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Hilary il volubile e la fine della dicotomia fatto/valore
di Guido Marenco
Hilary Putnam - FATTO/VALORE fine di una dicotomia - Fazi editore, I edizione marzo 2004
«I valori e la loro trasformazione stanno in rapporto con la crescita di potenza di chi pone i valori.» F. Nietzsche (1)
Funzionalista, analitico, pragmatista, realista
dal volto umano, persino"marxista"
- in gioventù - : definire il profilo
filosofico di Hilary Putnam mediante etichette
potrebbe sembrare un'impresa impossibile.
Ha cambiato idea più volte, e questo
non sarebbe un delitto. Ma a taluni ciò
è sembrato il sintomo di un'incoerenza
e forse la mancanza di un'ispirazione fondamentale.
Non sarei così drastico. Un'ispirazione
fondamentale c'è, e la parola chiave
potrebbe essere "realismo critico".
Un modo molto prudente, non metafisico, di
fare i conti con la realtà, "quel
mondo là fuori" che non sta solo
nelle nostre impressioni sensibili, ma che
"è" e "diviene"
indipendentemente dal nostro pensiero, ma
non sempre indipendentemente dalle nostre
azioni. Anzi, sempre più. Il primo passo
verso tale approccio fu il rigetto del funzionalismo
e quindi delle analogie tra mente e computer
spinte fino a negare ogni differenza. Inoltre,
Putnam è sicuramente impegnato contro
il relativismo, soprattutto quello etico,
e ciò raddoppia il possibile interesse
nei suoi confronti perché è
evidente che gli sfigati di tutti i mondi
reali e possibili avrebbero tutto da guadagnare
e niente da perdere a sostenere un'etica
migliore delle altre.
In questo recente lavoro, tratto da alcune
lezioni del 2000 e scritti successivi, Putnam
riprende uno dei nodi più intricati
che affaticano, ed ormai appesantiscono,
il dibattito filosofico, soprattutto tra
gli studiosi di tradizione analitica, la
dicotomia fatti/valori: di qua i fatti, che
sono oggettivi; di là i valori, che
sarebbero solo soggettivi, come del resto
le intepretazioni. Non è una novità: Putnam
aveva già affrontato il tema in numerosi
suoi scritti, alcuni dei quali contenuti
in Realismo dal volto umano e in Il pragmatismo: una questione aperta. Qui approfondisce e attacca anche il delicato
terreno della scienza economica e sociale,
riferendosi soprattutto alle idee di Amartya
K. Sen, l'economista-filosofo che ormai ispira
buona parte dei progressisti di tutto il
mondo e nutre anche l'ala più moderata dei
no-global.
Ora, a chi mastica poca filosofia, la questione
potrebbe apparire artificiosa. E non avrebbe
tutti i torti. In effetti, i cosidetti valori etici sono tali o perché sono conseguenza
dall'attività umana più o meno
cosciente che agisce in vista di fini, quindi
i valori sono risultati della civilizzazione,
ed esprimono coscienza di alcune qualità
della convivenza civile. O perché
sono assenti, o presenti in modo parziale,
e quindi vengono auspicati come fini: ad
esempio quando si reclama più giustizia,
più ordine, più libertà,
meno tasse, più istruzione, ecc...
Pertanto uno dei valori considerati più
rilevanti, la "libertà",
potrebbe essere sia descritto come fatto
che apprezzato come valore. In quest'ambito
non va dimenticato che le uniche etiche che
sembrano incontrare un consenso universale,
anche se non totale, sono quelle di origine
cristiana o kantiana, quelle cioè che attribuiscono
un valore primario ai diritti e alla dignità
dell'uomo, che cioè rifiutano di considerare
gli esseri umani come "mezzi".
Comunque si ponga la questione, dunque, un
valore è strettamente connesso ai
fatti realizzati dall'uomo, cioè alla storia,
e non potrebbe essere altrimenti. Non solo:
anche rispetto all'altro bersaglio che Putnam
cerca di colpire, la legge di Hume, quella
regola del pensiero che vieta di derivare
un obbligo morale da una situazione di fatto,
l'individuo che ragiona secondo buon senso
vi troverebbe un'artificio senza senso. Da
qualsiasi parte si prenda la questione, un
qualsiasi obbligo nasce da una situazione
di fatto del tipo: "hey, quel tizio
sta affogando! Mi butto per salvarlo.".
