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Heidegger e la questione della tecnica
«E tuttavia, proprio quando è sotto questa minaccia l'uomo si veste orgogliosamente della figura di signore della terra. Così si viene diffondendo l'apparenza che tutto ciò che si incontra sussista solo in quanto è un prodotto dell'uomo. Questa apparenza fa maturare un'ultima ingannevole illusione. E' l'illusione per la quale sembra che l'uomo, dovunque, non incontri più altri che sé stesso.»
aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaMartin Heidegger - La questione della tecnica - in Saggi e discorsi - Mursia 1976
Ciò che contraddistingue l'umanismo nella modernità è che l'uomo come soggetto considera l'ente come ente solo se è oggetto, ovvero solo se l'ente vien posto-di-contro (ob-jectus, Gegen-stand) a un soggetto, la cui attività consiste nel rappresentare (vor-stellen) davanti (vor). Essenza della modernità umanista è la ricerca scientifica la quale a, sua volta, è essenzialmente rappresentazione. Essa consiste nell'anticipazione mentale delle condizioni che rendono possibile a qualcosa di rivelarsi per quello che è. Condizione per il manifestarsi dell'ente non è più l'essere, ma il progetto matematico dell'uomo. In questo modo il soggetto non solo diventa condizione del presentarsi dell'ente, inteso come oggetto posto-di-contro, ma se ne assicura l'accadimento con la rappresentazione anticipata delle condizioni che ne garantiscono l'essere.
Si realizza così il dominio dell'ente a opera dell'uomo. L'oggetto-ente viene in chiaro nei modi in cui era stato progettato, come ad esempio quando ci facciamo un cd, viene esattamente come l'avevamo sperato e progettato grazie alla tecnologia. Ciò che l'uomo vuole diviene il valore, come valutato degno di essere. Ma, percorrendo questa via, l'uomo diventa l'unico luogo della verità, la quale non è più alétheia, nel senso di non-nascosto, e nemmeno la sua successiva versione ridotta di adaequatio - cioè corrispondenza dell'intelletto alla cosa - ma assume il carattere cartesiano di certezza soggettiva (Gewissenheit). Essa esprime nella forma più estrema l'assorbimento dell'ente nella soggettività umanista. A questo punto, scrive Heidegger, il fatto decisivo «non è la liberazione dell'uomo dai legami precedenti, ma la trasformazione che avviene nella sua stessa essenza quando l'uomo si pone come il soggetto. Dobbiamo senz'altro intendere questa parola subjectum come la traduzione del greco hypokeìmenon. La parola indica ciò che-sta-prima, ciò che raccoglie tutto in sé come fondamento. Questo significato metafisico del concetto di soggetto non ha originariamente alcun particolare riferimento all'uomo, o meno ancora all'Io. Ma il costituirsi dell'uomo a primo e autentico subjectum porta con sé quanto segue: l'uomo diviene quell'ente in cui ogni ente si fonda nel modo del suo essere e della sua verità. L'uomo diviene il centro di riferimento dell'ente in quanto tale. Dove si rivela questo mutamento? Qual è, in conseguenza di ciò, l'essenza del mondo moderno?» (1)
Che cos'è la tecnica?
Nel saggio La questione della tecnica (da una conferenza del 18 novembre 1953), Heidegger risponde alla domanda sulla tecnica cominciando col dire che «Tutti conoscono le due risposte che si danno alla nostra domanda. La prima dice: la tecnica è un mezzo in vista dei fini. L'altra dice: la tecnica è un'attività dell'uomo. Queste due definizioni della tecnica sono connesse. Proporsi degli scopi e apprestare e usare i mezzi in vista di essi, infatti, è un'attività dell'uomo. All'essenza della tecnica appartiene l'apprestare e usare mezzi, apparecchi e macchine, e vi appartengono anche questi apparati e strumenti stessi, come pure i bisogni e i fini a cui essi servono. La totalità di questi dispositivi è la tecnica. Essa stessa è un dispositivo, o in latino, un instrumentum.
La rappresentazione comune della tecnica, per cui essa è un mezzo e un'attività dell'uomo, può perciò denominarsi la definizione strumentale e antropologica della tecnica.
