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Confronto su Gramsci
Guido Marenco e Carlo Fracasso, moderati da Daniele Lo Giudice, discorrono attorno ad alcuni nodi storici e teorici della vicenda gramsciana
Daniele: Bene. L'attualità ci costringe a pensare le ispirazioni e i fondamenti ideali di un'eventuale partito democratico, fatto di cattolici, laici liberali, socialisti, ex-comunisti. Noi, nel nostro piccolo, stiamo rivedendo e ricostruendo alcuni dei momenti essenziali della filosofia italiana del secolo scorso. Siamo giunti a Gramsci. Ma vorrei evitare una discussione ristretta alla possibilità di inserire Antonio Gramsci nella galleria di ritratti degli antenati del probabile, ma non sicuro, nuovo partito.
Non credo sia questo il problema, data la statura mondiale del personaggio e la caratura del suo pensiero, e dato il carattere completamente secolarizzato che dovrebbe avere il nuovo partito.
Gramsci appartiene a tutti, compresa la destra di questa nuova sinistra, e fors'anche la destra stessa. E' un patrimonio nazionale, come Vico, Croce, Machiavelli, Pareto. Però è un fatto che oggi se ne parli poco e lo si consideri 'superato' nell'ambito della filosofia della politica. Provare a riportarlo al centro dell'attenzione, potrebbe servire, non solo alla sinistra democratica, o ai due partiti comunisti esistenti in Italia, ma alla stessa filosofia della politica.
Il mio invito alla discussione investe due interlocutori.
Il primo è un marxista dichiarato, per nulla turbato dal crollo del comunismo nell'infamia e nel grigiore. Carlo Fracasso giustifica da tempo la crisi del comunismo come la fine di un falso comunismo, quello spacciato dai regimi d'oltre cortina, che in realtà è degenerato in una dittatura di spregiudicati boiardi per nulla interessati al tema della liberazione dell'uomo dai suoi istinti più bassi e dalle sue storiche schiavitù.
Fracasso si confronta con il promotore del nostro sito, la cui peculiarità può essere descritta nell'essere stato "giovane" comunista negli anni '70 e '80, uno "strano tipo" di comunista, visto che non si è mai sentito in dovere di rivendicare un passato da marxista. La crisi del "marxismo" sembra un affare che lo riguarda assai poco, così come la caduta del comunismo reale. Guido, vuoi spiegare perché non ti senti "marxista"?
Guido: Non esageriamo. Non sono affatto indifferente alla crisi del marxismo. Da un lato festeggio la fine dell'ideologismo e del messianesimo, dall'altro sono molto preoccupato per la mediocrità delle teorie democratiche che vorrebbero prenderne il posto e superarlo. Sotto questo aspetto, mi pare ad esempio che il liberalsocialismo sia rimasto sostanzialmente al palo sotto un profilo teorico, anche se constato come esso sia entrato 'pragmaticamente' nella testa di decine di migliaia di quadri sindacali, di attivisti politici di base e di gente che genericamente si interessa di politica. Ciò è incoraggiante, ma non è sufficiente.
Inoltre, nel momento in cui i sindacati hanno cessato di fare concertazione con i governi, non c'è più niente che dia ai lavoratori del nostro paese una qualsiasi garanzia di difesa della qualità della vita. Ma non è che si possa rimpiangere l'epoca della concertazione come un'età felice perché, in fondo, essa era l'espressione più di una crisi che di un progresso. Il movimento dei lavoratori dipendenti era ridotto al ruolo di una lobby molto potente, ma sulla difensiva. Si cercavano compatibilità senza arrivare al cuore di quanto vi fosse di incompatibile non nel livello di vita dei lavoratori, ma nel livello di sprechi e ruberie degli apparati.
Quanto al mio "non marxismo": sono insofferente alle etichette, può darsi che sia snobismo, orgoglio intellettuale, desiderio di rifarmi una verginità, quello che vi pare. Non è un problema di gran conto. E non è il caso che stia a spiegare qui perché dissentivo da Marx pur riconoscendogli meriti enormi, già un ventennio fa. Io sono stato un iscritto "non marxista" al PCI. Stavo nel PCI perchè stavo con i lavoratori. Condividevo la linea del compromesso storico di Berlinguer come proposta di governo della società italiana. Non condivisi mai quella dell'alternativa. Non compresi come si potesse realizzare una unità con Craxi, che era l'emblema della degenerazione del potere in una società democratica, e non capivo perché penalizzare il dialogo con i cattolici.
