmo che non è il gene che fabbrica la follia, al massimo predispone a sviluppare determinate sensibilità e attitudini comportamentali, ma il disturbo psichico è cosa ben diversa. Lo psicopatologo deve comprendere la genetica del disturbo, dove per genetica, ovviamente, s'intende una storia individuale nella quale la psiche sia stata particolarmente offesa, umiliata, calpestata.

2. Comprendere e spiegare
L'autore di Psicologia delle visioni del mondo ha già maturato alcuni superamenti dialettici delle antinomie più radicali del dibattito filosofico. Non per questo lo potremmo descrivere come in perfetto equilibrio sul filo sottile della consapevolezza; quel tipo di equilibrio non esiste: siamo sempre in stato precario, attirati ora di qua, ora di là, tirati da forze che sono in dibattito polemico, se non aperto conflitto. Jaspers ne è consapevole quando nell'introduzione scrive: «In verità noi non sappiamo mai quali forze, dentro di noi, si servono del razionale come di un mezzo; l'"interesse", le "idee", l'"essenziale" sono punti di vista razionali della scelta ed elaborazioni formali della nostra materia che rischiano sempre di permettere l'accesso nel campo della conoscenza a forze sconosciute. Inoltre noi non sappiamo mai quale invisibile visione del mondo ci muove per ultima, e siamo sempre pronti e disposti a rendere di nuovo coscienti quelle forze e ad elevarle nella cerchia delle nostre certezze; ma il processo di riconoscimento di tali forze motrici si dilunga all'infinito in una riflessione sempre più vasta.»
Non c'è un punto d''arrivo, né per la scienza, e quindi una certa psicologia, ancor meno per la filosofia tout court.
L'uomo di studi, indipendendentemente dalla qualifica che si è scelto o che gli hanno affibiato, sia quindi psicologo o filosofo, deve umilmente sforzarsi di comprendere e spiegare, tenendo ben ferma quella distinzione tipicamente jaspersiana fra i due termini, e già annunciata in Psicopatologia generale. Comprendere è un'intuizione interiore, lo spiegare reclama sempre il ricorso alla catena delle causalità. E' quindi il frutto di un'attenzione esteriore agli sviluppi ed ai mutamenti del mondo.
Il filosofo, precisa Jaspers, non viene necessariamente dalla filosofia. Nell'epoca attuale, "il filosofo migliore è uno scienziato che tiene per così dire i piedi in un settore della scienza, e in pratica indaga, senza mai perdere di vista il concreto, tutti i lati della conoscenza in generale, e sta in uno scambio continuo con la realtà, così come essa gli è presente nella sua concretezza". Secondo questo antichissimo significato della parola, filosofo potrebbe essere un economista, un matematico, un filologo. Perfino uno storico. La filosofia, in fondo, è la somma, almeno, di tre diverse indagini: la sociologica, la psicologica e la logica. Ma un individuo che si occupi insieme di psicologia, sociologia e logica, potrebbe non riuscire ad elevarsi alla filosofia. Non basta risalire all'universale, infatti. La filosofia "è sempre stata assai più che una considerazione dell'universale; ha suscitato impulsi, costruito scale di valori, ha dato alla vita umana un senso ed un fine, ha procurato all'uomo il mondo in cui sentirsi al sicuro e in una parola la visione del mondo."

