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Husserl: meditazioni cartesiane

Fin qui si è reso evidente che Husserl considera l'Io puro come indispensabile punto di riferimento dei vissuti e del loro Strom, del loro fluire alla coscienza. Manca ancora, per così dire, una riflessione su come dubbio e cogito stiano in rapporto alla riduzione ed all'epoché.
La riduzione e la sospensione del giudizio si rivelano in queste meditazioni (originariamente delle conferenze tenute a Parigi) non meno radicali di quella messa in dubbio generale operata da Cartesio su un piano "psicologico". Ma, a differenza di Cartesio, Husserl non vuole porre in dubbio la soggettività conoscente. Si limita quindi a dubitare del mondo in quanto elemento trascendente la coscienza, mettendolo fuori gioco nelle sue presunte evidenze ed ovvietà, le quali sono costituite sia dalla scienza moderna sia dal sapere del senso comune sedimentato.
C'è da considerare in cosa Husserl superi Cartesio: la "riduzione fenomenologica" infatti procede a cogliere la stessa evidenza e la validità delle leggi matematiche in quanto leggi di un mondo che in realtà non è ovvio.
Possiamo dubitare di tutto - dice Husserl - dalle opinioni ingenue fino alle leggi matematiche, ma non della soggettività pura, della nostra coscienza.
A differenza di Kant, che si è limitato a considerare l'io nelle sua rigida conformazione trascendentale a priori, noi possiamo avere scienza dell'Io puro, una egologia.
Con la scienza dell'io ogni trascendenza del mondo naturale cessa di presentarsi come enigma e si chiarisce nelle sue motivazioni più profonde.
Quando l'atteggiamento dell'epoché viene osservato dall'io che la attua, avremo allora una scissione dell'io straordinariamente vicina alle esperienze dello yoga classico, quello insegnato da Patanjali in India pochi secoli d.C.. Ma questa è una nostra osservazione. In realtà Husserl dice solo che: «Se diciamo dell'io che percepisce il mondo e che ci vive naturalmente, che è interessato al mondo, noi avremo allora, nell'atteggiamento fenomenologicamente modificato, una scissione dell'io: al di sopra dell'io impermanente interessato al mondo si stabilisce l'io fenomenologico come spettatore disinteressato.» (1) E' da notare che Patanjali parlò di dråst, testimone, e spettatore dello spettacolo.

Husserl passa quindi a descrivere gli effetti della "sospensione". «Se io mi astengo, come posso liberamente fare e come ho fatto, da ogni credenza di esperienza di modo che per me rimanga fuori valore l'essere del mondo d'esperienza, pur tuttavia, questo mio astenermi è quel che è ed è qualcosa che si inserisce nell'intera corrente della vita esperiente. Ed invero esso è per me costantemente presente, costantemente consaputo e percepito in una regione di presenze e nella più autentica originalità - esso con sé stesso. Nel modo del ricordo ora questi, ora quei momenti passati del mio astenermi, vengono consaputi di nuovo ma appunto come questi stessi momenti passati. In ogni momento io posso, riflettendo, rivolgere lo sguardo e l'attenzione particolare a questo vivere originario e cogliere il presente come presente, il passato come passato, così appunto com'esso è. Così faccio io nel filosofare e in quanto uso quella astensione.
Il mondo esperito in questo vivere riflettente continua in certo modo a rimanere per me, percepito come prima, col contenuto che in ogni caso gli è proprio. Continua ad apparirmi come mi apparve prima, solo che io, come colui che riflette filosoficamente, non mantengo più, non do più valore alla credenza nell'essere [Seinsglaube], che è naturale per esperienza, sebbene questa credenza sia ancora là, di fronte a me e sia colta dall'attenzione del mio sguardo. Allo stesso modo va la cosa per tutte le altre intenzioni che appartengono alla mia corrente di vita e sono al di là della coscienza empirica, con le mie rappresentazioni non intuitive e imie giudizi, posizioni di valori, decisioni, posizioni di fini e di mezzi, tutte parimenti non intuitive ecc., e specialmente con le mie prese di posizione che necessariamente si attuano in quelle attività mediante un atteggiamento naturale non riflesso e non filosofico della vita, in quanto queste prese di posizione presuppongono il mondo in generale e quindi implicano in sé una credenza d'essere riguardo al mondo.» (1)
Questo estraniamento consente di dirigere l'attenzione, o come meglio dice Husserl, l'io attenzionante, ovvero l'io che esercita l'attenzione in termini intenzionali, alla relative concrete esperienze vissute "ed usa un atteggiamento di astensione nei riguardi di ciò che è intuito". Tutto ciò che prima del distacco fenomenologico (che, ribadiamo, è una sorta di yoga mentale, che non richiede posizioni fisiche e "meditazioni" con la sospensione anche del respiro) aveva un valore, dopo il distacco non è altro che mero fenomeno.
«Questo universale porre fuori valore - prosegue Husserl - ("inibire", "porre fuori giuoco") ogni presa di posizione di fronte al mondo oggettivo già dato e, in special modo, ogni presa di di posizione quanto all'essere (concernente l'essere, l'apprenza, l'esser-possibile, l'esser-presunto, l'esser-probabile e simili) , oppure, come si suol dire, questa epoché fenomenologica, questa messa entro parentesi del mondo oggettivo, tutto ciò non ci pone di fronte come ad un mero nulla. Quello che piuttosto - ed appunto per ciò - diviene nostro proprio, o più chiaramente, quel che perciò diviene proprio a me che medito, è il mio esperire puro con tutti i suoi momenti puri e tutto ciò che esso intenziona, l'universo dei fenomeni nel senso della fenomenologia.» (1)