Sono stato sempre anticraxiano per questioni morali prima ancora che politiche. Ero giunto al punto di teorizzare un'unità nazionale comprendente persino l'estrema destra contro la corruzione craxiana della politica. Ma non ebbi il coraggio di proporla pubblicamente se non in forme canoniche, ad esempio sotto forma di mozione ad un congresso. Enrico Morando cercò di stroncarla, ma prese comunque qualche voto. Insisteva sulla possibiltà di un "gioco a tutto campo".
Mi pento e mi dolgo di non aver insistito con più decisione dopo quel congresso. In realtà ero nauseato dall'immoralità della politica.
Credo, con il povero Di Pietro, che la "questione morale" sia più che mai all'ordine del giorno, anche se non sono un girotondino. Ma lasciamo stare i fatti miei e veniamo al tema.
Parliamo di Gramsci. Mi pare importante sottolineare l'importanza del "primo" Gramsci, quello che prendeva le distanze dal marxismo scolastico e quindi dall'ineluttabilità del crollo del capitalismo; disse persino che i bolscevichi non eran "marxisti". Lo erano i menscevichi, lo erano Kautsky e Bernstein, persino il riformista Bernstein. Lo era Turati in Italia.
Le cose su cui poneva sempre l'accento Gramsci erano la soggettività, la coscienza, l'iniziativa politica, persino la predicazione. Non è la collocazione di classe che fa automaticamente la coscienza. Essa si forma attraverso mediazioni infinite, gli intellettuali, i divulgatori, le maestrine, i preti, i giornalisti, i compagni di lavoro. Non tutte queste figure rispecchiano necessariamente, in modo passivo e subalterno, il punto di vista della borghesia. Questo era, indubbiamente, un marxismo di tipo nuovo che cominciava ad intuire l'importanza della battaglia sul fronte culturale e a rendersi conto che il mondo della cultura non è semplice sovrastruttura, ma gode di ampia autonomia. Ad esempio: le tensioni tra positivisti e storicisti non sono solo contraddizioni in seno alla borghesia, ma espressione di uomini che cercano, che studiano, che si affaticano non certo per bacchettare gli operai.
Carlo: Sono d'accordo. Però, Daniele, consentimi un'osservazione. Io e il Marenco, ho questa impressione, siamo, credo, sulla stessa linea interpretativa. Non solo finiremo per dire le stesse cose su Gramsci, ma finiremo anche per criticarlo allo stesso modo, temo, tacciandolo di idealismo, volontarismo, soggettivismo. Non esiste un ottimismo della volontà contrapposto al pessimismo della ragione. Esiste il pessimismo della realtà: è tutt'altro. La ragione non fa altro che rispecchiare la realtà e le sue infinite ripetizioni, i suoi eterni ritorni. Qui ci voleva un terzo interlocutore, un gramsciano di ferro.
Daniele: Ti sembra facile trovarlo di questi tempi? Guido, Carlo ti ha fatto un assist...
Guido: passaggio troppo lungo, non ci arrivo, anche perché non ho più lo sprint...
Preferisco seguire una mia linea di ragionamento. Ho sempre considerato Gramsci come il comandante (meglio, un tattico ed uno stratega che da consigli ai comandanti) di un esercito che combatte una guerra. Il suo scopo era vincere, per questo voleva dare un morale ed una consapevolezza alla truppa, agli ufficiali. Forse non tutta la truppa era in grado di capirlo. Qualche ufficiale sì. Ora, il termine "guerra" non ha necessariamente un connotato di violenza, così come il termine "esercito", che tale guerra combatte. L'esercito di Gramsci è da intendersi soprattutto come forza "disciplinata" e obbediente, austera, che marcia a ranghi compatti, perché consapevole degli obiettivi da raggiungere. La stima che tutti i subordinati dell'esercito provano nei confronti dei comandanti non si basa sul dogma dell'obbedienza e della disciplina, ma sulla chiarezza dell'analisi della situazione. Un duce non è un duce perché da ordini e la truppa obbedisce. Un duce è un duce perché spiega le ragioni della guerra, che cosa si può raggiungere mobilitandosi, quali rischi comporta, e qual'è la forza del nemico. Non ci sono slogan, o parole d'ordine. Ma se proprio si vuole cercare una formula sintetica, essa sta nel sostituire il "credere" con il "ragionare". Sicchè la formula potrebbe essere: "ragionare, obbedire e combattere". Non è una differenza da poco. Occorre ragionare su ciò in cui vale la pena di obbedire e combattere. Le nuove imprese capitalistiche lo hanno capito da un pezzo. Quelle che sopravvivono hanno quadri formati sul modello "ragionare", quelle che vanno allo sfascio, hanno quadri formati sul modello "credere". Quelle vincenti valorizzano la risorsa umana. Quelle del cazzo fanno mobbing. Gramsci potrebbe essere un modello per l'attuale management delle imprese. In questo sarebbe sicuramente più attuale che un quasiasi pavloviano comportamentista ed in qualsiasi fanatico del credere.