Sicché, guardare all'universale non è ancora una visione del mondo. Occorre che alla considerazione dell'universale si aggiungano gli impulsi "che toccano l'uomo nella sua totalità e dalla sua totalità scaturiscano". Il filosofo non è mai stato un quieto e distaccato - Jaspers dice anche "irresponsabile" - osservatore. I filosofi hanno animato il mondo, hanno indicato delle vie. "Tale filosofia, che noi chiamiamo profetica, è sostanzialmente diversa da un'astratta considerazione dell'universale, in quanto ci dà una visione del mondo, ci indica un senso ed un significato, e costruisce scale di valori che han forza di norme."
Eppure, oggi, la filosofia profetica, eccettuato qualche "fiacco tentativo di restaurazione romantica" sembra essersi dissolta. Si dice filosofia quella che oggi è solo logica, solo storia della filosofia, solo psicologia. E la stessa considerazione delle visioni del mondo potrebbe non essere vera filosofia.
«Chi chiede impulsi, chi vuole che gli si dica che cosa è giusto, che cosa conta, perché si vive, come si deve vivere, che cosa si deve fare, chi infine vorrebbe conoscere il senso e la ragione del mondo, si rivolgerebbe invano alla considerazione dell'universale, anche se essa si cinge oggi del nome di filosofia. La considerazione dell'universale tratta degli impulsi, e di come gli uomini trovano il senso della loro vita, e che cosa essi giudicano giusto, quali esigenze sentono imprescindibili. Ma esso non prende posizione, esso non vuole - come fa invece la filosofia profetica - diffondere alcunchè, e a chi chiede il senso della vita dà sassi invece di pane, e respinge in se stesso chiunque voglia aderire, subordinarsi, diventar discepolo. Questi può solo apprendere, nel migliore dei casi un metodo. Ma ciò che conta deve trovarlo da sé mediante esperienze originali.»

3. Cosa può dire la psicologia?
Ora, il problema si presenta così: la psicologia può dire qualcosa sulle visioni del mondo esposte dalla filosofia? E cosa può dire? A che titolo? L'idea stessa che il filosofo stia al di sopra del raggio d'azione della psicologia appare a Jaspers semplicemente assurda. E credo che questo sia il presupposto, sebbene non lo si incontri scritto esattamente in questo modo. Anche il filosofo si presta ad essere osservato e studiato, indipendentemente dal fatto che noi si creda che il platonismo sia uno stato d'animo e non una teoria con eccezionale dignità filosofica. Non fa differenza. Lo stesso concetto di dignità filosofica, che sta al di sopra di tutte le altre dignità, potrebbe essere discusso, e sarebbe proprio questa la sede adatta per smontare tale sprezzante velleitarismo teoretico, visto che, se è vero che la scienza non si può arrogare il diritto di un uso esclusivo della ragione, la quale si ritrova su moltissimi altri terreni, anche la filosofia non può arrogarsi il diritto di essere il custode supremo della razionalità, perché una razionalità che non sappia comprendere e spiegare l'irrazionalità non è vera razionalità. Una filosofia che, quindi, negasse la psicologia, avrebbe già rinunciato a comprendere e persino a spiegare.
«Si suole chiamare psicologismo - scrive Jaspers - il tentativo di disfarsi di un problema esponendo le sue implicazioni psicologiche; un fatto ha o non ha valore, ed è indifferente come sia sorto. E' anche psicologismo giustificare, mediante il procedimento accennato, un fatto solo perché reale. L'uno e l'altro atteggiamento sono ben lontani da noi, in tanto in quanto ci limitiamo all'osservazione psicologica. L'uno e l'altro sono però possibili, e lo psicologismo come una censura e una condanna, quanto come un riconoscimento ammirativo di tutto. A noi basta vedere e sapere che cosa psichicamente era vero ed è tuttora possibile.»
Beh, questo passaggio dice molto, se non quasi tutto, ciò che deve essere capito e spiegato dell'approccio jaspersiano. E' interesse legittimo dello psicologo, o di chi viene da studi psicologici disinteressati, cioè non mirati ad acquisire 'potere' sull'uomo e sulla donna, sottoporre le diverse filosofie in quanto visioni del mondo, a indagine psicologica. Tale diritto (diritto?!?!) è giustificato dalla stessa filosofia. Jaspers fa i nomi di Hegel, Kant, Kierkegaard e Nietzsche, Max Weber. La fenomenologia dello spirito di Hegel è il primo "grandioso tentativo" di una psicologia sistematica delle visioni del mondo. Ma Kant aveva giò mosso un passo importante su questa strada. «Kant, per la sua dottrina delle idee, è il creatore del pensiero che una psicologia delle visioni del mondo non può non sottindere. Il quid, che vige come tutto o come esistenza, e che viene indicato con parole quali idea, o spirito, o vita, o sostanza, che è indimostrato o indimostrabile, e che si ride di ogni formulazione, poiché ogni formulazione deve di necessità essere nuovamente annullata, che è dunque non già presupposto razionale, o un principio logico, ma sibbene un pensiero infinitamente mosso e insieme qualcosa di più che un pensiero, quel quid è il fondamento ed il fine in cui sono calate e comprese le formulazioni razionali di questo libro. Perciò tali formulazioni non sono autosufficienti e concluse in se stesse, ma dipendono in qualche modo da un fattore extralogico.»
Per spiegare meglio queste considerazioni su Kant, Jaspers rinvia all'appendice, che si trova alla fine del libro.

