romanticismo, idealismo e marxismo

indice Hegel


Hegel e la rivoluzione francese

di Renzo Grassano


In età giovanile, com'è noto, Hegel si entusiasmò per la rivoluzione francese, giungendo a piantare, insieme a Schelling ed a Hördelin l'albero della libertà nel prato di Tubinga.
All'entusiasmo iniziale seguì, com'era ovvio, un periodo di delusione e ribrezzo per gli eccessi del terrore.
Ma, in generale, si può dire che in Hegel non venne mai meno una considerazione molto lucida sulle ragioni stesse della rivoluzione. Persino nel periodo di insegnamento a Berlino, cioè nel momento in cui le sue idee sul diritto e sullo stato si piegavano mestamente ad un ideale, se non reazionario, certamente conservatore, egli continuò ostinatamente a sostenere il carattere necessario ed ineluttabile della rivoluzione, aggiungendo con franchezza e coraggio che la responsabilità più grande della rivoluzione stessa ricadeva sulle spalle dei governanti e non su quelle dei giacobini o del popolo.
A differenza di molti contemporanei, Hegel non considerò mai la rivoluzione come un sacrilegio, o come un crimine, e neppure un incidente di percorso. Il romantico inglese Walter Scott, l'autore di Ivanohe e Robin Hood, aveva preteso di interpretare la rivoluzione come una punizione inflitta da Dio alla Francia. Francamente non si capisce come il cantore di saghe della ribellione abbia potuto ribaltare del tutto la sua posizione rispetto alla storia vera. Resta che Hegel protestò contro tale valutazione "puerile e grottesca".
Anche Ancillon aveva applaudito alla restaurazione. Essa era la giusta punizione divina per la colpa dei rivoluzionari che avevano fatto qualcosa per nulla necessario e del tutto abominevole.
In Inghilterra, Edmund Burke aveva avanzato una critica alla rivoluzione che era risultato sostanzialmente condiviso dal gruppo dirigente britannico nel suo insieme. Si vedeva negli eventi francesi un atroce violenza che voleva instaurare nuove forme politiche ed un nuovo diritto sulla base di principi astratti e quindi rifiutando ciò che l'esperienza politica aveva insegnato fino ad allora, ovvero che le istituzioni ed il diritto possono essere modificati solo lentamente, perchè l'intelligenza politica non consiste nell'opporre idee astratte alla situazione esistente, ma nel trovare soluzioni ai problemi concreti. Soluzioni che gli inglesi avevano trovato, ma sempre in modo empirico, barcamenandosi, e navigando a vista.

Ma, per capire esattamente il pensiero di Hegel, dobbiamo seguirlo sul piano del giudizio politico e filosofico non già della rivoluzione quanto della cosiddetta restaurazione. Come ha scritto Jacques D'Hondt: "...Hegel non vede aprirsi, dopo il 1815, un nuovo periodo storico. La Rivoluzione ha provocato in Europa una metamorfosi e l'Europa non ne è ancora venuta fuori.
La Rivoluzione dunque, continua, ed è solo il suo 'formalismo' originario che si va poco alla volta correggendo: la Rivoluzione francese è 'un evento della storia universale' e 'se ne deve tenere ben distinta la lotta del formalismo'. L'avvenimento non costituisce affatto agli occhi di Hegel, un intermezzo tragico tra l'Ancient Régime e la Restaurazione, ma quest'ultima, in ogni caso, costituisce in realtà la continuazione della Rivoluzione. Certo, la Restaurazione ostacola ed intralcia - scrive ancora D'Hondt - a suo modo, il processo rivoluzionario, ma in fin dei conti, s'integra con questo come uno dei suoi momenti contraddittori necessari." (1)

In altre parole: la restaurazione non è propriamente un ritorno all'antico, vagheggiato da molti e desiderato da principi e sovrani, ma un momento di transizione aperto a sviluppi.
Anzi, prosegue D'Hondt: "Nella visione hegeliana della storia ogni Restaurazione, come d'altronde ogni rinascita. è - a rigore - impossibile: 'Ciascuna delle creazioni in cui lo spirito si è soddisfatto, gli si presenta sempre come nuova materia, che gli è incentivo a nuova elaborazione. Ciò che è sua formazione diviene materiale, lavorando al quale esso si innalza a nuova formazione.' (Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, I , La razionalità nella storia) " (2)