Oppure "ho fatto un mutuo per la casa,
devo pagare le rate". O ancora: "non
posso dire no a Tizio se mi chiede aiuto,
in passato mi ha tirato fuori dai guai".
Se le cose stanno così, diventa difficile
comprendere perché perdere tempo a
scrivere un libro, fare conferenze e tenere
lezioni su una questione del genere, astraendo
dalla storia concreta dalla quale sono emersi
i valori. Leggere questo libro di Putnam
può aiutare a capire perché
tanto chiasso attorno alla faccenda, e forse
aiuta a comprendere i vistosi limiti della
tradizione analitica, oltre che i suoi indubbi
pregi.
Putnam in effetti sta conducendo una battaglia
contro le contraffazioni e le "corruzioni
del pensiero" che è ammirevole
per impegno e qualità. In un passo
del libro egli parla persino di "questione
di vita e di morte" in quanto la separazione
tra "fatti" e "valori"
avrebbe prodotto danni incalcolabili. Purtroppo
questa battaglia è tutta interna al
mondo iperuranico di chi si occupa di filosofia,
epistemologia e scienze sociali; non ha che
agganci indiretti con il mondo della gente
comune, anche se è noto che Putnam
vorrebbe parlare anche alla gente comune.
Ma con un libro del genere, è difficile
che ci riesca, anche se non si sa mai.
E' corretto, ha senso, ci chiede Putnam,
continuare a dividere in maniera così
netta questi due universi distinti? Egli
non nega che sia utile e necessario tenerli
distinti. Però insorge contro una
certa pretesa, quella di applicare sempre
ed ovunque la legge di Hume, cioè
quella regola del pensare che vieta di ricavare
da un "è" un "si deve".
Questo principio ha fatto molta strada nella
filosofia contemporanea, soprattutto grazie
ai neopositivisti, ma è anche penetrato
molto in profondità nel senso comune
e nell'argomentazione politica, sia a destra
che a sinistra. Chi ha usato l'argomento
per condannare le politiche del welfare,
si è comodamente dimenticato che lo
stesso può essere tranquillamente
rovesciato: non si possono sostenere politiche
liberiste senza ricorrere ad un valore, almeno
uno, cioè quello del diritto alla
massima libertà individuale. Analogamente,
chi sostiene il welfare, non può che
rifarsi a valori quali la solidarietà
e non può che contrapporre valori
a valore, l'altruismo all'egoismo più
sfrenato. L'idea che esista una scienza economica
di puri fatti sarebbe quindi insostenibile,
anche se qualcuno, come Lionel Robbins ed
i predicatori dell'"ottimo paretiano",
l'hanno sostenuta. Personalmente credo ancora
esista un'area di neutralità di tipo statistico
e ragionieristico e rimango perplesso quando
la vedo negata o seriamente compromessa da
gente che usa i dati disinvoltamente per
fare demagogia. Credo dunque che la precisione
non sia solo questione di orientamento politico,
tutt'altro. L'unica sinistra buona è quella
che sa fare i conti. Ciò detto, possiamo
anche apprezzare quanto sostiene Putnam,
il quale dice esplicitamente che la scelta
di una teoria, in ogni campo, anche il più
estraneo alla politica ed all'etica, presuppone almeno un valore. Fa degli esempi
storici apprezzabili. Ad esempio ricorda che anche Whitehead propose
una teoria della gravitazione in accordo con la teoria della
relatività ristretta, ma la comunità scientifica si
risolse in favore di quella di Einstein ben prima che essa fosse
verificata dai fatti. Ciò dimostrerebbe, in sostanza, che le
scelte non avvengono sulla base dei fatti e che vi sono altri fattori
che influenzano le scelte. «Anzi - scrive Putnam - un gran
numero di teorie debbono essere rifiutate su basi non osservative,
poiché la regola "Si metta alla
prova qualsiasi teoria falsificabile a chiunque
venga in mente" è impossibile
da seguire. Come una volta Bronowski ha scritto
al suo amico Popper: "Non pretenderesti
che gli scienziati mettano alla prova qualsiasi
teoria falsificabile se la tua scrivania
venisse attraversata da tante teorie insensate
come la mia!" In breve - prosegue Putnam
- giudizi sulla coerenza, sulla semplicità
e così via sono presupposti della
scienza fisica. Tuttavia, la coerenza, la
semplicità e simili sono valori.»
