David Hume nacque in Scozia nel 1711. Apparteneva
ad una famiglia di piccola nobiltà terriera.
Fece studi di giurisprudenza all'università
di Edimburgo, ma ben presto li abbandonò
per dedicarsi alla lettura dei classici della
filosofia.
Durante un primo soggiorno in Francia (dal
1734 al 1736) scrisse il "Trattato sulla
natura umana".
Per le sue posizioni scettiche in materia
religiosa, fu osteggiato dalla chiesa presbiteriana
e gli fu preclusa la cattedra di etica all'università
di Edimburgo.
Scrive Paolo Casini nell'introduzione alla
"Storia naturale della religione"
di Hume, Laterza 1994« ...i ministri presbiteriani
riversarono sul candidato tali accuse di
scetticismo, ateismo ed immoralismo, che
fu costretto a ritirarsi. Sei anni più tardi
Adam Smith lo avrebbe voluto come proprio
successore nell'insegnamento di logica a
Glasgow, ma ancora una volta le violente
proteste dei benpensanti ottennero la sua
sconfitta.»
Successivamente ricevette però vari incarichi
che gli permisero di viaggiare in Europa.
Nel 1748 pubblicò "La ricerca sull'intelletto
umano".
Nel 1763 conobbe a Parigi i maggiori filosofi
dell'illuminismo, tra i quali D'Alambert,
Rousseau, Diderot.
Ospitò poi per qualche tempo Rousseau nella
sua casa in Scozia, ma per diversi motivi,
sia di carattere umano che filosofico, entrò
presto in divergenza con questi.
Trascorse gli ultimi anni della sua vita
ad Edimburgo a rivedere le sue opere per
la riedizione.
Ulteriori notizie sulla vita di Hume sono
contenuti in un file in preparazione.
Uno scetticismo moderato
L'originalità dell'indagine filosofica di
Hume consiste soprattutto nel tentativo di
estendere il metodo sperimentale allo studio
della natura umana. Egli stesso definisce
questa sua filosofia "scetticismo moderato",
confrontandosi con diverse forme di scetticismo.
« "Innanzi tutto parla di una specie
di scetticismo antecedente ad ogni ricerca
in filosofia", quale quello "raccomandato
da Descartes ed altri". Hume vede, sì
in questo tipo di scetticismo un eccellente
mezzo di difesa dall'errore e da giudizi
affrettati, ma anche ove esso venga sviluppato
in modo conseguente, l'impossibilità per
l'uomo, di attingere uno stato di sicurezza
e di convincimento relativamente ad un oggetto
qualsiasi.
Più importante per Hume "un'altra specie
di scetticismo", quella "conseguente
alla scienza ed alla ricerca". Questa
mette in crisi la certezza delle percezioni
sensibili, e, quindi, della conoscenza del
mondo. Noi - osservano qui gli scettici -
abbiamo solo immagini delle cose, solo rappresentazioni,
nulla sappiamo della loro connessione con
gli oggetti. " Come causa delle nostre
percezioni" resta soltanto "un
qualcosa di sconosciuto, di inesplicabile"
Quando, movendo da tale constatazione, si
giunga a negare la possibilità della conoscenza
umana in generale, si ha quello scetticismo
"eccessivo" che Hume non può che
rifiutare, perchè troppo in contrasto con
gli istinti naturali dell'uomo e privo pertanto
di utilità per la vita. » ( da "Il problema
di Dio nel pensiero scettico" testo
rielaborato di una conferenza del 4 marzo
1975 tenuta da W. Weischedel nella Katholische
Akademie di Monaco)
Hume "volle" essere il filosofo
di questo scetticismo moderato e scelse come
oggetto della sua skepsi, che in greco vuol
dire "ricerca", la natura dell'uomo:
«La natura umana è la sola scienza dell'uomo,
eppure è stata sinora la più trascurata.
Io avrò fatto abbastanza a metterla un po'
più di moda: questa speranza giova a dissipare
il mio umore malinconico e a darmi forza
contro l'indolenza che a volte mi domina.»
("Trattato, I,4,7)
Fu acerrimo avversario del dogmatismo e di
coloro che procedono in modo unilaterale,
considerando l'atteggiamento scettico come
l'unica modalità per pervenire a qualche
certezza.
La teoria gnoseologica di Hume dipende in
larga misura dalla filosofia di Locke. Anche
per Hume la coscienza umana è data dalle
percezioni, le quali producono impressioni
(motivo di emozioni e sentimenti) e idee,
che sono sempre il risultato di un'associazione
tra memoria ed immaginazione operata dalla
mente sui dati sensibili provenienti dalle
impressioni.
Tramite memoria ed immaginazione la mente
umana associa idee semplici dando vita a
ragionamenti complessi secondo principi di
somiglianza, contiguità nel tempo e nello
spazio, e causalità.
Questa via conduce alla matematica, cioè
un mondo di conoscenze astratte, ma rigorosamente
fondate.
Assai diversa da questo tipo di conoscenza
astratta è la conoscenza empirica, che si
riferisce ai fatti dell'esperienza, e che
costituisce rapporti tra le impressioni dovute
alla conoscenza delle cose, dette "materie
di fatto" (matters of fact).