Chi vorrà negare che sia esatta? Essa si conforma chiaramente a ciò che si ha davanti gli occhi quando si parla di tecnica. La definizione strumentale di tecnica è così straordinariamente esatta che vale anche per la tecnica moderna, la quale peraltro viene generalmente considerata, e con una certa ragione, qualcosa di completamente diverso dalla tecnica artigianale del passato. Anche una centrale elettrica, con le sue turbine ed i suoi generatori, è un mezzo apprestato dall'uomo per uno scopo posto dall'uomo...» (2)
La rappresentazione strumentale della tecnica condiziona ogni sforzo di condurre l'uomo ad un giusto rapporto con la tecnica. La tecnica deve servire lo spirito. Si vuole così dominare la tecnica, ma essa può sfuggire al controllo. «Ma nell'ipotesi che la tecnica non sia un puro mezzo - si chiede Heidegger - che ne sarà della volontà di dominarla?» (3) La definizione data è certamente esatta, ma non è detto che sia vera. Solo il vero ci può condurre a svelare l'essenza della tecnica. La definizione strumentale non ci mostra l'essenza della tecnica. Dobbiamo domandarci cosa sia la strumentalità. A cosa ci fanno pensare elementi come mezzo e fine. Heidegger a questo punto evidenzia il rapporto di causalità esistente tra mezzo e fine. Analizza il concetto di causa così come è stato posto dalla metafisica. E, dopo essersi chiesto "in base a che cosa il carattere di causa delle quattro cause si definisce così unitariamente da far sì che esse siano reciprocamente connesse", afferma: «Fino a che non ci dedicheremo a questi problemi, la causalità, e con essa la strumentalità, e insieme con questa la definizione corrente della tecnica, resteranno qualcosa di oscuro e non-fondato.» (3)
Le cause
La dottrina delle cause risale ad Aristotele. La causa è ciò che opera per produrre degli effetti. Ma ciò che tutto il pensiero ha cercato "presso i greci sotto la rappresentazione e il nome della 'causalità' non ha assolutamente nulla a che fare con l'operare e l'effettuare". "Le quattro cause sono i modi, tra loro connessi, dell'esser-responsabile." Heidegger fa un esempio che vorrebbe essere illuminante. Lo riprendiamo per intero: «L'argento è ciò di cui il calice è fatto. In quanto materia di esso, è corresponsabile del calice. Questo deve all'argento ciò in cui consiste. Ma l'oggetto sacrificale non rimane debitore solo dell'argento. In quanto calice, ciò che è debitore dell'argento appare nell'aspetto di calice e non di fibbia o di anello. L'oggetto sacrificale è quindi anche debitore dell'aspetto di calice. L'argento, in cui l'aspetto di calice è fatto entrare, e l'aspetto in cui l'rgento appare, sono entrambi corresponsabili dell'oggetto sacrificale.
Responsabile di esso rimane però, anzitutto un terzo. Questo è ciò che preliminarmente racchiude il calice nel dominio della consacrazione dell'offerta. Da questo esso è circoscritto come oggetto sacrificale. Ciò che circoscrive de-finisce la cosa. Ma con tale fine la cosa non cessa, anzi a partire da essa comincia ad essere ciò che sarà dopo la produzione. Ciò che de-finisce e compie, in questo senso, si chiama in greco telos, termine che troppo spesso si traduce con "fine" o "scopo" travisandone il senso. Il telos risponde di ciò che, come materia e come aspetto, è corresponsabile dell'oggetto sacrificale.
C'è infine un quarto corresponsabile della presenza e dell'esser disponibile dell'oggetto sacrificale compiuto: è l'orafo, ma non in quanto egli operando, causi il calice compiuto come effetto di un fare, cioè non in quanto causa efficiens.
La dottrina di Aristotele non conosce né la causa che si indica con un tal nome, né usa un termine greco corrispondente.
L'orafo considera e raccoglie i tre modi menzionati dell'esser-responsabile. Riflettere, considerare, in greco si dice legein, lògos. Questo si fonda sull'hypokeìmenon, il far apparire. L'orafo è corresponsabile come ciò da cui la produzione e il sussistere del calice sacrificale ricevono la loro prima emergenza e la conservano. I tre modi dell'esser-responsabile menzionati prima devono alla considerazione dell'orafo il fatto ed il modo del loro apparire ed entrare in gioco nella produzione del calice sacrificale.
