Ippia di Elide
di Daniele Lo Giudice
Due dialoghi platonici, Ippia maggiore ed Ippia minore, ci introducono ad un personaggio antipatico e pieno di sé, borioso, spavaldo e superficiale.
Ma, l'Ippia minore è un dialogo anomalo ed inquietante, nel quale Socrate sembra dare letteralmente i numeri, mentre lo stesso Ippia rimane sconcertato. Sfiderei chiunque a non rimanerlo. Il buon Socrate avanza una strana teoria, che poi rinnegherà immediatamente, ma intanto l'ha detta, e dicendola la sostiene anche con qualche argomento.
La cosa non quadra con una certa idea che abbiamo di Socrate e nemmeno con Platone. Ma c'è Senofonte a testimoniare la veridicità dell'episodio, a meno che non si ammetta che un ignoto burlone abbia scritto il dialogo speculando su quanto raccontato da Senofonte.
Di che si tratta?
Socrate afferma che chi fa volontariamente il male, sapendo cioè quello che fa, è sicuramente superiore a chi lo compie involontariamente. Ippia risponde che persino le leggi (che lo stesso riteneva sempre insufficienti e mancanti) riconoscono che il dolo volontario è di maggiore gravità, e quindi puniscono l'autore di un crimine volontario con pene più severe.
A questo punto Socrate confessa di non sapere a quale argomento appigliarsi. Eppure, preso da stato febbrile, propone ad Ippia di ascoltare qualcosa.
Ecco che poco alla volta viene in chiaro cosa intendeva Socrate. Chi sa distinguere tra bene e male e tuttavia sceglie il male, è intellettualmente più dotato, più completo, diremmo noi: più consapevole. Dunque, la conclusione paradossale è che solo un uomo dabbene può fare il male consapevolmente.
Uno degli argomenti di Socrate è quello del medico di cui ci serviamo. Chiede ad Ippia: " E' meglio servirsi di un medico che fa male involontariamente o di uno che procura malattia volontariamente? " E quello, ammettendo che è migliore chi sa fare il male, prepara la risposta finale di Socrate. " E infine, della nostra anima non vorremmo che fosse quanto di migliore è possibile?" "sì" risponde Ippia.
" E non sarà dunque migliore se fa il male volontariamente piuttosto che involontariamente?"
Ippia risponde:" Ma sarebbe enorme, Socrate,..."
Il dialogo prosegue ancora per un po', senza che le posizioni mutino sostanzialmente.
Ora, per quanto abbia riflettuto su tutta la vicenda, confesso di non aver trovato probabili che due alternative: o si tratta di un falso, redatto probabilmente da qualche acuto aristotelico, o si tratta di un'opera perfettamente compiuta, ovvero non di un lavoro tralasciato a metà da Platone. Il suo intento non era quello di trasmettere una conclusione, ma di far discutere, superando tutta una serie di luoghi comuni, non ultimi gli stessi luoghi comuni diffusi da Socrate in altri contesti, come quello che in genere fa il male chi non conosce il bene.
Il vero obiettivo di Platone era evidenziare, allora, la profondità di Socrate e la pochezza e superficialità di Ippia, che intendeva il termine migliore solo in un senso etico e morale, mentre Socrate lo intendeva nel senso di individuo in grado di discernere, valutare le conseguenze delle proprie azioni, avere una mente lucida.
La domanda che dovrebbe venirci spontanea di fronte all'affermazione sarebbe: migliore in che senso?
Non venendo da Ippia alcuna reazione di questo tipo, ma solo un rifiuto moralistico, abbiamo un ritratto dell'uomo convinto di avere raggiunto grandi conoscenze e grandi certezze, eppure assai scarso di acutezza intellettuale.
Così vengono ad evidenziarsi due metodi assai diversi per introdurre non solo l'insegnamento della filosofia, ma proprio il concetto di educazione in generale.
Per Ippia che, secondo l'Untersteiner, fu nientemeno che il fondatore del programmo educativo centrato sul quadrivio, la trasmissione del sapere è retorica, cioè discorso che fissa nella memoria concetti inquestionabili come il bene ed il male. Ed ovviamente si scandalizza di ogni possibile obiezione al dogma.