Ricorressimo a termini più sfumati
come "qualità", "profondità"
o "grado di generalizzazione" di
una teoria, temo che non diremmo qualcosa
di veramente diverso da Putnam.
Data una panoramica
generale, possiamo ora entrare in dettagli. Ma occorre una premessa.
Putnam vede una forte analogia tra la dicotomia fatto/valore e quella
tra giudizi di tipo analitico e quelli di tipo sintetico, dove per
analitico si intende una verità per definizione del tipo
"tutti gli scapoli sono non sposati" e per sintetico si
intende un enunciato che descrive un fatto come "quegli uccelli
hanno le piume". Dovessi dire che questa analogia stretta mi
convince, mi troverei in imbarazzo. Ma dobbiamo adeguarci al
ragionamento di Putnam e vedere dove porta.
Tanto
Hume quanto i positivisti logici giustificarono la distinzione tra
giudizi di fatto e giudizi di valore attraverso un impiego "angusto
e ristretto" del concetto di "fatto". Hume si basava
sulla rozza psicologia dell'empirismo settecentesco organizzata su
idee, impressioni, un'ingenua semantica
pittorialista. Per la precisione, dice testualmente Putnam, «i
concetti, nella teoria humeana della mente, sono un tipo di "idee"
e le "idee" sono esse stesse pittoriche: l'unico modo in
cui possono rappresentare "una questione di fatto" è
rassomigliando ad essa (non necessariamente in maniera visiva,
però - le idee possono essere tattili, olfattive e così
via). Le idee, tuttavia, hanno anche proprietà non pittoriche:
possono coinvolgere o anche essere associate con sentimenti,
in altre parole con emozioni. Hume non ci dice solo che non si può
derivare un "deve" da un "è", egli
sostiene, in maniera più ampia, che non ci sono "questioni
di fatto" relative al giusto e alla virtù.
La ragione è è che se vi fossero questioni di
fatto relative alla virtù ed al vizio allora la proprietà
delle virtù (se assumiamo la "semantica pittorialista")
sarebbe raffigurabile nel modo in cui lo è la proprietà
di essere una mela. Hume era del tutto nel giusto, data la sua
concezione semantica, nel concludere che non esistono questioni
di fatto di tal genere.
Quindi,
era del tutto ragionevole concludere che giudizi di virtù e
vizio non erano niente di più che "sentimenti"
suscitati in noi.
Putnam
cerca di reimpostare i termini della questione. Egli muove dalla
considerazione della classe dei giudizi che impiegano la parola
"dovere" in senso etico. «A
dire il vero, ammette Putnam, così descritta, la classe è
alquanto vaga (dato che non è chiaro quando un uso di "dovere"
sia "etico"), ma proprio come nel caso della nozione di
"verità analitica" sarebbe prematuro negare
assolutamente che ci sia una classe del genere soltanto sulla base
della vaghezza dei suoi confini. Inoltre, con la guida delle
osservazioni di Hume nella Ricerca sui principi della morale,
possiamo allargare la classe considerando giudizi che contengono non
solo il termine "dovere", ma anche "giusto",
"ingiusto", "virtù", "vizio" e
quei termini derivati come "virtuoso" e "vizioso",
così come "buono" e "cattivo" nei loro usi
etici. La classe che risulta da questo atteggiamento - la si chiami
classe dei giudizi paradigmatici di valore - conterrebbe la
maggior parte degli esempi che appaiono negli scritti di chi propone
quella che sto chiamando la "dicotomia" fatto/valore.
Concedere che sia per davvero una classe di verità che possono
essere chiamate "analitiche" di per se stesse (pur con
confini alquanto vaghi) né (1) sembra risolvere alcuni
problemi filosofici, né (2) ci dice con precisione che cosa
i membri della classe hanno in comune, né (3) ci richiede
di ammettere che il completamento di tale classe (la classe delle
verità non analitiche e delle falsità) sia un genere
naturale i cui membri possiedono un qualche tipo di essenza comune.
Allo stesso modo, ammettere che ci sia una classe di giudizi (etici
paradigmatici) che contenga forse nove o dieci o una dozzina di
termini etici familiari, né risolve alcun problema filosofico,
né ci dice che cosa precisamente rende tale un termine etico,
né ci richiede di concedere che tutti i giudizi non etici
ricadano entro uno o anche due o tre generi naturali.»