Per Hegel, in sostanza, la marcia della storia è irreversibile: non si torna indietro nemmeno quando tutto sembrerebbe tornato come prima. D'Hondt scrive che "la Restaurazione si riduce ad un'illusione." E aggiunge, significativamente: "Se la Restaurazione si compiace di illusioni retrospettive, la rivoluzione, al contrario, deriva da un acuirsi della lucidità."
Ed Hegel, mentre in tante altre pagine riserva alla filosofia un ruolo di riflessione a posteriori sulle vicende storiche, questa volta non ha dubbi: "Si è detto che la Rivoluzione francese sia scaturita dalla filosofia, e non senza motivo si è dato alla filosofia il nome di 'sapienza mondana', perchè essa è non solo la verità in sé e per sé, come pura essenza, ma anche la verità in quanto acquista vita nella realtà del mondo. Non si deve quindi fare opposizione a quando si sente dire che la Rivoluzione ebbe il suo primo impulso dalla filosofia." ((Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia,IV)
Concetto che egli perfeziona così: "Nelle epoche in cui la condizione politica è rovesciata, la filosofia trova il suo posto e allora non avviene che si pensi soltanto in generale, ma il pensiero va in avanti e trasforma la realtà: poichè quando una forma dello spirito non è più soddisfacente la filosofia rende acuta la vista in modo da scorgere ciò che non soddisfa più. La filosofia, quando appare, aiuta - grazie ad un'intelligenza determinata - ad accrescere, a spostare in avanti la rovina."
Nella fase prerivoluzionaria la filosofia è presa di coscienza di una situazione oggettiva, che richiede trasformazioni necessarie.
La cause della rivoluzione vengono enumerate in modo che sia visibile il 'non ne potevano proprio più'. Ed Hegel non dimentica le cause materiali della rivoluzione, in primo luogo la miseria del popolo provocata dallo sfruttamento feudale e monarchico. Scrisse: "Si vide che le somme estorte al sudore del popolo non venivano adoperate per fini di stato, ma sperperate nella maniera più folle. Tutto il sistema dello Stato apparve come un'ingiustizia." (3)
E, tra le cause della riuscita della rivoluzione, Hegel non esitò ad indicare l'unificazione di tutti i malcontenti e gli oppressi e la loro concentrazione contro l'avversario fondamentale.
Tuttavia, ancora secondo Hegel, né le rivendicazioni borghesi (meno tasse), né l'oppressione oggettiva avrebbero condotto alla rivoluzione se non si fosse svegliata la coscienza popolare. Viene così evidenziata l'importanza del momento soggettivo: tutto il popolo è in armi, il gallo francese squilla la tromba.
"Uno stesso regime sociale e politico, giustificato sotto il profilo umano in certe condizioni - scrive D'Hondt - diviene tirannico quando le condizioni siano mutate per cui esso non corrisponde più a queste ultime. Ma la tirannide - situazione provata psicologicamente - comincia veramente solo quando la popolazione prende coscienza di essa e, ormai, ne soffre." (4)

Un altro motivo individuato da Hegel per la riuscita della rivoluzione è l'incapacità dei tiranni. Da un lato abbiamo gli oppressi uniti, che non possono più permettersi di mantenere gli oppressori; dall'altro abbiamo gli oppressori che non ce la fanno più ad affrontare l'enorme deficit dello stato, dissipato nel lusso e nelle spese folli della corte di Versailles.
Scrive Hegel: "L'intero complesso della situazione della Francia in quell'epoca presenta il quadro della più enorme corruzione. E' un selvaggio aggregato di privilegi contrari ad ogni idea e ragione, uno stato senza senso, accompagnato ad un tempo dalla massima corruzione dei costumi e dello spirito: un regno dell'ingiustizia." (5)