Nell'oggetto sacrificale presente e disponibile si dispiegano quindi quattro modi dell'esser responsabile. Sono distinti fra loro e tuttavia connessi. Che cos'è che li tiene preliminarmante uniti? A che livello si costituisce la connessione dei quattro modi dell'essere responsabile? Donde proviene l'unità delle quattro cause? Che cosa significa, insomma, pensato in modo greco, questo esser responsabile?
Noi moderni siamo troppo facilmente inclini a intendere l'esser responsabile in senso morale, come una mancanza, oppure a interpretarlo come un operare. In entrambi i casi ci precludiamo la via a capire il senso originario di ciò che più tardi è stato chiamato causalità. Finché questa via non è aperta, neppure potremo scorgere che cosa sia propriamente la strumentalità che si fonda sulla causalità.
Per difenderci da tali fraintendimenti dell'esser-responsabile, cerchiamo di chiarire i suoi quattro modi a partire da ciò di cui essi rispondono. Nel nostro esempio, essi rispondono dell'esser dinanzi a noi e disponibile del calice d'argento come oggetto sacrificale. L'esser dinnanzi a noi e l'esser disponibile caratterizzano la presenza di una cosa-presente. I quattro modi dell'esser-responsabile portano qualcosa all'apparire. Fanno sì che questo qualcosa si avanzi nella presenza. Essi lo liberano per questo suo avanzare, cioè per il suo compiuto avvento. L'esser responsabile ha il carattere fondamentale di questo lasciar-avanzare nell'avvento. Nel senso di questo lasciar avanzare l'esser-responsabile è il far avvenire. Sulla base del senso che i greci annettevano all'esser-responsabile, alla aitia, noi diamo ora all'espressione far-avvenire un significato più ampio, in modo che esso indichi l'essenza della causalità nel senso greco. Il significato comune e ristretto del termine "cagionare" esprime invece solo qualcosa come una spinta od un impulso iniziale, e indica una specie secondaria di causa nell'insieme di causalità.
In che ambito si dispiega la connessione dei quattro modi del far-avvenire? Essi fanno avvenire nella presenza ciò che non è ancora presente. Essi sono dunque tutti egualmente dominati da un portare, quello che porta ciò che è presente all'apparire. Che cosa sia questo portare, ce lo dice Platone in un passo del Simposio: "Ogni far-avvenire di ciò che -qualunque cosa sia - dalla non presenza passa e si avanza nella presenza è pro-duzione".» (4)
La tecnica come dis-velamento
Anche la natura è produzione, anzi lo è "nel senso più alto", come ad esempio "lo schiudersi del fiore nella fioritura". Ma differenza è che ciò che è prodotto dall'arte e dal lavoro manuale, non ha "il movimento iniziale della pro-duzione in sé stesso, ma in un altro, nell'artigiano e nell'artista". E che cos'è, allora, la pro-duzione, se non quel far-avvenire che "conduce fuori del nascondimento nella disvelatezza?
"Pro-duzione si da solo in quanto un nascosto viene nella disvelatezza". Che è poi il senso greco della parola verità, dell'aletheia. "Ma dove siamo andati a perderci? - sbotta Heidegger - Il nostro problema è quello della tecnica, e ora siamo arrivati all' aletheia, al disvelamento. Che ha da fare l'essenza della tecnica con il disvelamento? Rispondiamo: tutto". Nel disvelamento si fonda ogni produzione. Questa riunisce in sé i quattro modi del far-avvenire, la causalità, e li regge. Fine, mezzo e strumentalità sono in quest'ambito. "Se poniamo con ordine il problema di che cosa sia veramente la tecnica concepita come mezzo, arriviamo passo a passo al disvelamento. In esso si fonda la possibilità di ogni azione producente." La tecnica è un modo del disvelamento. Anche la tecnica moderna è tale. Essa si fonda sul motore e sulle scienze esatte. "Intanto però ci si è resi conto più chiaramente che è vero anche l'opposto, e cioè che la fisica moderna, in quanto sperimentale, dipende a sua volta da apparecchiature tecniche e dal progresso nella costruzione degli apparecchi." Questo legame reciproco però non dice nulla circa la radice su cui questo legame si fonda. Rimane aperta la questione decisiva della tecnica.