Fatta
questa precisazione, Putnam passa a parlare della teoria morale
kantiana, esordendo con una frase ad effetto sull'imperativo
categorico: "in qualsiasi interpretazione sensata della teoria
di Kant" esso non può essere soltanto l'espressione di un
sentimento. Che è come dire che Hume aveva torto a restringere
il giudizio morale all'espressione di un sentimento. Tuttavia, anche
per i positivisti logici, l'imperativo kantiano riflette solo lo
stato "volitivo"di chi parla, anche l'illustre Kant. Non è
così?
Putnam
non risponde direttamente. Dice innanzi tutto di proporsi di
sgonfiare la dicotomia, cominciando con l'evidenziare che non
è più una distinzione, ma una tesi secondo
la quale l'"etica" non verte su questioni di fatto. «Hume
-scrive Putnam - aveva la possibilità di combinare il proprio
non cognitivismo in etica con la fiducia nell'esistenza di qualcosa
che assomigliasse alla saggezza etica, perché
condivideva la comoda assunzione tipica del diciottesimo secolo
secondo cui tutte le persone intelligenti e adeguatamente informate,
che padroneggiano l'arte di pensare con imparzialità alle
questioni riguardanti le azioni e i problemi umani, nelle medesime
circostanze proverebbero gli appropriati "sentimenti" di
approvazione e disapprovazione a meno che non ci sia qualcosa che non
va nella loro costituzione personale.»
Dal canto loro, i positivisti logici, con
in testa Carnap, volevano "espellere"
l'etica dal dominio della conoscenza. E ciò
perché convinti di sapere "cosa
fosse un fatto". In questo seguivano
Hume. Tuttavia, proprio "lo sviluppo
della scienza esclusiva dei fatti" li
ha costretti a rivedere il loro concetto
di "fatto", imponendo loro di considerare
l'esistenza di "non osservabili"
come batteri, virus e atomi. Solo nel '38
Carnap "liberalizzò leggermente
il requisito secondo cui tutti i predicati
fattuali debbono essere definibili tramite
termini osservativi". Così, prosegue
Putnam, rendersi conto del «fatto
che una parte così grande del nostro linguaggio descrittivo è
un contro-esempio rilevante per entrambe le rappresentazioni
del regno dei "fatti" (quella degli empiristi classici e
quella dei positivisti logici) dovrebbe scuotere la fiducia di
chiunque ritenga che ci sia una nozione di fatti che contrasti
in maniera netta e assoluta con la nozione di "valore" cui
si pensa fare appello nel parlare della natura di tutti i "giudizi
di valore".» Nel
1950, Quine demolì la nozione (metafisicamente gonfiata) di
"analitico", sicché, secondo Putnam, fu chiaro che
non c'è scienza che non presupponga valori. Venivano così
ad avere ragione i pragmatisti, per i quali i valori permeano tutta
l'esperienza. Se è vero, allora, prosegue Putnam, "i
valori, sia quelli epistemici che quelli etici, vanno trattati allo
stesso modo." Così, invece di eliminare i giudizi etici o
epistemici, occorre, all'opposto, ampliare il nostro concetto di
oggettività. Si può essere oggettivi non solo
nel confronto di enunciati che esprimono descrizioni, ma anche
rispetto a quelli che esprimono valutazioni. Su questa linea Putnam
si imbatte in diversi filosofi, da Bernard Williams a Jürgen
Habermas, restii ad accettare un'impostazione simile. Secondo Putnam,
Habermas non sfugge ad una specie di criptopositivismo quando rifiuta
di riconoscere oggettività ai giudizi di valore, nonostante
riconosca che le norme che regolano l'agire comunicativo abbiano
valore oggettivo. Putnam ricorda una celebre espressione di Habermas:
"Abbiamo bisogno di qualche imperativo categorico, ma non di
troppi." Per Putnam è troppo poco limitare la
norma alla sfera del discorso. «Non
può essere che l'unica norma universale si riferisca soltanto
al discorso. E' possibile, dopo tutto, che qualcuno riconosca
il dire la verità come norma obbligante mentre tutto il
resto viene guidato soltanto da un "egotismo illuminato"
(Questo è, anzi, il modo di vita raccomandato da un'influente,
per quanto dilettante, filosofeggiatrice, - non posso definirla
filosofo -, Ayn Rand). Ma una persona del genere può violare
ad ogni passo lo spirito, se non la lettera del principio dell'agire
comunicativo. Dopo tutto, l'agire comunicativo viene contrapposto
alla manipolazione e una persona del genere, in quanto tale,
può manipolare gli altri senza violare le massime di
"sincerità, veridicità, e di dire solo quel che si
crede razionalmente garantito".
