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Heidegger dopo Essere e tempo

La terza parte di Essere e tempo avrebbe dovuto mostrare la relazione tra tempo ed essere che la metafisica tradizionale, ostinandosi a pensare l'essere come semplice presenza dell'ente, aveva sempre trascurato. Heidegger avvertiva così l'esigenza di un superamento della metafisica e del suo linguaggio. Che cos'è la metafisica? del 1929 rappresentò il tentativo di riflettere sul significato di metafisica e di ripercorrerne la storia. Questo approccio avrebbe potuto consentire l'assunzione effettiva del proprio passato, la propria condizione storica. Il termine metafisica significa "oltre" la fisica: nella stessa parola è già custodito il segreto del pensiero che pone il problema dell'essere oltre l'ente come tale, l'essere dell'ente nell'ambito del quale viene ad essere.
Nel 1928, Heidegger era tornato a Friburgo e nell'assumere l'incarico aveva pronunciato una prolusione il cui oggetto era costituito dal rinnovato tentativo di definire la metafisica. Tutte le scienze, osservava Heidegger, vogliono conoscere l'ente e nient'altro. Ma quando diciamo "nient'altro" a cosa alludiamo? Quanta e quale esperienza ne abbiamo per conoscerlo e quindi escluderlo? Pare che tale esperienza del "niente" non ci sia data come "comprensione", ma come "emozione" tipica dell'angoscia. La differenza tra angoscia e paura è che la seconda è sempre motivata da qualcosa di preciso. L'angoscia non teme questo o quello, ma proprio quel "niente" che si fa strada quando la totalità degli enti fugge nell'insignificanza. L'esserci, che non è un ente, quando avverte di non essere un ente del mondo come gli altri, si sente "spaesato". Pertanto, l'angoscia dello spaesamento rivela quel "niente" che è l'essere a cui l'esserci è aperto originariamente.
La metafisica tradizionale afferma: ex nihilo nihil fit. Dal niente non viene niente. Ma Heidegger può ora affermare che "dal niente viene ogni ente in quanto ente", anche se non nel senso che il nulla è causa dell'ente, ma nel senso che il nulla è la condizione dello svelamento dell'ente.

Ancora nel 1929 uscì Sull'essenza del fondamento, lavoro nel quale Heidegger partì dall'analisi del principio di ragion sufficiente di Leibniz, che in realtà è però presente in tutta la storia della metafisica sotto il nome di causalità. Secondo Heidegger, se gli enti vengono all'essere in quanto si collocano nel mondo aperto dal progetto dell'esserci, la validità del principio di ragion sufficiente dovrà appunto venire cercata nell'esserci. L'esserci è fondamento in quanto apre l'orizzonte in cui si colloca ogni rapporto di fondazione, tuttavia tale apertura è solo un progetto che dischiude una possibilità e non una realtà, mentre è solo la realtà che può fungere da base stabile, da fondamento.
L'esserci, allora, più che fondamento (Grund) è assenza di fondamento (Abgrund), meglio ancora "abisso senza fondo". Ogni forma di giustificazione razionale è radicata sull'assenza di fondamento.

Anche il saggio Kant e il problema della metafisica, sempre del 1929, perseguiva la stessa direzione. In tale lavoro Heidegger reinterpretava Kant asserendo, in netta contrapposizione ai neokantiani come Natorp, Rickert e Cassirer, che il pensiero del filosofo di Königsberg non era da considerarsi come una teoria della conoscenza e tanto meno una filosofia della scienza. La Critica della ragion pura va intesa come una radicale analisi della struttura ontologica fondamentale della soggettività umana e come tentativo di fondare su tale analisi una metafisica della finitudine.
Secondo Heidegger, Kant ha argomentato che la metafisica può soltanto venire fondata su una preliminare analisi della ragione finita dell'uomo. In quanto "finita" la ragione, a differenza del logos divino, dipende necessariamente dall'intuizione sensibile. Inoltre, l'introduzione da parte di Kant dello schematismo trascendentale dell'intelletto comporta la conseguenza di dissolvere sensibilità ed intelletto nella loro "radice comune", ovvero nell'immaginazione trascendentale, la cui base ultima è la temporalità. Ciò, secondo Heidegger, implica che la tradizionale fondazione della metafisica occidentale nel logos e nello spirito viene distrutta una volta per tutte.

Tale interpretazione di Kant venne presentata a Davos, in Svizzera, nel corso di un seminario, un "corso universitario internazionale" svoltosi nel periodo 17 marzo - 6 aprile 1929, durante il quale si ebbe un vivace confronto tra Heidegger e Ernst Cassirer, il maggior esponente riconosciuto della tradizione neocritica della scuola di Marburgo. Cassirer aveva allora 55 anni e Heidegger meno di 40. Fu anche uno scontro di generazioni. Per Heidegger costituì un'opportunità decisiva. In contrapposizione alle tendenze razionaliste di gran parte della filosofia, presenti sia nel neocriticismo che nella stessa fenomenologia, oltre che nella scuola che si rifaceva a Frege e Russell, Heidegger presentava pubblicamente un'interpretazione radicalmente diversa, anche se non immediatamente riducibile ad un irrazionalismo. Cassirer replicò alla "strana" interpretazione di Kant dichiarandosi d'accordo con Heidegger a proposito dell'importanza dell'immaginazione trascendentale. Ma poi spiegò come la intendeva. In accordo con la propria filosofia delle forme simboliche, l'immaginazione trascendentale è ciò che mette in evidenza come l'uomo possa venir definito come "animale simbolico". E qui Cassirer si premurò di precisare che "animale simbolico" non significa circoscrivere l'uomo alla sfera "a-razionale" della finitezza. Proprio da Kant abbiamo imparato che l'uomo finito può volgersi all'infinito, penetrando nel regno della verità oggettivamente valida, necessaria ed eterna, sia nella scienza naturale fondata sulla matematica, sia nel sapere morale. Dopo di che, Cassirer chiese a Heidegger se realmente intendeva rinunciare a tale oggettività e sostenere che ogni verità è relativa all'esserci.
Heidegger, pur riconoscendo l'importanza di tale domanda, disse di rifiutare qualsiasi "irruzione" in un regno non-finito. La vera missione della filosofia consiste nel rinunciare a queste tradizionali illusioni e nell'attenersi all'essenziale finitezza, che costituisce il nostro "duro destino".


moses - 4 ottobre 2005