William Hamilton (1788 - 1856)
William Hamilton nacque a Glasgow, in Scozia,
l'8 marzo 1788 e morì ad Edimburgo il 6 maggio
1856.
Nel 1836 divenne professore di logica e metafisica
all'università di Edimburgo.
La sua importanza di filososo è strettamente
legata alle Lezioni di Logica ed alle Lezioni di metafisica.
Nelle prime Hamilton introdusse la quantificazione del predicato. Secondo questo principio,
nelle proposizioni si deve indicare la quantità,
ovvero il numero, non solo del soggetto,
ma anche del predicato. Ad esempio, risulta
indubbiamente più preciso affermare che Pietro,
Giacomo e Giovanni furono alcuni apostoli, piuttosto che affermare genericamente
che furono apostoli.
Nelle Lezioni di metafisica, Hamilton effettuò
una ripresa della teoria psicologica della
scuola scozzese del senso comune, introducendovi
però una variante. Infatti, per Hamilton,
la percezione immediata non ci fa conoscere la cosa com'è in se stessa.
In proposito scrisse: « La teoria della
percezione immediata non implica che noi
percepiamo la realtà materiale assolutamente
ed in se stessa, cioè fuori dalle relazioni
con i nostri organi e le nostre facoltà;
al contrario, l'oggetto totale e reale della
percezione è l'oggetto esterno in relazione
ai nostri sensi e alla nostra facoltà conoscitiva.
Ma per quanto relativo a noi l'oggetto non
è rappresentazione, non è una modificazione
dell'io. Esso è il non-io - il non-io modificato
e relativo, forse, ma pur sempre non-io.
(Lectures on Metaphysics, I, 1870, p. 129)
Alla luce di queste considerazioni è evidente
che Hamilton, nello sviluppare una teoria
della percezione del mondo esterno sulla
base del senso comune, veniva in realtà ad
affermare esattamente il contrario; mentre
i filosofi come Reid avevano detto che noi
percepiamo immediatamente l'oggetto così
com'è, Hamilton diceva che l'esistenza di
un oggetto non è conoscibile nella sua assolutezza,
ma solo in modi speciali, strettamente legati
a quelle che sono le nostre facoltà di percezione
e valutazione. Inoltre, le determinazioni
che riusciamo ad attuare circa gli oggetti
sono il risultato di una modificazione delle
nostre stesse facoltà.
In altre parole: anche Hamilton conviene
nel dire che la nostra conoscenza è sempre
relativa e che l'intuizione può anche sbagliare
cogliendo un determinato oggetto in una particolare
situazione, ad esempio un uomo irato o addolorato
in una situazione nella quale egli risulti
alterato.
Anche Hamilton si pronunciò quindi contro
la dottrina della conoscibilità dell'Assoluto,
teorizzata da Schelling e da Cousin, anche
se in accordo con essi, accetta l'idea che
l'Assoluto esista, affermando altresì che
la prova della sua esistenza starebbe nella
credenza.
Il ragionamento di Hamilton fu, grosso modo,
questo: poichè noi non possiamo cogliere
l'infinito, cioè l'assoluto, con una percezione
sensibile, noi possiamo intuirlo o pensarlo,
ma pensandolo, lo condizioniamo, mentre l'Assoluto
è, per sua stessa definizione, incondizionato.
Di fronte a questo paradosso della ragione,
Hamilton, disse che "l'Assoluto non
è concepibile che come negazione della concepibilità."
Tuttavia, "poichè la sfera della nostra
credenza è molto più estesa della sfera della
nostra conoscenza", quando neghiamo
che si possa conoscere, siamo ben lontani
dal dire e dal pensare che non vi si debba
credere.
Asserendo che credere è legittimo, Hamilton,
ritornò, di fatto, ai principi della scuola
scozzese. E' solo nella credenza, infatti,
che si attua quel processo per il quale l'infinito-assoluto
rivela se stesso all'uomo.
In sintesi: Hamilton fu scettico circa le
possibilità della percezione e della ragione,
da un lato, ma dall'altro fu anche un dogmatico
della fede, cioè un filosofo che negava alla
ricerca filosofica qualsiasi possibilità
di arrivare all'Assoluto e quindi a Dio,
nei termini propri della Rivelazione ricevuta
dalla religione. In altre parole, egli seguì
una tradizione che risaliva a Duns Scoto.
Daniele Lo Giudice - settembre 2001 -