Per Socrate la discussione e la ricerca dialettica sono invece l'unico modo per produrre non solo un sapere superficiale, una cultura di nozioni, ma una consapevolezza, un saggiare le questioni sotto molteplici aspetti.
Insomma, è vera filosofia e vera pedagogia la via socratica e non quella di Ippia, niente più di un bravuomo molto preso da quella che poteva essere la sua missione ed il suo tornaconto, ma assolutamente inadatto a fare l'insegnante perchè incapace di suscitare la discussione e la ricerca, incapace di suscitare domande del tipo: in che senso intendi migliore?
Non si può prescindere da questo Ippia rappresentato da Platone per parlare di Ippia di Elide, matematico valente, insigne maestro di virtù, tuttologo, sapiente enciclopedico, anch'egli sostenitore della gorgiana teoria che il retore potrebbe imbastire discorsi sensati e persuasivi su tutto lo scibile umano.
Socrate, nel vero Ippia, l'Ippia maggiore, sembra dilettarsi nel farlo a pezzettini, nel ridurlo alla statura d'un nano.
Ma questa volta non riusciamo a comprendere Platone: non sapeva che riducendo il valore del contendente, veniva a deprezzare il valore di Socrate?
Era davvero così scadente, superficiale e vuoto tale Ippia, il prototipo di un certo tipo di sofista, capace solo di discorsi generici e grossolani, ampollosi e vuoti?
Qualche dubbio è lecito. Un matematico deve avere mente sobria e disciplinata, essenziale e logica. Ed Ippia fu l'unico tra i sofisti a poter vantare una solida preparazione matematica.
Certo, non era di scuola pitagorica. Ma il marchio di fabbrica del pitagorismo qualificava e certificava un matematico in modo particolare?
Il primo punto da chiarire è allora questo: a differenza dei pitagorici Ippia ricevette un'educazione alla geometria, o meglio, che privilegiava la geometria rispetto all'aritmetica. Gli storici della matematica grosso modo concordano sul fatto che egli diede un'importante contributo alla quadratura del cerchio, anche se poi, la vera dimostrazione venne riconosciuta come merito di Dinostrato. E, forse, Platone detestava Ippia per la sua superiorità in campo matematico, o, forse, per il suo rifiuto ad insegnare (gratis) nell'Accademia.
Ce n'è a sufficienza per capire come mai tra i due non corresse buon sangue.
Probabilmente, la verità attorno all'Ippia maggiore è una sola: non un dialogo, ma un pamphlet, uno scritto polemico dovuto a circostanze particolari, persino rabbioso.
A meno che, a differenza di tanti altri dialoghi, costruiti in atmosfere ideali e rarefatte, l'Ippia maggiore non fosse che un resoconto nudo e crudo di un vero scontro, un libro-verità su un Socrate più velenoso del solito, cioè il vero Socrate contro uno dei tanti Ippia rinvenibili sul mercato all'ingrosso delle scuole sofistiche.
Teniamoci questi dubbi e proseguiamo.
Dopo aver letto i dialoghi platonici nutrivo nei confronti di Ippia un pregiudizio che non era sano.
E' come quando incontri per la prima volta una persona che tuttavia ti è stata descritta attraverso aneddoti e resoconti sommari. Ha detto questo, ha fatto quest'altro, di solito è nervoso, aggressivo, parla troppo, gli piace la letteratura russa, ha la casa piena di quadri comprati lungo i navigli, non legge i giornali tutti i giorni, spesso mangia in quei bar dove si fa il brunch verso le 11 di mattina, ecc.
So tutto di lui senza aver mai visto niente. O, forse, so niente?
Merito dell'Untersteiner, indubbiamente, è la ricostruzione del probabile pensiero di Ippia in termini più oggettivi.
Scrisse moltissimo, con incursioni in ogni campo, ma non rimangono che frammenti, oppure testi di seconda mano, che è sempre avventuroso riconoscere come legati al vero pensiero di Ippia.
Certamente fu enciclopedico; aveva una cultura enorme, allevata da una memoria formidabile.
Nacque ad Elide in un molto probabile 443 a.C. Nel 399 era già famoso, ma dei suoi maestri non si sa nulla.