Alla distinzione tra questi due tipi di conoscenza
(peraltro assai simile al modello elaborato
da Leibniz tra verità di ragione e verità
di fatto) Hume aggiunge che la conoscenza
certa, universale e necessaria procede dalla
matematica, mentre quella empirica dovuta
alle impressioni è solo una conoscenza probabile,
particolare e contingente.
Tuttavia secondo Hume le scienze matematiche
non servono a far progredire le scienze naturali,
cioè la conoscenza dei fatti, poichè la matematica
ha un carattere puramente strumentale e quantitativo,
ma non può avere alcuna efficacia nella spiegazione
della realtà. In questo senso egli concorda
perfettamente sia con Locke che con Berkeley.
Nelle questioni di fatto le cose vanno assai
diversamente perchè qui ogni cosa che è potrebbe
anche non essere poichè l'andamento dei fatti
esperibili dalla mente umana non è mai dato
una volta per tutte, ma segue un andamento
particolare, contingente, determinabile diversamente
di volta in volta.
Per questo motivo Hume contesta in primo
luogo la possibilità di fare previsioni in
base all'esperienza ed anche parlare di cose
che non vediamo nè sentiamo.
Critica alla "causalità"
Il vero nocciolo del problema filosofico
sta dunque per Hume nella liceità sulle quali
la scienza sperimentale ha costruito le proprie
certezze, cioè il principio di causalità
secondo il quale ogni oggetto od ogni evento,
considerati come effetti, hanno una spiegazione
in qualche causa.
Si tratta, ovviamente, di una posizione antiaristotelica,
e, soprattutto di una presa di posizione
polemica nei confronti del principio di ragion
sufficiente introdotto da Leibniz.
Questa posizione trova un illustre precedente
nella filosofia di Guglielmo di Ockham, il
quale aveva scritto che la conoscenza di
una cosa non porta in sè a nessun titolo
la conoscenza di una cosa diversa da essa.
Hume fa diversi esempi, peraltro non molto
convincenti, secondo i quali lo stesso principio
è messo in discussione.
Osservando il fenomeno del fuoco e del fumo,
ad esempio, Hume afferma che trattandosi
di questione di fatto, la connessione tra
"fuoco" e "fumo" deve
essere ricavata dall'esperienza.
L'esperienza, tuttavia, secondo Hume può
solo consentire sulla contiguità spaziale
di fuoco e fumo, ad esempio riconoscendo
che ove sia fumo, non lontano vi sia anche
fuoco; ed anche riconoscendo la successione
temporale, nel senso che prima viene il fuoco,
poi il fumo.
Ma per Hume l'esperienza stessa non può confermare
la connessione necessaria tra i due fatti,
fumo e fuoco.
Infatti, secondo Hume, non è contraddittorio,
che possa darsi un fumo senza fuoco od un
fuoco senza fumo.
Analogamente egli descrive un tavolo da biliardo
nel quale ad un certo punto una palla in
movimento tocca un altra palla ferma. Questa
si pone a sua volta in movimento. Cosa possiamo
"inferire" secondo Hume? «E' evidente
che le due palle si sono toccate...»
«Noi ci illudiamo - prosegue Hume - che se
fossimo condotti all'improvviso su questo
mondo potremmo subito dedurre che una palla
di biliardo può comunicare il movimento ad
un'altra...(...) (ma) ...anche supponendo
che mi nasca per caso il pensiero del movimento
della seconda palla quale risultato del loro
urto, io potrei concepire la possibilità
di altri mille avvenimenti differenti, per
es, che entrambe le palle rimanessero ferme
o che la prima se ne tornasse diritta o scappasse
da uno dei lati in una direzione qualsiasi.
Tutte queste supposizioni sono coerenti e
concepibili; e quella che l'esperienza dimostra
più vera non è più coerente e concepibile
delle altre.» (Inq. Conc. Under., IV,1)
In pratica Hume vuole significare che da
un punto di vista filosofico (ma sarebbe
meglio dire radicalmente scettico) l'esperienza
delle palle che si sono toccate potrebbe
anche non avere alcuna reale validità rispetto
ad una possibile previsione sul futuro in
circostanze analoghe. Una palla in movimento
potrebbe cioè urtare una palla ferma, e questa
potrebbe rimanere ferma.
Non credo che i giocatori di biliardo condividano
la filosofia di Hume. Nella stragrande maggioranza
dei casi, infatti, essi sanno esattamente
cosa vogliono ottenere tirando con la stecca
a quella palla. E lo sanno sia per esperienza
sia per un'intuizione che deriva in parte
dall'esperienza, in parte da una riflessione
coerente all'esperienza stessa.
Dicevo pocanzi, a ragion veduta, che gli
esempi non sono molto convincenti non perchè
lo scrivente sia prevenuto contro lo scetticismo
(del resto, a ben vedere, come potrei definirmi
io stesso, se non scettico?) quanto perchè
esempi diversi potevano risultare sicuramente
più convincenti nei confronti di qualsiasi
forma di determinismo esasperato.