Nel I dei Quaderni, se ben ricordo, c'è una affermazione circa il sostrato militare di ogni lotta politica. E mi pare che questo richiamo alla disciplina consapevole derivasse da un'analisi del carattere "misto" delle forme di lotta, imposto dal modo stesso in cui viene esercitato il dominio e il controllo del territorio da parte dell'avversario, che è a sua volta un "misto" di consenso e coercizione. Qualcuno ha sottolineato che Gramsci faticò ad enucleare con chiarezza cosa vi fosse di coercitivo anche nella società civile e non solo nello stato come detentore del monopolio della violenza. Mi parve, a suo tempo, un'osservazione mezzo azzeccata e molto infondata. Mi veniva facile obiettare che il coercitivo stava proprio nella appropriazione privata del lavoro pubblico, cioè nello sfruttamento di gente senz'altra risorsa che le propria braccia e la disponibilità a obbedire e lavorare fino allo sfinimento.
Bobbio aveva comunque ragione a denunciare l'insufficienza della teoria comunista dello stato, quindi anche in Gramsci. Leggendo i Quaderni, non troviamo una teoria ben delineata, ma approssimazioni successive che non giungono ad una soluzione finale.
Comunque, mi pare importante sottolineare che quella di Gramsci era una razionalità rispetto allo scopo, per dirla con Weber. Lo scopo era la conquista del potere da parte del partito del proletariato, non fine a sé stesso, ma per dirigere la trasformazione sociale. Tuttavia le sue analisi delle condizioni, del campo di battaglia, della struttura dell'avversario, della sua forza e della sua debolezza, andavano molto più in profondità di una qualsiasi razionalità scientifica e avalutativa di tipo neutrale. In campo storico ho l'impressione che le analisi e le ricostruzione degli studiosi di parte vadano sempre più lontano di quelli che scrutano la storia con la presunzione dell'imparzialità imperturbabile. Non sto a fare il nome di De Felice su fascismo e Mussolini, o di Spriano sulla storia del PCI, ma guarda caso sono i loro libri quelli da leggere per capire un po' meglio la nostra storia. Poi, ovviamente, occorre prendere le distanze da tanta parzialità... sempre che si posseggano coordinate atte a trovare un punto di riferimento. Nel nostro caso potrebbe essere lo stato costituzionale, la regola democratica. Se affermiamo questo punto, la teoria gramsciana risultava eversiva, perché Gramsci voleva abbattere quello stato, comunque molto imperfetto anche da un punto di vista liberale o democratico.
Daniele: non ti sembra di sottovalutare il Gramsci filosofo, filosofo della prassi?
Guido: Gramsci fu un "marxista dinamico", uno storicista in senso crociano. Dovessi dire che come filosofo mi ha colpito, direi una fesseria. Ha dato un contributo enorme ad una teoria della conquista del potere nelle società occidentali da parte dei partiti del proletariato. Ha messo a fuoco il ruolo degli intellettuali. Ma sul piano strettamente filosofico, mah... l'aspetto più rilevante è la sua avversione sia al positivismo, che all'idealismo, che al materialismo dialettico, quindi alla filosofia della natura di Engels, di Lenin, poi di Stalin. Ma su ciò Gramsci ha scritto troppo genericamente. Il che non significa sminuirne il valore, intendiamoci. Filosofare è spesso una perdita di tempo. Anche se non sei un uomo d'azione ma da scrivania, ci son dei momenti nei quali è necessario agire, anche con le parole, per carità... la filosofia della prassi rimane pur sempre, sulla scia di Marx, quel movimento reale che cambia gli stati di cose che supponiamo di conoscere... Ma l'aveva già detto Marx, ribadito Labriola, confermato Lenin.