Viaggiò molto, anche come ambasciatore e fu spesso a Sparta dove, secondo l'Untesteiner "sperimentò quella rigidità della legge, che doveva combattere nella sua teoria." Fu ad Atene almeno due volte, e in Sicilia esercitò una grande influenza, specie sul tiranno di Siracusa Dionigi il giovane.
Ippia era di orientamento democratico, fece attivamente politica su scala internazionale. Fu ucciso mentre "tramava insidie contro la propria patria." Aveva sposato una certa Platane, dalla quale ebbe tre figli.
Scrisse moltissimo e le sue opere più importanti dovrebbero essere Troiano, Consigli di Chirone, Nomi dei popoli, Registro dei vincitori di Olimpia.
Le fonti per conoscere il pensiero di Ippia sono, secondo l'Untersteiner, oltre ai frammenti, il capitolo di Tucidide che interpreta i fatti di Corcira, l'Anonymus Iamblichi, le cui idee rispecchierebbero fedelmente il pensiero di Ippia. Ed il Proemio spurio ai Caratteri di Teofrasto sarebbe opera di Ippia.
Su queste basi ecco un quadro del pensiero di Ippia.
Un politico deve saper parlare in pubblico in modo elegante e persuasivo. Ma l'arte retorica non basta, occorre avere i materiali da plasmare: i contenuti. Essi si ricavano con la conoscenza di tutto, una conoscenza enciclopedica, e qui è la differenza con Gorgia, non solo perchè Ippia afferma che la conoscenza è possibile, ma perchè è anche comunicabile.
La meta della conoscenza, tuttavia non è la sapienza separata di ogni campo, ma la superiore visione della realtà, la quale è natura della realtà stessa. Ha la sapienza politica necessaria chi perviene a conoscere la natura, la physis della realtà.
Questa natura della realtà corrisponde alla verità. Sembrerebbe, se non parlassimo di Ippia, che parliamo di Aristotele.
Gradi della conoscenza
La conoscenza della natura delle cose avviene attraverso tre gradini da salire: la conoscenza delle parole e del loro significato, la conoscenza dei numeri, il concetto di giusto ed il concetto in generale.
La conoscenza delle parole deve essere analitica prima ancora che semantica. La parola si compone di lettere e fonemi la cui esatta pronuncia, con la giusta considerazione per ritmi ed accenti porta alla perfezione del linguaggio.
La scelta delle parole è estremamente importante perchè è attraverso di essa che perveniamo alla precisione del discorso, la quale rispecchia l'acutezza del proposito, del cosa vogliamo comunicare.
Il secondo gradino da scalare è quello della matematica, non solo il numero nella sua forma aritmetica, ma l'immagine sensibile delle cose, nella loro forma scheletrica e strutturale, la geometria fondata sulle immagini, le figure.
Ippia privilegia l'impatto sensibile, l'esperienza della figura, rispetto ad una concezione idealistica. In questo quadro si spiegherebbero i suoi tentivi, storicamente documentati di fornire una dimostrazione della quadratura della circonferenza, in un quadro dinamico, di geometria animata, di linee mobili, di curve.
Il terzo gradino è quello rappresentato dalla conoscenza del concetto di giusto, in diversi significati: appropriato, conforme a norma naturale, regolato da leggi che rispecchiano questa conformità alla natura delle cose.
Questo terzo gradino è certamente il più importante perchè Ippia vi fonda la sua convinzione fondamentale: l'aver egli stesso compreso la natura delle cose, e dell'uomo in particolare.
La critica alle leggi
Su questa base egli mosse una critica generale alle leggi, al nomos, asserendo, come Antifonte, che le leggi esercitano violenza sulla natura dell'uomo: siamo così agli antipodi da quanto teorizzato da Prodico di Ceo.
Ma il senso dell'affermazione non è chiaro, anche se, muovendo da posizioni democratiche, sostanzialmente protagoriche e periclee, si può pensare che non volesse affermare il diritto del più forte ad esercitare prepotenze, ma qualcosa di radicalmente diverso, ovvero denunciare la gabbia legislativa che limita il libero sviluppo delle persone, proibendo quello che non deve essere proibito, ed imponendo quello che non può essere imposto, come, ad esempio, la religione ufficiale.