«Ch ecos'è la tecnica moderna? Anch'essa è disvelamento. Solo quando fermiamo il nostro sguardo su questo tratto fondamentale ci si manifesta quel che vi è di nuovo nella tecnica moderna.
Il disvelamento che governa la tecnica moderna, tuttavia, non si dispiega in un pro-durre nel senso della poiesis. Il disvelamento che vige nella tecnica moderna è una pro-vocazione la quale pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa come tale essere estratta e accumulata.» (5)
E' in atto un richiedere che pro-voca le energie della natura, che un pro-muovere in un duplice senso. «Esso promuove in quanto apre e mette fuori. Questo promuovere, tuttavia, rimane fin da principio orientato a promuovere, cioè a spingere avanti, qualcosa d'altro verso la massima utilizzazione ed il minimo costo. Il carbone estratto nel bacino carbonifero non è richiesto solo affinché sia in generale e da quache parte disponibile. Esso è immagazzinato, cioè "messo a posto" in vista dell'impiego del calore solare in esso accumulato. Quest'ultimo viene provocato a riscaldare, e il riscaldamento prodotto è impiagato per fornire vapore la cui pressione muove il meccanismo mediante il quale una fabbrica resta in attività.» (6)
Anche il fiume Reno è impiegato in tal modo, "incorporato in una centrale" e di esso rimane solo l'oggetto impiegabile da una società di viaggi che vi ha messo su un'industria delle vacanze. Questa è la modernità. L'energia nascosta nella natura viene dis-velata e la tecnica non è altro che un continuo richiedere nel senso della provocazione. Ciò che così è impiegato è il "fondo". La natura è un "fondo" a disposizione.
L'uomo è parte del "fondo", appartiene al "fondo" ma, non mai puro "fondo"
«La parola "fondo" prende qui il significato di un termine-chiave. Esso caratterizza nientemeno che il modo in cui è presente tutto ciò che ha rapporto al disvelamento pro-vocante. Ciò che sta nel senso del "fondo", non ci sta più di fronte come oggetto.
Eppure un aereo da trasporto che sta sulla sua pista di decollo è ben un oggetto. Sicuro. Possiamo rappresentarci la macchina in questi termini. Ma in tal caso essa si nasconde nel che cosa e nel come del suo essere. Si disvela, sulla sua pista, solo in quanto "fondo", nella misura in cui è impiegata per assicurare la possibilità del trasporto. In vista di ciò bisogna che essa, in tutta la sua struttura, in ognuna delle sue parti costitutive, sia pronta all'impiego, cioè pronta a partire. (Qui sarebbe il luogo di discutere la definizione hegeliana della macchina come strumento indipendente.) Confrontata con lo strumento del lavoro artigianale, questa caratterizzazione è giusta. Solo che, appunto, la macchina viene in tal modo pensata in base all'essenza della tecnica, alla quale invece appartiene. Vista dal punto di vista del "fondo", la macchina è il puro e semplice contrario dell'indipendenza; essa ha infatti la sua posizione solo in base all'impiego dell'impiegabile.
Il fatto che, in questo nostro sforzo di mostrare la tecnica moderna come disvelamento pro-vocante, si facciano avanti termini come "richiedere", "impiegare", "fondo", e si accumulino in un modo scarno, uniforme e perciò anche noioso - tutto questo- ha la sua ragion d'essere in ciò che qui viene in questione.
Chi compie il richiedere provocante mediante il quale ciò che si chiama il reale viene disvelato come "fondo"? Evidentemente l'uomo. In che misura egli è capace di un tale disvelamento? L'uomo può bensì rappresentarsi questa o quella cosa in un modo o in un altro, e così pure in vari modi foggiarla e operare con essa. Ma nella disvelatezza entro la quale di volta in volta il reale si mostra o si sottrae, l'uomo non ha alcun potere. Il fatto che a partire da Platone il reale si mostri alla luce di idee non è qualcosa che sia stato prodotto da Platone. Il pensatore ha solo risposto a ciò che gli ha parlato.