Carlo: Non credo che in Gramsci si possano trovare tracce di una filosofia indipendente dalla volontà politica. L'analisi della condizione umana è prettamente marxista. Una volta stabilito che bisogna cambiare quello stato di cose nel quale una classe domina ed un'altra è sfruttata, alienata, condannata alla subalternità ed alla incompletezza, a non realizzarsi come umanità, il socialismo diventa un dovere, una missione, il modo più sicuro per dare un senso alla vita. Sicché la filosofia stessa si risolve nella prassi. Potrebbe sembrare attualismo, ma non lo è. Lo abbiamo scritto: Gramsci rifiuta di credere all'autosvolgimento del pensiero, lo ritiene mistificante. Tuttavia la cosiddetta realtà è conosciuta attivamente, è trasformata dalle azioni umane. Non si passa mai da pensiero a pensiero, esiste un circuito tra pensiero e realtà.
Daniele: Nei nostri files su Gramsci abbiamo scritto della grande influenza di Antonio Labriola e Georges Sorel. Se il nome del primo è scontato, essendo il traduttore del materialismo storico in lingua italiana, quello del secondo lo è un po' meno.
Carlo: Chiunque abbia un po' di confidenza col pensiero dei socialisti europei a cavallo tra i due secoli, conosce l'importanza di Sorel. Egli portò un po' di luce nell'asfittico mondo dei socialisti e dei marxisti francesi, dando però, secondo Gramsci, un'enfasi letteraria alle sue analisi sociali e politiche. E l'enfasi produsse un mito, quello del sindacato e dello sciopero generale, per non dire del mito della violenza proletaria, che divenne il mito dell'azione per l'azione. Che poi venne rigirata nel mito della violenza fascista. C'è molto Sorel anche nel fascismo, nella sua componente populista e sottoproletaria. Ma qui il problema è vedere il nesso tra Sorel e Gramsci, forse lo stesso Croce. Qualcuno crede che Sorel abbia influito su Gramsci insistendo sulla soggettività. Non mi pare sia un'analisi sufficiente. L'analisi di Sorel riconosce a Marx il merito di essersi mosso sul piano dell'ordine logico, il quale dunque esiste. Ma dall'ordine logico astratto non viene oggettivamente alcun cambiamento concreto. Occorre quindi alla classe operaia una estrema volontà ed una forte disciplina. E' interessante notare che questi caratteri sono dedotti dai "residui fossili" delle antiche comunità, in primis quello della Chiesa. In quest'ordine comunitario valgono principi che non appartengono all'ordine logico e non vengono presi in considerazione dalla scienza. Il modo in cui i quadri della Chiesa vengono selezionati deriva dal fatto che non vi è democrazia, che si avanza per cooptazione, e che la cooptazione è determinata da quanto un giovane pensa alla stessa maniera degli anziani, cioè in quanto rimane riproduttore della tradizione. Ciò mi pare importante per una teoria del partito insieme molto giusta e molto sbagliata. Nel partito delineato da Gramsci ci sarà molta più democrazia interna e molto meno tradizione.
Un altro punto è il seguente: Sorel muove dalla convinzione che la società capitalista si costituisce su scontri di interesse, prima ancora che su scontri di classe. Egli non vede alcuna armonia sociale possibile, se non nella testa dei filosofi liberali, che cordialmente detesta. Sono necessari cambiamenti sociali. Ciò è possibile se scendono in campo non forze atomizzate e fortemente caratterizzate, ma "blocchi solidi", cioè alleanze sociali e politiche. Prima occorre unificare la classe, poi occorre che la classe costruisca un alleanza con altre classi. Il presupposto di Sorel è che tra la classe e la società si verifichi una scissione e che essa venga vissuta consapevolmente. Solo da ciò può venire un nuovo blocco, estendendo la scissione e ricomponendo attorno al blocco.
