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Heidegger: Introduzione alla metafisica

Perché esiste l'ente e non piuttosto il nulla? Questa è la domanda fondamentale, a cui non si è mai data completa risposta. Se spostiamo l'attenzione dalla prima parte della domanda a quell'aggiunta, comprendiamo il senso profondo della domanda. Se ci fermiamo alla prima parte, saremo tentati dalla via effettivamente seguita, dall'odos della metafisica, cioè dalla risposta di tipo causale. Esiste questo ente e quell'altro, quell'altro ancora, perché ci fu questa situazione, poi quest'altra. Dal nulla non può venire qualcosa, e così via. La tradizionale ricerca di cause, da Platone mostrate con il mito verosimile del demiurgo creatore, e da Aristotele spiegate con la metafisica e l'asserzione del mondo eterno, esistente da sempre, nasce comunque la scienza moderna. Non poteva non nascere. Le basi erano già poste: causalità; per Platone il demiurgo ha fatto il mondo, per Aristotele Dio muove il mondo, stando fermo e attraendo, quindi provocando il movimento. Con tali spiegazioni, che hanno comunque un carattere mitico e indimostrabile, troviamo una causa, un'origine, e tutto si spiega. La scienza contemporanea è arrivata al big bang. E' arrivata a riconoscere che oltre alla "causa", devono esistere "condizioni", che all'origine delle condizioni esistono cause delle condizioni, alla fine ci ritroviamo a scienziati che si chiedono cosa fosse fosse prima del big bang, e non si sa.
Orbene, Heidegger trascura tutto ciò, per arrivare a quello che per lui è il vero problema: cioè la seconda parte della domanda, la quale, detto per inciso, smonta anche la troppo facile logica hegeliana che ha come cominciamento "l'essere che trapassa nel nulla ed il nulla che trapassa nell'essere", come non fosse mai esistito un Anassimandro che ha parlato dell'apeiron, cioè dell'infinito ed indeterminato (che non è il nulla) come origine di tutti gli enti. L'infinito di Anassimandro non è il nulla, ma essere senza particolari determinazioni. Neanche Anassimandro, dunque, è arrivato alla domanda heideggeriana nella sua radicalità. Nemmeno Parmenide.
L'affermazione che l'essere è, il non essere non è, non giunge a chiedersi il perché esiste l'ente e non il nulla. Del resto, al di fuori della domanda filosofica, non si trova altra risposta che quella delle religioni rivelate: tutto è perché Dio lo ha voluto. Esse non spiegano il perché esiste Dio. Si limitano a suppore dei "perché abbia voluto il mondo"che non brillano per il loro particolare acume. Perché Dio si sentiva solo, si legge; per amore della sua creatura. Sono spiegazioni psicologistiche. Resta che anche Dio, qualora esistesse, sarebbe parte dell'essere e non al di fuori dell'essere, e questa è pura intuizione heideggeriana.

Tutto questo per dire che l'attenzione di noi interroganti, semplicemente aprendosi al senso originario del nostro domandare, giunge a comprendere che quel "e non piuttosto il nulla" non è un chiarimento superfluo alla domanda, ma parte essenziale della domanda stessa.
L'ente è perché non è nulla. In quanto non-nulla, cioè negazione di una negazione radicale, esso è. Proprio perché l'uomo di fronte all'assentarsi dell'ente, al suo sparire nella morte, avverte il nulla, egli si apre, può aprirsi, alla comprensione dell'essere dell'ente.
Ovviamente, l'uomo in questione, non è quello della ragione calcolante preoccupato esclusivamente di mettere a frutto le risorse della terra e della natura, ma l'uomo aperto alla totalità, quindi anche al nulla.
Come si deve pensare il nulla, quel ni-ente, che si palesa con la scomparsa dell'ente? Heidegger conduce all'impensato ancora da pensare. Che è il senso della domanda filosofica. Ma la filosofia, fin dal suo sorgere, si è fatta dominare e fuorviare da una logica rivolta solo all'ente presente. E' ancora tutto da pensare l'essere come identità col niente.

Per intendere tale identità occorre allora distinguere ciò che l'ente è da ciò che lo fa essere ente piuttosto che non-ente. Ora, tale distinzione, secondo Heidegger, era già presente nel pensiero greco alle origini della filosofia. Ma essa si è obliata. Noi oggi possiamo tornare al punto e riformulare la domanda in altri termini: che ne è dell'essere dell'ente? Secondo Heidegger, la logica oggettivante della metafisica non è in grado di rispondere proprio perché l'essere non può venir ridotto a concetto e quindi a oggetto. Anzi, di fronte all'apparire dell'ente, l'essere sembra dileguarsi e cercare di prenderlo, afferrarlo, comprenderlo, è come stringere l'aria. L'essere non è un ente, è ni-ente, cioè nulla di particolare, pur non essendo il nulla come non-essere assoluto. Pertanto l'identità di essere e ni-ente può essere intesa solo da un pensiero che non confonde ni-ente e nulla, ma riesce a riportare detta identità a quel significato estensivo per il quale ogni ente è anche ciò che lo fa essere. Tale significato estensivo è la trascendenza. Ma non confondiamo di nuovo: la trascendenza di cui parla Heidegger non è quella dell'ente sommo, Dio, ovvero onnipotenza capace di fondare l'esistenza sul nulla, e di crearla dal nulla. Quella indicata da Heidegger è la trascendenza dell'essere che, procedendo "oltre" l'ente, non è ente a sua volta. Ed è proprio perché è ni-ente di ente, tale "oltre" consente all'ente di apparire come esso è.

Non essendo stata in grado di mettere a fuoco il problema del nulla e, soprattutto tale conseguente differenza tra nulla e ni-ente, la metafisica ci ha portato all'oblio dell'essere. Tuttavia, per Heidegger, ciò non è un'imperdonabile dimenticanza umana, una svista fatale. L'oblio dell'essere va inteso come tratto costitutivo della nostra storia. Esso «non è qualcosa di estraneo, davanti al quale ci troviamo e che ci è dato unicamente accettare nella sua esistenza, come qualcosa di accidentale. Esso, invece, è la situazione stessa in cui ci troviamo. E' uno stato della nostra esistenza, ma non certo nel senso di una proprietà accertabile psicologicamente. Per "stato" intendiamo qui designare l'intera nostra costituzione, il modo in cui noi stessi siamo costituiti in rapporto all'essere.»