Solo nella misura in cui l'uomo è già, da parte sua, pro-vocato a mettere allo scoperto le energie della natura, questo disvelamento impiegante può verificarsi. Se però l'uomo è in tal modo pro-vocato e impiegato, non farà parte anche lui, in modo ancora più originario che la natura, del "fondo"? Il parlare comune di "materiale umano", di "contingente di malati" di una clinica, lo fa pensare. La guardia forestale che nel bosco misura il legname degli alberi abbattuti e che apparentemente segue nello stesso modo di suo nonno gli stessi sentieri è oggi impiegata dall'industria del legname, che lo sappia o no. » (7)
Tuttavia, proprio perché provocato, l'uomo non diventa mai puro "fondo". Infatti, in quanto esercita la tecnica, l'uomo è parte dell'impiegare come disvelamento, il quale non è semplicemente opera dell'uomo. Per capire questo, basta percepire in modo non prevenuto "quello che già sempre ha re-clamato l'uomo, e in modo talmente decisivo che questi solo in quanto è colui che è così reclamato può di volta in volta essere uomo".
L'uomo è catturato dallo studio della natura proprio quando egli intende catturare. La tecnica moderna "non è un operare puramente umano" se intesa "come il disvelare impiegante". Per questo dobbiamo rispondere alla provocazione del richiamo ad impiegare il reale come fondo, nell'imposizione, altro termine-chiave del gergo heideggeriano. Ge-stell, scheletro, scaffale, struttura che regge, è imposizione nel senso che indica "la riunione di quel ri-chiedere che richiede, cioè provoca l'uomo a disvelare il reale, nel modo dell'impiego... Im-posizione si chiama il modo di disvelamento che vige nell'essenza della tecnica moderna senza essere esso stesso qualcosa di tecnico." Alla tecnica appartiene l'intelaiatura, il pistone, l'armatura che sono parti di un montaggio, il quale risponde sempre ad una pro-vocazione, ma non la costituisce.
«Nell'imposizione accade la disvelatezza conformemente alla quale il lavoro della tecnica moderna disvela il reale come "fondo". Essa non è dunque soltanto un'attività dell'uomo, né un puro e semplice mezzo all'interno di tale attività. La concezione puramente strumentale, puramente antropologica, della tecnica, diventa caduca nel suo principio; né si può completarla mediante la semplice aggiunta di una spiegazione religiosa o metafisica.
Resta vero, comunque che l'uomo dell'età della tecnica è pro-vocato al disvelamento in un modo particolarmente rilevante. Tale disvelamento concerne anzitutto la natura come principale deposito di riserve di energia.» (8)
L'im-posizione e la libertà, tra le possibilità sta per l'uomo il pericolo supremo
La nascita della fisica moderna è solo un annuncio del tempo dell'imposizione. Ma tutto ciò che è essenziale si mantiene nascosto il più a lungo possibile e all'uomo questa origine si manifesta solo all'ultimo. «Se la fisica moderna deve sempre più rassegnarsi al fatto che il suo tempo di rappresentazione rimane inaccessibile all'intuizione, questa rinuncia non è certo dettata da una qualche commissione di scienziati. Essa è provocata dal dominio dell'imposizione, che esige l'impiegabilità della natura in quanto fondo.» (9)
La fisica può rinunciare a conoscere gli oggetti, ma non potrà mai rinunciare al fatto che la natura si sia (sich meldet) in un qualche modo definibile in base al calcolo e rimanga come sistema di informazioni. Rimane anche la causalità, che però non si mostra più far-avvenire, causa efficiens o formalis. La causalità è ristretta "al pro-vocato annunciarsi di fondi da mettere al sicuro". E' perché l'essenza della tecnica moderna sta nell'im-posizione che essa deve adoperare le scienze esatte. Ma l'idea che la tecnica sia scienza applicata è falsa apparenza. Essa può sembrare vera fino a quando non verrà in chiaro l'origine essenziale della tecnica. L'imposizione non è nulla di tecnico. E' solo il modo in cui il reale si disvela come fondo. In quanto è la pro-vocazione all'impiegare l'impiegabile invia al disvelamento e l'uomo è governato dal destino del disvelamento. "Ma non si tratta mai della fatalità di una costrizione". Questa precisazione heideggeriana conosce uno sviluppo singolare: l'essenza della libertà - dice Heidegger - non è originariamente connessa alla volontà o meno ancora soltanto alla causalità del volere umano. Ciò significa che la libertà custodisce ciò che è libero, e che è libero ciò che è illuminato-aperto. «E l'accadere del disvelamento, ossia della verità, ciò con cui la libertà ha la parentela più stretta e più profonda.» (10)
Quindi, quando consideriamo l'essenza della tecnica, esperiamo l'im-posizione come destino del disvelamento. Siamo così nella libertà del destino. Esso non ci chiude in un'ottusa costrizione. Non siamo costretti alla tecnica in modo cieco. Nemmeno dobbiamo "rivoltarci vanamente contro di essa e condannarla come opera del demonio. All'opposto: se ci apriamo autenticamente all'essenza della tecnica, ci troviamo insperatamente richiamati da un appello liberatore." Ovvero, seguendo il cammino, siamo sempre "sull'orlo della possibilità" di coltivare ciò che si disvela. "In tal modo si preclude all'uomo l'altra possibilità, quella di orientarsu piuttosto, in misura maggiore e in modo sempre più originario, verso l'essenza del disvelato e della sua disvelatezza, esperendo la adoperata-salvaguardata appartenenza al disvelamento come la propria essenza."