Per esempio: affermare che una giornata nuvolosa
e coperta sarà inevitabilmente causa di pioggia
è chiaramente sbagliato ed imprudente. Non
solo perchè una "giornata", cioè
un periodo di tempo, non può essere causa
di qualsivoglia oggetto, ma perchè, stabilito
che una causa della pioggia sta nella presenza
di perturbazioni in cielo, e che pioverà
solo se queste perturbazioni interesseranno
il cielo che sta sopra di noi, è evidente
che, nessuno, neanche il più esperto meteorologo,
potrebbe predire che pioverà esattamente
alle 17,01 a Roma e dintorni. La cosa era
peraltro molto più sostenibile ai tempi di
Hume, ovviamente. Oggi potrebbero anche darsi
previsioni di questo tipo abbastanza accurate;
non sono un esperto di metereologia. Però
sto sfogliando il numero 5 delle "Scienze
dossier"- ottobre 2000 dedicato al "Clima
che cambia" e trovo scritto: «Applicare
le leggi della dinamica e della termodinamica
all'atmosfera richiede l'impiego di equazioni
di difficile risoluzione, a causa della complessità
dei fenomeni studiati.
E questo è il motivo per cui, per l'impostazione
rigorosamente scientifica del problema delle
previsioni meteorologiche, si è dovuto attendere
gli anni settanta-ottanta, quando la potenza
di calcolo raggiunta dai computer ha permesso
la risoluzione diretta, seppure approssimata,
del sistema di equazioni nel volgere di qualche
ora, mediante appropriati modelli fisico-matematici.»
(da "Prevedere il tempo " di Chiara
Palmerini)
Da queste semplici considerazioni emerge
dunque un sostanziale atteggiamento antiscientifico
da parte di Hume, il quale si limita ad esporre
in modo unilaterale i possibili ostacoli
che si pongono sulla strada della ricerca
scientifica, esagerandoli, senza dall'altro
lato incoraggiare alcun approccio veramente
analitico ed induttivo ai problemi.
In altre parole: uno scettico come Hume potrebbe
arrivare a contestare anche le concatenazioni
di idee più evidenti, ed affermare anche
che anche la nostra associazione tra nuvole
e pioggia è solo una credenza. Un qualsiasi
altro filosofo si chiederebbe semmai: "Perchè
scende la pioggia?" "Perchè la
palla urtata si mette in movimento?"
"Perchè se c'è fumo c'è anche fuoco?"
Per Hume anche questo fare domande logiche
sarebbe un "belief", cioè una credenza
determinata dall'abitudine al pensare che
qualcuno conosca le risposte, oppure che
noi stessi potremmo trovarle.
Noi crediamo alla connessione causale, ma
in realtà, per Hume, la connessione causale
è solo probabile, ma non è mai certa.
E' quindi da evidenziare su questo piano
sembrerebbe Hume distaccarsi radicalmente
dalla visione scientifica dei suoi contemporanei
e per qualche verso precorrere le posizione
scientifiche probabilistiche e congetturali
del novecento.
Ma ciò è vero solo in parte: infatti tutto
il probabilismo della scienza moderna è dato
dall'uso strumentale della matematica applicata
alla fisica, alla chimica ed alla biologia.
Non solo: la stessa economia, che spesso
viene trascurata come "scienza",
ma è invece uno dei settori di studio e di
ricerca che evidenzia con maggiore acume
cosa è scienza anche in senso predittivo,
costituisce la prova lampante del carattere
fondamentale della matematica come scienza
statistica in grado di costruire scenari
futuri.
Non si conducono imprese di natura economica
senza bilanci preventivi, chiari prospetti
di spesa e probabili ricavi. Poi rimane da
fare i conti con le probabili oscillazioni
del mercato, l'aumento del prezzo delle materie
prime, il costo dei trasporti e così via:
ma senza un minimo di previsione fondata
su dati certi e su dati probabili, non si
va da alcuna parte.
La vicenda scientifica del novecento, pertanto,
è semmai una sconfessione della posizione
humeana secondo cui la matematica non è di
alcuna utilità alla conoscenza scientifica.
Giova ancora ricordare che la credenza è
per Hume non un'effettiva conoscenza che
deriva dall'esperienza, ma una specie di
istinto, ovvero una forma di sentimento.
Anche su questo piano siamo cioè di fronte
ad una negazione della razionalità, la quale,
come vide successivamente Kant nella "Critica
alla ragion pura" , ha invece il diritto
di trarre qualche conclusione e qualche giudizio
razionale sulla base della conoscenza empirica
dei fenomeni.
Il problema è che per Hume non esiste una
regolarità della natura. Egli considera possibili
eventi del tutto impossibili secondo le stesse
leggi naturali, le quali sono anche ricavate
dalla nostra esperienza e non da costrutti
teorici campati per aria.
Contestata in modo così radicale la ragione,
Hume attribuisce quindi al sentimento una
funzione di giudizio superiore alla pura
ragione e questo è certamente il limite più
grande della sua filosofia. Anzi, per la
verità, il sentimento istintivo è per Hume
il vero costituente distintivo della natura
umana, ossia ciò che accomuna tra loro tutti
gli esseri umani.
Questa è dunque una definizione dell'uomo
radicalmente alternativa a quella di Aristotele.
Mi piacerebbe affermare che è complementare
ma, dati i ragionamenti proposti da Hume,
questo non è del tutto accettabile perchè
una nera ombra oscura l'intera proposta filosofica
humeana.