4. Kant e la questione psicologica
Jaspers pesca dalla Critica della ragione pura la seguente citazione: «Nessuno cerca di istituire una scienza senza avere a suo fondamento un'idea. Senonchè nella elaborazione che avviene di questa lo schema e anzi la definizione che uno dà fin dall'inizio della sua scienza assai raramente corrisponde alla sua idea. La sua idea risiede infatti nella ragione come un boccio in cui tutte le parti sono nascoste, ancora molto inviluppate e appena distinguibili all'esame macroscopico. Perciò le scienze - debbono essere spiegate e determinate non secondo la spiegazione che ne da il fondatore, bensì secondo l'idea che si trova essere fondata nella ragione per via della naturale unità delle parti che lo stesso ha messo insieme. Può accadere infatti che il promotore e spesso anche i suoi più lontani seguaci possano smarrirsi alla periferia di un'idea che essi non hanno saputo chiarire a se stessi. E' spiacevole che soltanto dopo aver passato molto tempo a raccogliere al modo di rapsodi, come materiale di costruzione, secondo i suggerimenti di un'idea in noi nascosta, molte conoscenze che si riferivano l'una all'altra nell'ambito di quell'idea... è spiacevole che soltanto allora ci sia possibile scorgere l'idea in una luce più chiara... I sistemi sembrano essere stati formati allo stesso modo di vermi, mediante generazione equivoca, per un concorrere di concetti insieme accennati, prima mutili, poi col tempo completi: quantunque tutti avessero il loro schema, come originario boccio, nella ragione che si sviluppa...» (1)
In tal modo, anche il processo di sviluppo della conoscenza scientifica si apre all'indagine psicologica. A ribadirlo, Jaspers richiama quest'altro passaggio di Kant: è «tutt'altro che inconsueto... che mediante il confronto di pensieri che un autore esterna sul suo oggetto, si capisce l'autore stesso meglio che egli non capisse se medesimo, in quanto egli non determinava sufficientemente il suo concetto, e perciò, a volte, parlava e finanche pensava contrariamente alla sua vera intenzione.» (2)