Una volta chiarito il senso della riduzione dell'io e dell'epoché, Husserl evidenzia il perché Cartesio non abbia portato alle sue ultime e necessarie conseguenze la pratica del cogito; egli non ha colto il significato della soggettività trascendentale ( e del resto, non poteva farlo, essendo venuto prima di ... Kant)
«Sembra così facile, seguendo Cartesio, cogliere l'io puro e le sue cogitationes. E tuttavia è come se ci trovassimo sulla cresta di una ripida roccia, l'avanzare sulla quale con calma e sicurezza è questione decisiva per la vita o per la morte della filosofia. Cartesio aveva la più seria volontà di evitare radicalmente i pregiudizi. Ma noi sappiamo dalle nuove ricerche, specialmente dai belli e profondi studi di Gilson e di Koyré, quanta scolastica ci sia nelle Meditazioni cartesiane, ma quasi nascosta e sotto forma di presupposto oscuro. Ma non basta, noi dobbiamo saperci guardare inoltre da quel pregiudizio già prima notato che sorge dall'ammirazione per le scienze matematiche della natura (e che anche noi abbiamo ereditato subendone ancora l'influenza), come se nella espressione "ego cogito" si trattassedi un assioma apodittico che, in unione ad altre ipotesi ancora da rivelare e fondare per induzione, debba fornire il fondamento per una scienza deduttivamente esplicativa, una scienza nomologica [una scienza normativa che fornisca leggi, ndr], una scienza more geometrico, del tutto simile alla scienza matematica della natura. In connessione a ciò, non deve affatto ritenersi naturale o evidente che noi, nel nostro io puramente apodittico, possiamo salvare una particella del mondo, come quella che per l'io filosofante fosse l'unica cosa di ciò che riguarda il mondo da non porre in questione, né si deve quindi pensare che noi abbiamo dunque da rivelare, in aggiunta a quella particella, il resto del mondo, mediante conseguenze sillogistiche rettamente condotte in base ai principi innati dell'io.» (1)
Husserl avverte che la riduzione cartesiana altro non fu che una riduzione psicologica, in quanto frutto di una semplice introspezione. Il vero passo in avanti, secondo Husserl, sarà l'attuazione della riduzione fenomenologica trascendentale. «Se io mi attengo puramente a ciò che capita al mio sguardo meditante, mediante la libera epoché rivolta all'essere del mondo dell'esperienza, è allora un fatto significativo che io con il mio vivere rimango intatto nel mio valore di essere, comunque stia poi la cosa riguardo all'essere e al non-essere del mondo o cumunque io mi possa decidere al riguardo. Quest'io che mi rimane necessariamente in virtù di tale epoché e la vita dell'io [sein Ich-leben] non costituiscono un pezzo del mondo, sicché dire "io sono, ego cogito" voglia dire: io, quest'uomo qui, sono. Nè, di più, io sono colui il quale si ritrova nell'esperienza naturale di sé come uomo; io non sono l'uomo che si trova nella limitazione astrattiva al puro stato interiore dell'esperienza di sé puramente psicologica e che scopre la sua propria e pura mens sive animus sive intellectus, non sono nemmeno un'anima che coglie se stessa separatamente.» (1)
Qui Husserl precisa ancora che gli esseri umani, percepiti alla maniera di Cartesio, non sono che gli oggetti delle scienze, dalla biologia all'antrpologia, non esclusa la psicologia. Al contrario, l'epoché esclude totalmente il mondo dal dominio del giudizio. La riduzione trascendentale "attinge" "il suo senso intero ed il suo valor d'essere, quello che esso ha per me, da me in quanto io trascendentale".

A questo punto potrebbe essere legittimo chiedersi: ma non si rende conto Husserl, che questa fondazione unicamente soggettiva della realtà rasenta la follia pura?
Come si risolve, in cosa si risolve questa tensione soggettiva, sia pure posta a livello trascendentale, di non-giudizio e di non-volontà di partire alla "conquista del mondo", un mondo da me fatto e da me fondato?
Domanda che egli stesso si fa, parlando del rischio della degenerazione della fenomenologia in un solipsismo trascendentale, che è poi il rischio corso da Cartesio.
A questo punto, Husserl introduce il concetto di altri, trovati attraverso l'io trascendentale.«Per esempio, io ho esperienza degli altri, come altri che sono, in molteplicità d'esperienze concordanti e variabili; da un canto, io ne ho esperienza come di oggetti mondani, ma non come mere cose naturali (sebbene sotto un certo aspetto anche come tali). Essi sono esperiti come esercitanti un dominio psichico sui corpi naturali che loro appartengono. Intrecciati quindi in modo tutto proprio ai corpi, come oggetti psico-fisici gli altri sono nel mondo. D'altro canto io li esperisco come soggetti per questo mondo che io esperisco e che perciò hanno esperienza di me pure, di me appunto in quanto esperisco il mondo e gli altri che vi stanno. Io potrei quindi, seguendo questa direzione, esporre ancora diverse determinazioni noematiche.
Ordunque in ogni caso io esperisco in me, entro il mio vivere coscienziale trascendentalmente ridotto, il mondo insieme agli altri; il senso di questa esperienza implica che gli altri non siano quasi delle formazioni sintetiche private, ma che costituiscano in quanto a me estraneo, come intersoggettivo, un mondo che c'è per tutti ed i cui oggetti sono disponibili a tutti.» (1)
Solo così l'esperienza dell'altro è empatia (Einfühlung) ed è un "altro" me stesso.

note:
(1) Edmund Husserl - Meditazioni cartesiane - Bompiani, 1970