Nelle "Ricerche sull'intelletto",
in chiusura del libro troviamo una sentenza
inquietante che dovrebbe indurci a riflettere:
«Quando scorriamo i libri di una biblioteca,
persuasi di questi principi (cioè la filosofia
di Hume...nda), che cosa dobbiamo distruggere?
Se ci viene alle mani qualche volume, per
esempio di teologia o di metafisica scolastica,
domandiamoci: contiene qualche ragionamento
astratto sulla quantità o sui numeri? No.
Contiene qualche ragionamento sperimentale
su questioni di fatto o di esistenza? No.
E allora gettiamolo nel fuoco, perchè non
contiene che sofisticherie ed inganni. »
E' un atteggiamento assai simile a quello
del famigerato Califfo che fece incendiare
la biblioteca di Alessandria, per il quale
tutto il sapere necessario era contenuto
nel Corano ed il resto dei libri non erano
altro che inganno.
Il ritratto del "buon" Hume, gaio,
socievole e soprattutto "comprensivo",
di raffinata compagnia, che circola spesso
come un trito luogo comune nei manuali di
storia del pensiero, trova in queste poche
righe una secca smentita. Come si fa ad essere
insieme "comprensivi" ed incitare
il prossimo a bruciare i libri di teologia
e metafisica, solo perchè hanno il torto
di non contenere il pensiero di Hume? Dobbiamo
intenderlo come uno sfogo, un momento di
debolezza del filosofo, oppure dobbiamo prenderlo
sul serio come espressione di un sentimento
non benevolo, ma distruttivo?
Come ho già detto in generale mi ritengo
sia scettico che fondamentalmente vicino
alle espressioni più empiriche e criticiste
del novecento. Trovo da sempre, insieme a
Bertrand Russell, una radicale avversione
per il concetto di "causa" usato
in senso metafisico, in particolare per tutta
quella autentica rassegna di ipotesi improbabili
che è la filosofia medioevale incentrata
sulla dimostrazione dell'esistenza di Dio.
Ma da qui alla proposta di "bruciare
il passato" ovviamente ce ne corre,
perchè allora dovremmo bruciare anche la
Bibbia, il Corano, i Veda, e perchè no, i
trattati di Tolomeo e di Euclide.
In Hume manca il rispetto per la storia del
pensiero che muove pertanto da una saccenza
che ha poco a che fare con una vera skepsi.
Critica alla "sostanza", negazione
dell'io
Anche sul problema della sostanza Hume svolge
una serie di affermazioni di grande interesse.
Infatti, secondo lui, noi non abbiamo alcuna
esperienza, e quindi nessuna impressione,
della reale esistenza dei corpi materiali;
abbiamo solo impressioni del colore, della
forma, della solidità, del peso ecc...
Per questo non siamo in grado di affermare
che le sostanze materiali esistono.
Sulla scia di Berkeley, Hume afferma che
le sostanze esistono sono in virtù dell'abitudine
a crederenella loro esistenza.
Ma la vera esperienza non attesta alcunchè,
in quanto noi abbiamo esperienza del peso,
del colore, della forma, ma non del corpo
materiale realmente esistente nella sua unità.
Pertanto l'esistenza della sostanza è semplice
oggetto di credenza .
Su questo piano va detto che Hume riesce
a superare persino Berkeley, il quale era
comunque certo dell'esistenza delle sostanze
spirituali, compreso l'io di tipo cartesiano,
oltre che a tutto ciò che è oggetto di fede
religiosa.
Non solo: per Berkeley lo spirito che Dio
ha immesso in noi è garanzia della nostra
intepretazione delle idee. Pertanto la nostra
mentalità risulta comunque orientata in modo
conforme alle idee stesse.
Hume pone radicalmente in dubbio anche questa
prospettiva svelandone il carattere dogmatico
e contestando persino l'esistenza dell'io.
Nella nostra reale esperienza non vi sarebbe
infatti alcuna traccia di un io stabile e
permanente, ma solo un succedersi di stati
di coscienza.
Questo per dire che noi non siamo una sostanza
dotata di di identità permanente, sempre
identica a sé stessa, quindi un individuo,
ma solo un contenitore di impressioni mutevoli
che si susseguono nel tempo.
Pertanto anche in questo campo noi crediamo
di esistere sostanzialmente, ma in realtà
siamo solo un fascio di impressioni che si
succedono.
La morale
Il capolavoro di Hume, a questo punto, consiste
nel ricavare una teoria morale su presupposti
così vacillanti, tenendo conto che proprio
la morale costituiva la parte più importante
della sua filosofia, essendo condizione e
garanzia di una ordinata vita sociale.
La morale di Hume non si basa solo sul sentimento
o solo sulla ragione.
Anche la morale è una questione di fatto
sulla quale la matematica può dire ben poco.
Egli infatti pone alla base di ogni valutazione
morale del singolo la sua utilità alla vita
sociale.