[...] Anzi, la persona che
dice: "Fa quel che voglio o ti uccido", non sta
necessariamente violando alcuna massima che concerna il discorso.»
Nella polemica contro Habermas, Putnam non poteva non giungere a toccare anche Apel e Peirce, responsabili, secondo Putnam, di una teoria della verità secondo la quale "è metafisicamente impossibile che ci siano verità non verificabili da esseri umani". «La teoria, dunque, è una specie di ciò che oggi si chiama "antirealismo" dato che essa fa sì che i limiti di ciò che può esser vero riguardo al mondo dipendano dai limiti delle capacità umane di verificazione.» Per Putnam, l'argomento che spesso viene speso a favore dell'antirealismo assume sempre la forma di un'accusa . Hilary non sopporta l'idea che sia tacciata come metafisica l'asserzione che "la verità talvolta potrebbe essere,anche idealmente, non verificabile". E qui, credo abbia ragione, anche se io avrei insistito sul concetto di "verità probabile", che non necessariamente rispecchia, e non potrebbe mai farlo, specie in campo storico, tutta la ricchezza e la pienezza di una realtà passata.
Uno dei punti più interessanti sviluppati da Putnam riguarda la scienza economica di Amartya Sen, il vincitore di un Nobel che si è battuto per un ritorno dell'etica nell'analisi economica, osservando, da un punto di vista intriso di teoria nicomachea, che razionalità ed egoismo non sono affatto la stessa cosa, anche se è innegabile che l'egoismo sia il primo passo sul percorso della razionalità rispetto ad uno scopo. Putnam non si limita a ripetere le tesi di Sen, ma ci mette anche del suo. Ora il punto da comprendere è che Sen ha lavorato molto in profondità per dimostrare che l'"ottimo paretiano" "è un criterio estremamente debole per valutare lo stato di cose in ambiti socio-politici". Scrostando gli strati dei luoghi comuni che per decenni hanno afflitto la scienza economica, in particolare quella anglosassone, Sen è anche arrivato ad analizzare la differenza che passa tra un valore ed un valore giudicato fondamentale, contribuendo così a chiarire quanto sia grossolano parlare genericamente di valori. (insomma: se si vuole essere analitici, bisogna analizzare e scomporre i significati delle parole nei loro contesti!) Uno dei contributi maggiori di Sen è quello ormai noto come "criterio delle capacitazioni". Una capacitazione è la capacità degli individui di acquisire funzionamenti cui attribuire valore, scopo e significato. Sen dice che "i funzionamenti considerati possono variare dai più elementari, come essere ben nutriti, sottrarsi per quanto possibile a morbilità e mortalità precoce, ecc., ad acquisizioni più complesse e sofisticate, come l'avere rispetto per se stessi, essere in grado di prendere parte alla vita della comunità e così via." «Ovviamente - scrive Putnam - non ho il tempo di spiegare in dettaglio il criterio delle capacitazioni, e tantomeno di discutere le teorie opposte sulle questioni della povertà, del benessere e della giustizia globale che Sen considera e rifiuta... Ma ciò non è necessario al mio scopo, che è quello di mostrare come l'economia del benessere si sia trovata costretta a riconoscere che il suo interesse "classico" nei confronti del benessere economico (e del suo opposto, l'indigenza) fosse essenzialmente di ordine morale e non potesse essere soddisfatto affidabilmente fino a quando non si fosse disposti a prendere sul serio argomentazioni morali ragionate.» Da questo punto in poi Putnam procede con considerazioni che mi paiono molto sensate ed estremamente interessanti. Dunque vale la pena leggere questo libro. Tuttavia, mi permetto di avanzare un rilievo che mi sembra importante rispetto a quella che è la nostra cultura e la nostra tradizione. Putnam evita od omette di fare i conti col pensiero di Max Weber, che sul valore dell'avalutabilità della scienza sociale ha scritto pagine decisive per le sorti del secolo passato ed anche del presente. Oggi questa avalutabilità mostra i suoi limiti praticamente di fronte a tutto ciò che accade nel mondo; putroppo fece anche poca strada nella Germania di Weimar.
1) dalla Volontà di potenza
gm - 11 novembre 2005