Ma proprio perché posto tra queste possibilità, l'uomo è in pericolo. "Il destino del disvelamento è in sé stesso non un pericolo qualunque, ma il pericolo." "Il pericolo supremo". Esso ci appare in due modi. L'uomo cammina sul precipizio quando è in assenza di oggetti ed impiega il "fondo" perché si trova là dove "può essere preso solo più come un 'fondo'." «E tuttavia proprio quando è sotto questa minaccia l'uomo si veste orgogliosamente della figura di signore della terra. Così si viene diffondendo l'apparenza che tutto ciò che si incontra sussista solo in quanto è un prodotto dell'uomo. Questa apparenza fa maturare un'ultima ingannevole illusione. E' l'illusione per la quale sembra che l'uomo, dovunque, non incontri più altri che sé stesso.» (11)
Così l'im-posizione non si limita a nascondere la produzione ma il disvelare come tale, mascherando il risplendere della verità. Il pericolo non è dunque la tecnica, l'apparato anche mortale che si può originare con la tecnica. "La minaccia vera ha già raggiunto l'uomo nella sua essenza." L'imposizione infatti impedisce all'uomo di raccogliersi ritornando in un disvelamento originario, "esperendo l'appello di una verità più principale".
Ma là dove c'è il pericolo, cresce
Anche ciò che salva
Citando questi versi di Hölderlin, Heidegger indica una via, che implica tuttavia una certa passività come atteggiamento di fondo. Nell'estremo pericolo dell'imposizione, il suo dominio potrà esaurirsi nel "semplice fatto di mascherare ogni illuminazione". La tecnica può persino aiutarci a guardare più a fondo in ciò che è l'imposizione, facendo apparire nel suo sorgere ciò che salva. In modo immediato e senza alcuna preparazione.
L'im-posizione, infatti, non è l'essenza della tecnica nel senso di un genere. E' un modo destinale del disvelamento. Se pensiamo con attenzione, "siamo colpiti da qualcosa di sorprendente: è proprio la tecnica ad esigere da noi che pensiamo in un senso diverso ciò che si intende generalmente con il termine 'essenza'.
Heidegger non parla di "essenza di genere", ma di ciò che fa essere un ente in quanto sviluppo del suo essere originario. "Tutto ciò che è, dura. Ma ciò che dura è solo ciò che perdura? L'essenza della tecnica dura forse nel senso del perdurare di una idea che si libra al di sopra di tutto ciò che è tecnico, in modo da originare l'apparenza che il termine 'la tecnica' designi un'astrazione mitica? Il modo in cui la tecnica dispiega il suo essere si può capire solo riferendosi a quel perdurare nel quale l'im-posizione accade come un destino del disvelamento."