L'Abbagnano scrive sulla morale di Hume:
<< L'approvazione che viene tributata
a certi sentimenti o a certe azioni, la riprovazione
che viene inflitta ad altri sentimenti od
azioni, si fondano entrambe sul riconoscimento
implicito od esplicito della loro utilità
sociale. In una condizione in cui fosse data,
per esempio, al genere umano la più prodiga
abbondanza di tutte le comodità e di tutti
i beni materiali, in cui l'uomo non dovesse
preoccuparsi di nessuna delle sue necessità
materiali, la giustizia sarebbe inutile e
non potrebbe mai nascere. Come nessuno può
commettere ingiustizia per l'uso ed il godimento
dell'aria, che è data dall'uomo in quantità
illimitata, così nessuno potrebbe commettere
ingiustizia in una condizione i cui anche
gli altri beni fossero forniti all'uomo in
quantità illimitata.>> (Storia della
filosofia, volume IV)
Ciò, ancora una volta, tuttavia, finisce
col fare rientrare dalla finestra quello
che Hume aveva messo fuori dalla porta.
Infatti questo significa implicitamente riconoscere
che una particolare forma di privazione suscita
una reazione di scontento ed una richiesta
di giustizia. Ma come potremmo definire altrimenti
la privazione come causa dello scontento?
Del resto anche sulla questione dell'aria
vi sarebbe molto da dire, visto che si può
inquinare e quindi commettere forme di ingiustizia
che vanno davvero al di là dell'immaginazione
empirica.
La tesi di fondo che Hume sostiene in campo
morale è che la ragione è del tutto impotente
ad orientare le azioni umane. Questo perchè
le passioni, come del resto le credenze,
sono il risultato di impressioni che non
derivano direttamente dall'esperienza, ad
esempio l'esperienza del piacere e del dolore,
ma da altre impressioni e da altre "credenze"
come l'amore e l'odio, l'orgoglio e l'umiltà.
La volontà è nientaltro che una passione,
la quale non nasce da una determinazione
razionale a raggiungere uno scopo, ma solo
da un'impressione la quale ci spinge a produrre
movimenti del corpo e pensieri della mente.
Dice Hume che « La ragione è, e deve solo
essere, schiava delle passioni e non può
rivendicare in nessun caso una funzione diversa
da quella di servire ed obbedire ad esse.»
Pertanto l'etica non può fondarsi sulla ragione,
come pretendevano Locke o Cartesio, o contemporanei
come Toland.
Per Hume quindi l'etica si può solo fondare
sul sentimento morale, cioè sulla propensione
della natura umana a compiere azioni virtuose
e disapprovare azioni malvage.
Hume contesta apertamente che l'unico movente
dell'uomo sia l'egoismo. Per questo vorrebbe
togliere alla morale l'abito da lutto con
il quale l'hanno vestita teologi e filosofi.
Per Hume la morale "vera" è gaia,
gentile, benefica, comprensiva. La morale
si propone quindi di rendere gli uomini felici
in ogni istante della loro vita, non di opprimerli.
Anche qui siamo dunque in presenza di un
presupposto piuttosto vacillante perchè è
davvero tutto da dimostrare che la natura
umana sia naturalmente inclinata ad azioni
virtuose.
Inoltre il continuare a contrappore sentimento
e ragione come non potessero darsi, ad esempio,
un sentimento razionale ed un sentimento
irrazionale, pare piuttosto semplicistico.
Odio ed amore sono certamente forme estremistiche
di sentimenti molto più innocenti quali antipatia
e simpatia, repulsione ed attrazione, divergenza
e convergenza, disaccordo ed accordo.
Ma dati questi sentimenti ognuno vede come
sia possibile sia semplicemente accettarli
e farsi dominare da essi, sia esaminarli
e vedere da dove muovono.
Se l'attrazione e l'amore che proviamo per
una persona è determinata dalla bontà del
suo carattere, dalla modestia dei suoi comportamenti,
dall'equilibrio dei suoi giudizi e comportamenti,
è certo che il nostro è un sentimento razionale.
Se all'opposto noi detestiamo una persona
nonostante essa presenti gli stessi caratteri
su elencati, è molto probabile che il nostro
sia un sentimento irrazionale, cioè motivato
da ragioni pregiudiziali, come il fatto che
si tratti di un Capuleti invece che d'un
Montecchi, d'un napoletano invece che d'un
veneto, d'un negro invece che d'un bianco,
d'un cattolico invece che d'un protestante.
Del resto anche la contrapposizione tra istinto
e ragione, come se nell'uomo non fosse istintivo
ragionare, pare davvero un ferrovecchio del
peggiore irrazionalismo, più che un tratto
distintivo del vero empirismo inglese inaugurato
da Locke.
Un altro tratto caratteristico del pensiero
di Hume è quindi il credere al carattere
socievole dell'uomo [forse fino a quando
non conobbe Rousseau:-)))], il quale desidera
l'approvazione sociale e teme la disapprovazione.
Anche qui siamo di fronte ad un'osservazione
parzialmente vera, ma molto limitata, in
quanto non esiste e non è mai esistito un
sociale omogeneo se non nelle culture tribali.
Pertanto è ovvio che sia difficile incontrare
un tipo di "approvazione" generalizzata;
molto più facile riscontrare un tipo ristretto
di approvazione sociale e culturale, riportabile
alla categoria delle "maggioranze silenziose
e pettegole" ed a quella delle minoranze
inquiete e ribelli, oppure quello delle avanguardie
sperimentali ed utopistiche.