«E' un fatto singolare - scriva Jaspers - che nella scienza noi richiediamo una trasparenza e una chiarezza complete, e che d'altra parte il nostro interesse venga ad essere paralizzato quando queste qualità si siano sviluppate all'estremo. Noi richiediamo la chiarezza, ma richiediamo anche che essa sia la parziale espressione di un'idea. Quest'idea è presente nella produzione scientifica come un qualcosa di oscuro che, mentre è esposto ad attacchi inintelligenti, è per altro e in egual misura condizione della loro azione produttiva. La ragione non vuole l'oscurità, bensì l'idea. Essa si oppone al fervore che cerca l'oscurità, come si oppone dell'esattezza e della chiarezza in sé e per sé. Una qualche oscurità resta dappertutto attraverso il filo che conduce all'idea. Ed è per questo che ciò che è assolutamente chiaro e risolto desta il sospetto di una carenza di idee, di un'esattezza pura e semplice a cui manca ogni signficato ulteriore. Le nozioni esatte accumularsi all'infinito. Occorre che un'idea le colleghi al tutto.
Kant considera le idee dal punto di vista psicologico una seconda volta, quando distingue i caratteri scientifici in quelli il cui interesse è guidato dall'idea di unità, e quelli il cui interesse è guidato dall'idea di specificazione. Gl uni sono per esempio inclini, di loro natura, ad accogliere "caratteri nazionali particolari e fondati sull'origine, e anche differenze costituite ed ereditate delle famiglie, delle razze ecc.", gli altri pongono il senso nel fatto "che la natura, in questo prodotto particolare,ha creato disposizioni la cui specie è identica". La passione dell'uno è la differenziazione più ampia, egli vorrebbe accrescere sempre le differenze. La passione dell'altro è la più grande unificazione, anzi la piena unità della natura. Tutti e due hanno ragione finché la loro ricerca si svolge sotto la guida di un'idea, tutti e due hanno torto quando assolutizzano la loro idea e, in tal modo, la ipostatizzano come fosse una cosa reale.»
Se Jaspers avesse voluto insistere su questi delicatissimi tasti kantiani, non avrebbe trovate soverchie difficoltà, a partire dalla Sezione Terza della Dottrina Trascendentale del Metodo della Critica. Kant indaga, infatti, "intorno all'opinare, al sapere e al credere", asserendo subito che la credenza può poggiare su fondamenti oggettivi, ma esige anche cause soggettive. «Se essa è valida per chiunque sia in possesso della ragione, il suo fondamento è oggettivamente sufficiente, e la credenza prende il nome di convinzione. Se non invece altro fondamento che quello della particolare natura del soggetto, prende il nome di persuasione.
La persuasione è mera parvenza, perché il fondamento del giudizio, che era stato solo nel soggetto, è fatto valere come oggettivo. Un giudizio del genere ha pertanto solo una validità privata, e la relativa credenza non è comunicabile. La verità invece dipende dall'accordo con l'oggetto, in riferimento al quale, dunque, i giudizi di tutti gli intelletti non possono non essere d'accordo (consentientia uni tertio consentiunt inter se). Il criterio per giudicare se una cosa da noi creduta dia luogo a una convizione oppure a una mera persuasione, sta pertanto nella possibilità che sia partecipata e creduta dalla ragione di ogni uomo. In questo caso, c'è almeno la presunzione che la concordanza di tutti i giudizi - nonostante la diversità dei soggetti - avrà alla base un fondamento comune, cioè l'oggetto, col quale dunque concordano i giudizi, dimostrando in tal modo la loro verità.» (3)

5. Se "l'io penso" sia un'unità psichica o un carattere logico-formale
E' da notare che le citazioni di Jaspers, ed anche la mia, siano tutte in B, la sigla dei testi della seconda edizione della C.R.P. Ciò non è casuale, credo, perché è trapassata una considerazione, avvalorata da Nicola Abbagnano, sul carattere di unità psicologica dell'io penso che caratterizza la prima edizione della C.R.P., rispetto al carattere puramente formale che questo stesso io penso avrebbe nella seconda. Sfumature, o tratti fondamentali? Lo stesso Abbagnano afferma che nella seconda edizione "l'uomo conosce se stesso non come è in se stesso ma come appare a se stesso. Conosce se stesso, cioè, proprio come conosce tutti gli altri oggetti, come semplice fenomeno". (4)
Jaspers non ignora il problema della formalizzazione, e lo affronta fin dall'Introduzione, asserendo che "sono da distinguere forma e materia" sia nel soggetto che nell'oggetto. «L'unità che si costituisce al di sopra di loro, e che le abbraccia e le muove entrambe con la sua forza è l'idea. Nel soggetto funzione e movimento potrebbero assolutizzarsi in quanto tali e non fare alcun caso dell'elemento contenutisco, materiale dell'esperienza vissuta; a ciò corrisponde l'atteggiamento che nel soggetto non vede nulla d'importante fuorché l'elemento formale. L'opposizione di forma e materia, e la loro reciproca guerra, provocano la perdita dell'idea, che le avrebbe elevate entrambe a un'unità sostanziale. Ne sono esempi l'artefatto nell'arte, e, su un piano parallelo, la razionalità formale nel conoscere. In luogo di una espansione di vita che assimila e organizza, può sottentrare una volontà di potenza formale, in luogo dell'amore per la cosa e l'individuo concreto, il vuoto e generico amore per l'umanità, e in luogo del pensiero vivo e vissuto il puro pensiero razionale logico-formale col suo meccanicismo. All'esterno tutto sembra essere rimasto lo stesso, ma internamente l'anima è venuta meno. La formalizzazione può anche nascere se colui che ha fatto proprio il concetto che al di sopra della forma e della materia c'è l'idea che la supera, trascura sia la forma che la materia per rivolgersi direttamente all'idea, al tutto, dimenticando che questo è coglibile soltanto in un processo di movimento, e non direttamente né totalmente. Nasce allora l'eloquenza grossolana, l'animo patetico cui si dà il nome di sentimentalismo e che si diffonde nell'arte, nell'amore, nella politica e tendenza moralizzante. L'idea è stata colta soltanto in un effetto esteriore, che accompagna e armonizza, ed è spogliata delle sue fondamentali proprietà, quali l'antinomismo, il problematismo, la viva vita, la responsabilità, la fecondità. Ma basta con gli esempi. Alla indifferenza della funzione (della forma) si contrappone dovunque la concreta infinità dell'idea (del contenuto sostanziale) e alla irrequietezza vuota e senza mete precise nell'una si contrappone la plenitudine e la consapevolezza della direzione e del senso nell'altra.»