Avremmo dunque un Ippia radical-democratico, una ragione di più, guarda la combinazione, per un intensa contrapposizione al giovin Platone, simpatizzante per l'aristocrazia e filo-spartano.
E questa sarebbe ragion più che sufficiente per realizzare l'antipatia reciproca, se non fosse che, proprio tra i democratici ateniesi della fase post-Pericle, si fosse instaurata una convinzione del tutto anti-democratica, ovvero il diritto della maggioranza di esercitare una sorta di dittatura con la forza della legge.
Ippia era un democratico, allora, ma per nulla in sintonia con i democratici reali, la nuova ondata di demagoghi, la canea dei sofisti dei secondo e terzo ordine che concionavano agli angoli delle strade.
Queste considerazioni concorrono ad arrichire il quadro già mosso e complesso, per nulla lineare.
Raramente, nella storia, progressisti e conservatori hanno formato blocchi monolitici l'un contro l'altro armati, e men che mai questo accadde ad Atene. Raramente gli intellettuali si sono prestati ad essere "organici", cioè servi di strategie di puro esercizio del potere. Spesso hanno teso a criticare ciò che prediligevano, perchè delusi dai comportamenti dei capi.
Come del resto oggi, in Italia, gli interessi puramente economici, il conflitto oggettivo tra le classi passa spesso in secondo ordine rispetto a problemi di potere, istituzionali, giudiziari, a vere e proprie vanità ed ambizioni di singoli, così in Grecia le cose non andavano tanto diversamente.
Ecco perchè non convince fino in fondo il ritratto del vanesio disegnato da Platone: quando Ippia affermava di aver compreso la natura dell'uomo e di aver quindi trovato una ricetta, un farmaco alla crisi sociale, morale e politica, doveva, in effetti, aver scoperto qualcosa di importante e di nuovo.
Le leggi scritte dagli uomini non riflettevano che in poco le leggi non scritte, ma scolpite nella natura umana.
Ad una fase nella quale, come ritiene l'Untersteiner, Ippia credette che le leggi umane fossero il metro di misura della giustizia, seguì una fase nella quale si persuase che le leggi umane negavano la vera giustizia, quella non scritta, ma rinvenibile in ogni uomo e nel logos afferrato da Eraclito.
Ma il problema della traduzione di questa giustizia fisica in giustizia legislativa e diritto positivo non pare risolto, e non solo per impossibilità politica, ma per difetto teorico e chiarezza di intenti.
Non ne abbiamo le prove, ma nemmeno l'Untersteiner potrebbe esibire prove in senso opposto. Ippia rimane un mistico della giustizia, con una fortissima idea confusa che non riescì ad esporre, se non negando la giustizia realmente esistente, forte delle delusioni e delle amarezze che procura.
Solo su un punto egli seppe avanzare una proposta concreta: punire chi calunnia. Constatato che la legislazione delle città greche in generale non prevedeva pene contro chi avanzava accuse ingiuste, oppure spargeva dicerie contro qualcuno al fine di denigrarlo e renderlo odioso, Ippia se ne fece scrupolo e punto d'orgoglio, imbastendo una specie di campagna perchè la falsa testimonionza resa contro qualcuno diventasse un reato, tra i più gravi.
Basterebbe questo a smentire la stereotipata superficialità di Ippia?
Credo di sì: egli disse, pressapoco, che è ancora più ripugnante chi sparge menzogne rivolte a denigrare altri di chi commette prepotenze: quest'ultimo agisce alla luce del sole; il calunniatore agisce nell'ombra, come Jago, che seppe suscitare i più bestiali sentimenti di gelosia in Otello, fino al punto da indurlo all'assassinio.
Grazie a Shakespeare (ed a Giuseppe Verdi), forse anche Ippia può trovare finalmente il giusto riconoscimento.
Punendo duramente chi calunnia, anche per legittima difesa, forse la legge umana incontra quella naturale, o divina, che dir si voglia.
letture consigliate:
Mario Untersteiner - I sofisti - Bruno Mondadori - Milano 1996
DLG - 31 agosto 2002