E' del tutto impossibile, comunque, che si
possa incontrare approvazione generalizzata
in filosofia, date le innumerevoli correnti
di pensiero che l'attraversano.
Lo stesso Hume, del resto, venne apertamente
criticato e disapprovato per le sue temerarie
considerazioni etiche e filosofiche. E fu
quindi tollerato e sopportato solo in virtù
delle sue posizioni politiche conservatrici,
fondate sulla persuasione che i rapporti
sociali esistenti siano naturali anzichè
convenzionali, e che la società stessa sia
di origine naturale e non contrattuale come
avevano proposto Hobbes, Locke e lo stesso
Rousseau.
In pratica è come "filosofo antiborghese"
in senso reazionario e non socialista, che
Hume trovò un certo seguito tra la piccola
nobiltà terriera annoiata dalla caccia alla
volpe, ma assai poco disposta ad imprendere
economicamente attività artigianali e commerciali.
Hume fu un accanito difensore del diritto
di proprietà, ed anzi credette che esso sia
"naturale", senza considerare che
è conseguenza di una storia, ed è quindi
causato da eventi concatenati l'uno all'altro
in ordine temporale. Quindi insieme "naturale
e sociale", perchè le due cose non sono
in contraddizione, nè quando si creda la
società ( e lo stato) come originata da un
contratto "do ut des", nè che si
creda la società come un semplice risultato
della spinta ad associarsi.
Non è anzi da escludere che il motivo vero
del dissidio con Rousseau sia da ricondursi
a queste differenti concezioni della vita
sociale.
Il problema del resto è molto semplice: se
accettiamo l'origine contrattuale di ogni
associazione umana, è implicito che il concetto
di giustizia nasca su basi certe, ovvero
il contratto con le norme e le regole che
esso impone, oltre che ai diritti che esso
consente.
Se fondiamo l'origine della società semplicisticamente
sull'innato cooperativismo e sulla socievolezza,
non abbiamo altra via che affidarci al caso,
alla buona sorte temporanea ed ai colpi di
genio di qualche legislatore illuminato per
fondare il concetto stesso di giustizia,
oppure trovarlo all'esterno, per esempio
nella legge divina, od ancora, in un sovrano
cui dovremmo comunque riconoscere una investitura
divina, o comunque superiore.
La mia impressione è che Hume non abbia fatto
veramente i conti sia con il pensiero di
Hobbes sia con quello di Locke.
Consiglierei pertanto il lettore che volesse
realmente approfondire la dottrina politica
di Hume in rapporto alla tradizione inglese
di consultare la voce "giusnaturalismo"
in Storia delle dottrine politiche, economiche
e sociali, diretta da Luigi Firpo, nel IV
volume, "L'età moderna" tomo I
, UTET, 1980, pag 492.
Per quanto attiene la teoria morale di Hume
vi sarebbero ancora diversi punti da evidenziare,
in primo luogo il fatto che Hume contesta
apertamente la derivazione di qualsiasi precetto
normativo da proposizioni contenenti osservazioni
di tipo predicativo o esistenziale. Questo
da un punto di vista di logica aristotelica,
che era l'unica logica che Hume conosceva.
Pertanto, per Hume, ricavare sentenze includenti
il verbo "dovere" anteponendo frasi
contenenti il verbo essere, è fondamentalmente
scorretto, perchè ciò costituirebbe il passaggio
da un genere di discorso ad un altro di genere
diverso.
La legge di Hume
Sulla base di queste osservazioni alcuni
filosofi del novecento hanno dedotto la legge
di Hume, secondo la quale è ingiustificato
dedurre da proposizioni descrittive, ovvero
contenenti una conoscenza, proposizioni prescrittive,
cioè contenenti un comandamento morale. Questo
perchè l'etica non può fondarsi su alcuna
conoscenza, in quanto mondo dell'etica e
mondo della conoscenza sarebbero completamente
divisi l'uno dall'altro.
Che le cose in realtà non stiano così, tuttavia,
è fortemente comprovato dalla "ragione
pratica" di Kant, il quale parlando
degli imperativi ipotetici, cioè di quel
tipo di ragionamento che comincia con la
formula "se vuoi devi..." dimostrò
che semplicemente trasformando la proposizione
derivante da una conoscenza in una proposizione
di tipo condizionale, è del tutto possibile
legare una conoscenza ad una scelta etica.
Non solo: la stessa scelta etica è determinabile
razionalmente in base a quello che vuole
la volontà. Una proposizione del tipo: "se
vuoi la pace prepara la pace, ma tieniti
addestrato alla guerra" non solo non
sarebbe pertanto illegittima sotto il profilo
logico, ma sarebbe anche del tutto saggia
e sensata, in quanto conterrebbe sia la volontà
di pace, sia la possibilità che qualcun altro
voglia la guerra.
A ciò vorrei aggiungere una considerazione
banale e tuttavia necessaria a chiarire la
questione. Semplicemente considerando il
codice della strada, noi possiamo verificare
quanto sia imprecisa e fuorviante questa
cosiddetta legge di Hume.