6. Autentico e inautentico
Bisogna allora fare un passo indietro: l'autenticità "è un concetto basilare della psicologia comprensiva". Anche una caratterizzazione inautentica è reale nella psiche umana, ma "manca di effetti duraturi e si dissolve rapidamente". Non è una menzogna, quantomeno in senso letterale, nè un "autoconsapevole inganno", ma inganna chi lo vive e lo sperimenta di persona, "così come inganna il prossimo". «L'autentico è ciò ch'è più profondo in contrapposizione a ciò ch'è più superficiale; per esempio ciò che tocca il fondo di ogni esistenza psichica di contro a ciò ch'è momentaneo, ciò ch'è cresciuto e si è sviluppato con la persona umana di contro a ciò che la persona ha accettato o imitato.» Saranno banalità, ma dette da Jaspers hanno un che di filosoficamente solenne che porta ad alcune affermazioni di rilievo. Alle spalle di un pensiero autentico sta una volontà di onestà. «Ma non bisogna dimenticare che la volontà di autenticità non esclude né una volontà di finzione consapevole, come avviene ad esempio, nella forma dell'arte, né una volontà di mascherarsi nei confronti del mondo esterno, se i limiti entro i quali l'individuo si muove restano consci.» Se l'autentico si potesse dare, noi conosceremmo il noumeno, quindi l'uomo nella sua essenzialità, non il fenomeno. Ma non illudiamoci: «Poiché l'autentico non esiste concretamente, ma è un'idea, una direzione. E viceversa l'inautentico non è così assolutamente e semplicemente inautentico, né può negarsi completamente. Così la problematica, se la si oggettiva nella riflessione invece di risolverla di volta in volta nei vivi atti, diventa infinita.»
L'autenticità esiste sia nel soggetto che "prende posizione di fronte a se stesso sia per l'osservatore". Nel prendere posizione rispetto a sé agisce una volontà di autenticità, e, "sperimentando la possibilità di un'universale commedia, l'istinto si aguzza". «Proprio nell'apprendere che l'inautentico acquista tanta realtà da apparire a chi lo vive come la sua propria verace essenza, aguzza la vista per i brevi istanti di transizione, per quei primi momenti in cui l'uomo mente a se stesso anche un poco coscientemente, i momenti in cui, prima che l'inautentico abbia preso corpo, egli può osservare il cammino che la sua volontà, più o meno consapevolmente, fa in quella direzione.»
Il movimento infinito non può che svilupparsi per antitesi, e ciò porta ad una antitesi suprema: «il singolo è immerso nei contenuti di una visione del mondo (siano questi immagini del mondo, imperativi, o dottrine di vita) senz'altro scopo che quei contenuti, i quali trovano una risonanza adeguata nella sua esistenza, a tal punto che egli considera l'essenziale, il genuino, e comunque l'incondizionato; oppure questi contenuti sono per lui - senza che egli ne sia cosciente - nient'altro che dei puntelli, delle ideologie che egli si è appropriato per altri scopi: mediante la sua visione del mondo egli inganna se stesso. Nella realtà gli uomini oscillano fra questi due poli estremi. Essi possono bene essere devoti a una dottrina, possono essere sognatori ed entusiasti, ma anche in ciò trovano un limite, per esempio in certe condizioni materiali e sociali di esistenza. In quanto quelle dottrine sono giovevoli a queste condizioni, può aver luogo l'entusiasmo per esse, ma non appena le condizioni di esistenza si trasformano le dottrine vengono ben presto "superate" e rimpiazzate con altre. Si può dire che nella realtà quasi tutte le dottrine sostanziali, quando diventano patrimonio comune, hanno tali limiti, e che non per questo gli uomini sono degli ipocriti. Nelle loro visoni del mondo essi sono inautentici, in tanto in quanto non le vivono e non le sperimentano sufficientemente nell'intimo e non le affermano con dedizione totale, a paragone di quei rari uomini che esistono quasi nello spirito stesso. Ma non è possibile definire inautentiche tutte le dottrine atteggiate a visioni del mondo e affibiar loro in questo senso il nome di ideologia. Il nostro compito psicologico, attualmente, è appunto di prescindere il più possibile dal fenomeno di massa dell'inautentico, per portare le le forme relativamente autentiche delle visioni del mondo a quel punto in cui possano essere vedute e formulate psicologicamente.»
Jaspers non trascura di avvertire che andrebbero considerate autentiche tutte quelle dottrine alle quali dottrine inautentiche hanno sottratto il contenuto spirituale. E ancora, insiste sul carattere negativo dell'apologia. Dando un colpo al cerchio ed uno alla botte, riporta l'apologia sia alla dottrina del rancore, quella affibbiata da Nietzsche ai 'socialisti dei caffè', sia a quella della nazione e della razza. «Cause ultime di tali connessioni è un certo istinto di potenza che può anche impossessarsi di tutti i contenuti di una visione del mondo in modo molto diverso per conquistare ora con l'ésprit ora con la profondità una superiorità dialettica al soggetto, per il quale tutti i contenuti spirituali sono per così dire un arsenale di armi per darsi importanza.»
Di fronte alla connessione di autentico e inautentico che, per così dire, trapassano l'uno nell'altro con relativa disinvoltura, si è portati a farsi, come Nietzsche, un'idea assoluta e "isolata" dell'autenticità e dell'onestà. E come Nietzsche, "si prova... un disgusto della frode insita nel mondo della vita psichica, poiché l'esperienza rivela in apparenza, necessariamente, una continua contraddizione fra ciò che io sono e faccio, e ciò che io penso". Per arrivare ad un 'dunque', occore una comprensione che sia un superamento di questa antitesi primitiva. Occorre introdurre il concetto di differenziazione, e poi attenersi sempre "alle forme più differenziate".