Hegel crede che i cambiamenti storici si compiano bruscamente, per strappi e rotture: in una parole con guerre e disordini. Ma le condizioni e le cause di tutto ciò maturano tranquillamente, in modo silenzioso. Non sempre vi è coscienza dell'ineluttabile destino che si prepara. Un'eruzione brusca, vulcanica, è sempre l'espressione di un lavorio interno alle profondità della terra, alla pressione sotterranea.
I filosofi dell'illuminismo avevano sperato, con lo stesso Kant, che i sovrani sarebbero cambiati grazie all'educazione filosofica, alla spiegazione razionale, in modo pacifico. Non tutti, però: Voltaire aveva scritto, con profetica lungimiranza, in una lettera a Chauvelin del 2 aprile 1764, che "eravamo sul punto di esplodere alla prima occasione".
Questo non accadde in Francia, in Italia, in Spagna. Ed altrove, nella stessa Prussia, era in parte già accaduto. Persino in Russia qualcosa era cambiato con lo zar Pietro il grande.

Ed ecco, allora, la lezione storico-politica che si deve trarre: laddove non si cambia, laddove si avrebbe la pretesa semplicistica di ripristinare tutti gli equilibri e le istituzioni come prima della rivoluzione, si sta commettendo un grossolano errore. Con la rivoluzione, tutti i popoli d'Europa hanno preso coscienza dei loro diritti e delle loro possibilità.
Questi giudizi inequivocabili vengono pronunciati nel periodo berlinese di Hegel, nelle aule (poco frequentate, per la verità) dai rampolli dell'aristocrazia prussiana, oltre che dai figli della ancor timida borghesia tedesca.
Non sono discorsi rivolti al popolo, ma ai futuri dirigenti dello stato, ai futuri insegnanti, ai futuri ufficiali del formidabile esercito che avrebbe piegato Francia ed Austria in campagne veloci e brucianti nella seconda metà del secolo.
In altre parole: Hegel ammonì gli uditori delle sue lezioni, compresi gli agenti della polizia segreta, ed i suoi colleghi docenti, che il senso delle cose reali non poteva essere cambiato. Pur con tutte le differenze, perchè la Prussia dei primi decenni dell'ottocento non era la Francia dell'89, il segreto del buon governo stava nella riduzione dei privilegi dei forti e nella tutela dei deboli.
Con ciò, credo sia questo il punto da afferrare, Hegel non si metteva dalla parte dei deboli e degli oppressi, non si collocava soggettivamente in alcuna prospettiva rivoluzionaria: ragionava in termini di Stato e governo prussiano. Ragionava su quale linea occorreva adottare per fare fronte ai problemi della sua epoca storica.
E, tutto ciò si spiega alla luce di un ragionamento che Hegel aveva già fatto anni addietro, ed aveva sempre tenuto fermo: la Germania, grazie alla Riforma protestante, aveva già attuato un grande cambiamento e la società civile era, nel suo insieme, cresciuta più liberamente, grazie all'abbattimento dei privilegi feudali del clero cattolico.
La Riforma aveva liberato nuove energie, fisiche, produttive, intellettuali. Aveva responsabilizzato l'individuo e quindi aperto lo sviluppo all'imprenditoria privata, cioè alla nascita di una borghesia più cosciente di quella francese. E questo, anche se la Germania era clamorosamente in ritardo, rispetto all'Inghilterra, sul piano dell'industrializzazione, della rivoluzione delle tecniche produttive. In sostanza, la Germania era un paese più 'giusto' della Francia e degli altri paesi cattolici. Perchè, aboliti preti e vescovi, era diventato un paese di sacerdoti e teologi e questo grazie alla Riforma.
Una frase che sintetizza questo pensiero è la seguente: "Lutero aveva ritenuto che la verità fosse qualcosa di dato, di rilevato dalla religione." Ora, proseguiva Hegel, "... fu posto il principio che questo contenuto è contenuto attuale, di cui posso convincermi interiormente, e che tutto va ricondotto a questo fondamento interiore." (6)


note:
(1) Jacques D'Hondt - Hegel e la rivoluzione francese - Il Centauro n.3 / settembre-dicembre 1981
(2) idem
(3) Lezioni di filosofia della storia, IV - La Nuova Italia - Firenze 1967
(4) Jacques D'Hondt - Hegel e la rivoluzione francese - Il Centauro n.3 / settembre-dicembre 1981
(5) Lezioni di filosofia della storia, IV - La Nuova Italia - Firenze 1967
(6) idem

RG - 14 gennaio 2003