Lavorando su un termine insolito usato da Goethe nel romanzo Le affinità elettive, Heidegger realizza un ardito accostamento tra "durata" e "concessione". L'oreccho del letterato sente qui l'intima assonanza tra währen e gewähren, rispettivamente durare e concedere. "Se però noi consideriamo in una maniera più attenta di quanto abbiamo fatto finora che cosa sia ciò che davvero, e forse unicamente, dura, potremmo dire: Solo ciò che è concesso dura. Ciò che principalmente, dall'origine, dura è quello che concede (das Gewährende). L'im-posizione è il durevole. Ma cosa concede? Nulla, apparentemente, fino a quando non pensiamo che anche "il pro-vocare all'impiego del reale come 'fondo' rimane sempre un mandare, che mette l'uomo su una certa via del disvelamento." L'essere della tecnica porta l'uomo "verso qualcosa che egli non avrebbe potuto inventare né tanto meno produrre da se stesso; giacché un uomo che sia solo un uomo unicamente da se stesso è qualcosa che non esiste". Sono parole enegmatiche, queste, in cui sembra che a concedere non siano né la tecnica, né l'imposizione, ma l'essere stesso. Durano, perché è concesso che durino. Ma ciò non toglie che l'uomo sia sempre in pericolo. Questo invio del mandare potrà ancora chiamarsi concedere "nel caso che in questo destino abbia a crescere ciò che salva. Ogni destino di un disvelamento accade a partire dal concedere e in quanto concedere. Solo questo infatti porta all'uomo quell'avere parte al disvelamento che l'accadere del disvelamento adopera e salvaguarda". "Ciò che concede, quello che invia nel disvelamento in questo o quel modo, è come tale ciò che salva".
Questo consente all'uomo di guardare e tornare alla sua dignità suprema. Essa consiste nel custodire la disvelatezza e l'essere nascosto di ogni essenza su questa terra. Per questo, nell'estremo pericolo, si può dare ciò che salva.
«Così - contrariamente a ogni nostra aspettativa - ciò che costituisce l'essere della tecnica alberga in sé il possibile sorgere di ciò che salva.
Per questo, ciò che importa è che noi meditiamo su questo sorgere e lo custodiamo rimemorandolo. In che modo? Anzitutto, bisogna che cogliamo nella tecnica ciò che ne costituisce l'essere, invece di restare affascinati semplicemente dalle cose tecniche. Fino a che pensiamo la tecnica come strumento, restiamo anche legati alla volontà di dominarla. E in tal caso, passiamo semplicemente accanto all'essenza della tecnica.
Se però ci domandiamo come ciò che è strumentale dispiega il suo essere in quanto specie particolare della causalità, allora potremo cogliere questo essere come il destino di un disvelamento.
Se infine consideriamo che ciò che costituisce l'essere dell'essenza accade in ciò che concede, il quale adopera e salvaguarda l'uomo per farlo partecipare al disvelamento, vediamo che:
L'essenza della tecnica è in alto grado ambigua. Tale ambiguità richiama all'arcano di ogni disvelamento, cioè della verità.
Da un lato, l'imposizione pro-voca a impegnarsi nel furioso movimento dell'impiegare, che impedisce ogni visione dell'evento del disvelare e in tal modo minaccia nel suo fondamento stesso il rapporto con l'essenza della verità.
D'altro lato, l'im-posizione accade da parte sua in quel concedere il quale fa sì che l'uomo - finora senza rendersene conto, ma forse in modo più consapevole in futuro - duri nel suo essere l'adoperato-salavaguardato per la custodia dell'essenza della verità. Così appare l'aurora di ciò che salva.» (12)
In questo testo, Heidegger sembra affidare un ruolo decisivo all'arte, che in fondo non è che l'antico nome della tecnica. «Poiché l'essenza della tecnica non è nulla di tecnico, bisogna che la meditazione essenziale sulla tecnica e il confronto decisivo con essa avvenga in un ambito che da un lato è affine all'essenza della tecnica e, dall'altro, né è tuttavia fondamentalmente distinto.
Tale ambito è l'arte. S'intende solo quando la meditazione dell'artista, dal canto suo, non si chiude davanti alla costellazione della verità riguardo alla quale noi poniamo l nostra domanda.» (13)
Perché il domandare è la pietà del pensiero.
note:
(1) M. Heidegger - L'epoca dell'immagine del mondo (1938) in Sentieri interrotti - La Nuova Italia 1968
(2) M.Heidegger - La questione della tecnica - in Saggi e discorsi - Mursia 1976
(3) idem
(4) idem
(5) idem
(6) idem
(7) idem
(8) idem
(9) idem
(10) idem
(11) idem
(12) idem
(13) idem
testo a cura di Daniele Lo Giudice e Silvana Poggi - 3 dicembre 2005