Infatti, dato che c'è chi conosce la struttura
ed il tipo di percorso di una particolare
strada, questi formula tramite un segnale
la prescrizione di rallentare fino a 50 kmh
in caso di ghiaccio, neve o nebbia. Ciò,
a mio avviso, non solo non ha nulla di scorretto,
ma è fondalmentalmente "logico",
perchè afferma una premessa universale, ovvero:
"se vuoi evitare incidenti, devi rallentare".
Questa prescrizione, che ha un carattere
morale in quanto si propone di evitare danni
a sé ed al prossimo, è ragionevolmente dedotta
da una descrizione.
La religione (di Guido Marenco)
<<Dato che ogni indagine riguardante
la religione - scrive Hume - è della massima
importanza, due problemi si impongono soprattutto
alla nostra attenzione: il primo è quello
dei suoi fondamenti razionali, l'altro concerne
le sue origini nella natura umana.
Per fortuna il primo - che è il più importante
- può essere risolto nel modo più ovvio o
almeno più chiaro. L'intera costituzione
della natura rivela un autore intelligente;
e nessuno che indaghi secondo ragione può,
dopo seria riflessione, sospendere sia pure
per un momento la sua credenza nei primi
principi dello schietto teismo e della religione.
Ma il problema dell'origine della religione
nella natura umana va incontro a difficoltà
maggiori. La credenza in un potere invisibile
ed intelligente è stata sempre diffusa largamente
nella razza umana, in tutti i luoghi e in
tutte le età, ma non è mai stata così universale
da non ammettere eccezioni, né ha suggerito
idee affatto uniformi. Si è scoperto qualche
popolo privo di sentimenti religiosi, se
c'è da credere a quel che dicono i viaggiatori
e gli storici; ma non esistono due popoli,
e neppure due uomini qualsiasi, che siano
perfettamente convinti della medesima opinione.>>
(da David Hume, Introduzione a "Storia
naturale della religione" - Laterza
1994)
Come si vede Hume sembrerebbe in primo luogo
convinto dell'esistenza di un Dio creatore,
trovato, secondo ragione, nell'ordine del
creato a misura d'uomo. Ma ne "I dialoghi
sulla religione naturale" Hume, contro
ogni specie di prova dell'esistenza di Dio,
studiate peraltro proprio su quei libri che
invita a bruciare, oppone un argomento tipico
della sua filosofia generale. <<Niente
è dimostrabile, senza che il suo contrario
implichi contraddizione. Niente che sia distintamente
concepibile implica contraddizione.
Tutto ciò che noi concepiamo come esistente,
possiamo concepirlo come non esistente. Perciò
non vi è un essere la cui non esistenza implichi
contraddizione. Di conseguenza non vi è un
essere la cui esistenza sia dimostrata.>>
(dai "Dialoghi", II. pag 432)
Questo tipo di considerazione, ovviamente,
vale per la prova ontologica di Descartes,
per il quale, se noi abbiamo concetto di
Dio, il fatto che pensiamo questo concetto
è prova della sua esistenza.
Per Hume questo "fatto", giustamente,
è solo un pensiero, non è un questione di
fatto e dunque non dimostra alcunchè.
Ma Hume liquida anche le altre prove, in
particolare quella "causale", per
la quale, a partire da Aristotele, deve esistere
una causa prima di tutti i fenomeni. E considera
come prova negativa di questa ipotesi una
collezione di individui. Se si mostrano le
cause particolari di ciascun individuo, dice
Hume, è assurdo poi domandare quale sia la
causa di tutta la collezione. Questa infatti
sarebbe già data dalle cause particolari.
L'argomento non è dei migliori, sia che si
parli in concreto di oggetti da collezione,
figurine di calciatori o soldatini di piombo,
sia che si parli di individui umani. Infatti
nel primo caso la causa degli oggetti è il
loro rispettivo produttore, mentre quella
della collezione è nel collezionista che
li raccoglie.
Nel caso di individui viventi la causa è
ovviamente nei loro genitori. Ma dato che
non si può risalire all'infinito di padre
in padre e di madre in madre, bisognerà per
forza porre un termine relativamente al primo
vivente con le stesse caratteristiche dell'ultimo
esemplare della catena, non già una scimmia
che tende ad essere umana, ma un uomo che
ha ancora caratteri scimmieschi :-))), ovvero
un individuo che parla, disegna simboli dotati
di significato e non emette solo rutti, grugniti
"e del suo cul facea trombetta".
In sostanza diviene difficile negare un qualsiasi
inizio della specie umana anche se ammettiamo
che la materia e l'energia di cui sono fatti
i corpi che costituiscono il cosmo esistono
da sempre e sono increati.
Ciò non prova direttamente l'esistenza di
Dio, ma prova che un inizio c'è stato e non
può non esserci stato, rimanendo sul piano
della sola ragione. Quanto ai fatti, ovviamente,
la ricerca scientifica ormai è anche in grado
di datare i reperti archeologici e archeoumani,
cioè i fossili, grazie al processo di decadimento
del carbonio 14. Prove che Hume non poteva
considerare ai suoi tempi.
Ma ciò che disturba, in Hume, è proprio l'assenza
di un qualsiasi sforzo intellettivo per andar
oltre alla "questione di fatto".