7. La differenziazione
Jaspers considera che si può avere una psicologia delle visioni del mondo solo nelle epoche in cui si si è sviluppato il senso dell'individuo. Altrimenti, potrebbe darsi solo una psicologia sociologica delle visioni. Infatti, la costrizione sociale impone una visione che annulla le differenze individuali. Solo nella piena libertà il singolo assume un "carattere" che non si può ridurre ad una tipologia puramente psicologica. «Allora soltanto nasce l'antitesi di "servo" e "libero", di "eteronomo" e "autonomo", di "autoritario" e "indivduale", poiché allora soltanto si schiudono l'una o l'altra possibilità.» Epoche "illuministiche", come il mondo greco dopo Pericle, Roma, la fine del Medioevo, il mondo moderno a partire dal '700. Il concetto di differenziazione diventa in tale quadro di importanza decisiva per la psicologia comprensiva.
Solo nella libertà, il soggetto arriva alla riflessione, al superamento delle antitesi, alla conoscenza di sé, alla coscienza di ciò che prima era inconscio.
«Il mio modo d'essere non può restare lo stesso, se io sono così anche per me, se io so di essere così. Vivere, fare, essere qualcosa, possedere poi tutto ciò come contenuto e oggetto della mia coscienza, questi non sono puri gradi quantitativi. Attraverso di essi l'essere non soltanto si sviluppa, ma si muta qualitativamente; e poi le due cose sono ben lungi dal coincidere sempre nel fatto, e non coincidono quasi mai nell'apparenza.. Nel momento stesso che io penso qualcosa in me e per me, io sono già mutato, sia che formuli una visione del mondo o un'opinione.»