Il che comporta, da un lato conseguenze assurde,
tipo la negazione della causalità tout court,
e dall'altro un restringimento della possibilità
proprio laddove la si vuole affermare. (
E non ci sono dubbi su questo: Hume voleva
affermare la possibilità contro il rigido
determinismo filosofico, scientifico e religioso)
Un esempio di questa miopia la si ritrova
nel ragionamento che egli conduce attorno
ad una possibile causa fisico-teologica del
mondo "proporzionata" all'effetto,
cioè il mondo esistente.
Hume dice: siccome il mondo, cioè l'effetto,
è imperfetto e finito, pertanto anche Dio
è imperfetto e finito. E non c'è neppure
motivo per riconoscere un unico Dio. Tant'è
vero che se una città può essere costruita
da più uomini, anche l'universo potrebbe
essere costruito da più divinità, o anche
da demoni.
Questo tipo di riflessioni, a mio avviso,
persegue lo scopo di dimostrare l'impossibilità
di pervenire a Dio secondo ragione, o nei
limiti della sola ragione, dunque si contrappone
seccamente in particolare alle posizioni
di Toland, che in quegli anni aveva cercato
di mostrare il carattere razionale del cristianesimo.
In un certo senso si ricollega alle posizioni
di Duns Scoto che, in pieno medio evo, aveva
avviato una sottile polemica contro il tentativo
volto a rivalutare la ragione operata da
San Tommaso d'Aquino, aprendo quindi la strada
alla rinascita del fideismo.
Ma come ho evidenziato altrove, Duns Scoto
aveva avuto buon gioco operando sui limiti
stessi della filosofia dell'aquinate, di
ordine teorico laddove egli subordinava comunque
la ratio alla fides in caso di contraddizioni,
e di ordine pratico laddove si evidenziava
che la scuola dell'aquinate non creava comunque
movimento, non arrivava cioè a fare del cristianesimo
una prassi volta al cambiamento del mondo
secondo lo spirito dell'Evangelo.
Ciò detto appare altrettanto evidente che
la filosofia di Hume finisce col combinare
una miscela davvero esplosiva di fideismo
senza Dio, parlo di un Dio certo, il Dio
dei profeti per intenderci, e di scetticismo
senza ricerca, ovvero senza un vero obiettivo.
La cosiddetta analisi sulla natura umana
che avrebbe in sè l'atteggiamento religioso
come sentimento connaturato non tocca in
realtà che molto superficialmente i problemi,
sia rispetto ad un'indagine di tipo storico,
sia rispetto ad un'analisi di tipo filosofico.
Affermare, ad esempio, che il politeismo
è "tollerante", mentre il monoteismo
conduce all'intolleranza è quantomeno fantasioso
e dimentica, tra le tante cose, che l'ebraismo
fu oggetto di persecuzione nell'antichità
almeno fino a Salomone, e che il cristianesimo
fu perseguitato per un intero periodo storico,
da Nerone fino quasi a Costantino, cioè per
quasi trecento anni.
Quanto al fatto che lo stesso cristianesimo
sia a sua volta caduto nella tragedia dell'inquisizione,
noi abbiamo la certezza che vi siano delle
ragioni storiche che Hume non rileva nella
sua miopia. Il cristianesimo dell'inquisizione
è un singolare intreccio di logiche temporali
e di potere, di fideismo e di sospetto dovuto
al dogmatismo che è connaturato al fideismo.
E' cioè un momento di trionfo dei sentimenti
oscurantisti, un vero e proprio momento di
eclissi della ragione.
L'unica osservazione degna di nota nella
critica humeana alla religione diventa allora
quella che il cristianesimo, ad un certo
punto della sua vicenda, ridiventa politeistico,
cioè rivaluta l'uomo "santo" fino
al punto di farne oggetto di culto, e attraverso
il culto mariano, rivaluta a dismisura il
carattere femminile, "attivo" della
divinità, dimenticando che Maria è nei vangeli
simbolo di obbedienza "passiva"
e finendo col riproporre modelli, quali quelli
del sacerdozio femminile comportante la verginità,
che appartengono al politeismo semitico e
greco, alla vestalità romana, ma non hanno
alcun precedente nell'ebraismo e nel vero
monoteismo.
Infine Hume non evidenzia un dato che invece
è basilare nella comprensione del moderno
cristianesimo: da un lato abbiamo un cattolicesimo
tollerante nei confronti del proprio interno
politeismo, ma sostanzialmente incline, fino
a prova contraria, e dopo le "sberle"
presi da Galileo in poi, a rivalutare la
ragione ed a dimostrarsi comunque intollerante
nei confronti di ogni altra espressione religiosa
in quanto irrazionale; dall'altra abbiamo
un protestantesimo fideista, ma sostanzialmente
fedele al principio del monoteismo che è
comunque più razionale dello strisciante
politeismo demagogico dei cattolici, e comunque
incline al dialogo interconfessionale.
Nel settecento, tuttavia, proprio dall'alveo
del protestantesimo, in particolare tra gli
inglesi e con Kant, abbiamo una significativa
rinascita del rapporto razionale con Dio.
Da tutto quanto abbiamo visto e considerato
è evidente che Hume stava da un'altra parte,
e che forse la chiesa presbiteriana non aveva
tutti i torti ad opporsi a Hume come "maestro"
di etica e di "logica".
Evito una nuova polemica con Renzo Grassano
se preciso che egli non è d'accordo con me?