8. L'assolutizzazione
«Concependo come un tutto la visione del mondo dell'uomo, questo tutto esisterà, in quanto infinito, sempre e soltanto come vita e forza, come una gerarchia di idee attive, e non mai qualcosa di perfettamente oggettivato, e di rinchiuso in una dottrina razionale. Ogni oggettivazione che si spacci per la vera, unica e integrale visione del mondo, dimostrerà per il fatto stesso d'essere diventata integralmente oggettiva che essa è soltanto una parte - e sarà quanto si voglia vasta e comprensiva - per il tutto. Spesso tale parte ha bisogno di un particolare rilievo. Quasi tutte quelle sfere particolari che sono gli atteggiamenti e le immagini del mondo conobbero una tale assolutizzazione, quando furono poste per l'assoluto e l'essenziale, da cui tutto il resto dipendeva. In noi c'è sempre una tendenza a prendere la parte per il tutto, e a scambiare ciò che vediamo per il tutto stesso. Ma l'assolutizzazione che isola, nell'attimo stesso in cui svincola il particolare dalla totalità, dà un particolare risalto alla autonomia e alle proprietà specifiche di detto particolare.»

9. Infine... lo schema
A tutto quanto detto finora si potrebbero elevare contestazioni infinite. Ne era cosciente anche Jaspers, che, ancora in sede introduttiva metteva prudentemente le mani avanti. D'accordo, signori, la mia visione delle visioni del mondo potrebbe risultare arbitraria, ma da qualche parte bisogna pur cominciare. «E in principio il ricercatore sembrerà più che mai fuori del vero e ingombro di presupposti, darà più che mai l'impressione del sopruso.
Possiamo dunque stabilire il significato dell'insieme: facciamo partizioni per arrivare con la mediazione delle partizioni a vedere chiaramente e direttamente l'insieme. Ogni partizione, ogni determinazione di concetti, ogni costruzione di tipi non è "la" giusta: è giusta relativamente e in riferimento a codesto insieme. I termini che designano le visioni del mondo e i loro elementi hanno nell'uso linguistico una grande molteplicità di significati, e la nostra fatica consiste nel dar loro un significato univoco, più ristretto e più determinato, conforme ai nostri intendimenti, anche se procedendo diversamente il lavoro di ordinamento quel significato potrebbe affatto naturalmente cambiare. In tanto in quanto nella lingua esistono vocaboli di significato specifico, faremo bene ad attenerci ad essi, e in ogni caso ad evitare assolutamente ogni nuova accezione.»
E così eccoci allo schema., che va accettato come insieme. Senza lo schema non si dà alcun sapere, "alcun ordinamento del mondo intellettuale". Però, avverte Jaspers, senza la capacità di buttar via lo schema, dopo l'uso, dopo averlo conosciuto nelle sue conseguenze, non facciamo alcun passo avanti.

Si può capire la logica dello schema jaspersiano o leggendo l'indice, o seguendo il testo passo a passo, o pressapoco. Jaspers non è Borges, quindi non classifica gli animali filosofici in base a categorie come "appartenenti all'imperatore", "col becco" o "di origine africana". Segue un ideale linneano, una morfologia degli atteggiamenti che però evita le gerarchie. Il che potrebbe far pensare ad un relativismo. Ci mancherebbe. Jaspers sapeva già che tipo di filosofia voleva praticare da grande. Quindi, inevitabilmente, finisce col privilegiarla. Solo che, essendo essa un mix di diverse visioni del mondo, da un lato, ed una critica alle ideologie, dall'altro, essa evita accuratamente di manifestarsi, di proclamarsi come verità, almeno per ora.

(continua)


1) I. Kant - Critica della ragione pura - B. 862 e segg.
2) I. Kant - Critica della ragione pura - B. 870
3) I. Kant - Critica della ragione pura - B 848, A 820
4) N. Abbagnano - Storia della filosofia - UTET 1993
gm - 14 giugno 2006