Arrivando al nodo dell'affermarsi del capitale finanziario, che Sorel interpreta come elemento parassitario, egli trova giusto contrapporgli il socialismo come filosofia del produttore. Ma in Sorel è inutile cercare una chiarezza teorica sul rapporto tra finanza e imperialismo. Tant'è vero che la sua analisi scorrerà stranamente nel fiume in direzione opposta: nei discorsi sulle plutocrazie fatti dai fascisti. Sorel interpreta le democrazie moderne come come terreno della degenerazione borghese, della corruzione nazionale. Ciò renderà possibile ai fascisti una sorta di "trasformismo" del suo pensiero in chiave nazional-popolare. Il capitale finanziario non è un nemico interno ma la nazione inglese, la potenza plutocratica.
Daniele: Ma anche in Gramsci è presente la categoria di "nazional-popolare"...
Carlo: Sì, ma funziona come un modo per elevare le masse che sono rimaste più lontane, ai margini della storia, alle punte più alte del senso comune civile.
Daniele: tu, Guido, sei d'accordo?
Guido: Sorel non è esattamente l'argomento su cui potrei passare un esame. Confesso la mia ignoranza. Come fonti e stimoli del pensiero gramsciano mi possono andar bene sia Labriola che Croce, che lo stesso Sorel, ma credo che l'influenza fondamentale vada riportata a Marx e a Lenin. Sottolineo l'importanza di Lenin e le considerazioni che Gramsci faceva sulla "rivoluzione contro il capitale", che ho battuto con le mie mani per dare un contributo alla nostra pagina dedicata a Gramsci. Mentre pigiavo sui tasti, pensavo. C'è in quell'articolo l'estrinsecazione di quel " certo non so che" capace di far saltare il corso della storia, per dirla con Benjamin, che con Gramsci non c'entra neanche un filo, ma col quale presenta singolari affinità. Nella storia ci sono sia punti predeterminati che indeterminazione. Di questo era cosciente anche Marx; diciamo fesserie se vogliamo riportare Marx ad un oggettivismo senza soggetto. Non voglio negare che l'elemento oggettivo sia prevalente, ma Marx non va confuso con i "marxisti". L'articolo di Gramsci è acuto, ma mostra una comprensibile ignoranza nei confronti del vecchio Marx, il quale, negli ultimi anni della vita dedicò grandissima attenzione al problema della Russia e criticò quegli atteggiamenti attendisti che postponevano il problema della rivoluzione proletaria all'affermarsi della rivoluzione borghese. Marx aveva richiamato quei "marxisti" russi ad essere un po' meno scolastici ed ortodossi, a valutare ogni situazione in modo concreto. Se un rimprovero si può muovere a Marx, esso riguarda il problema dello strumento: cioè il partito, l'organizzazione dell'avanguardia. Su questo ritardo lavorò Lenin e sul lavoro di Lenin prese consistenza il lavoro di Gramsci.
Carlo: Concordo pienamente.
Daniele: mi sembrate troppo d'accordo...
Carlo: le ragioni del dissenso tra me e Guido sono d'attualità. Gli rimprovero di non essere più comunista. Ma la correttezza del suo modo di ricostruire la storia è fuori discussione.
Daniele: Tuttavia, mi pare si possa rimproverare a Gramsci un'acquiescenza nei confronti di Lenin che portò alla sottovalutazione del pericolo fascista in Italia e in Europa. La scissione comunista avvenne sulla base di direttive di Mosca. Essa spezzò l'unità antifascista su basi settarie, e per un certo tempo fece credere ai comunisti e ai proletari che era imminente una rivoluzione in occidente e che bisognava solo alleggerire la navicella scaricando la zavorra riformista... Bordiga scherzava sul pericolo fascista proprio quando le squadracce cominciarono a spargere violenza nelle campagne, a bruciare le case del popolo.
Guido: L'atteggiamento dei comunisti torinesi fu diverso da quello di Bordiga. Gli ordinovisti avevano costruito una specie di fortino nella redazione del giornale. Più volte furono minacciati. Qualcuno fu anche malmenato. Lo strano di tutta la faccenda è che nonostante il clima, essi continuarono a considerare i fascisti non come l'inizio di un pericolosissimo tentativo reazionario, ma come mosche fastidiose. E' incredibile! Venti giorni prima della marcia su Roma, l'intero gruppo dirigente si sposta a Mosca insieme ai dirigenti socialisti. E' la prova della assoluta distanza dei dirigenti comunisti e massimalisti dal paese reale e dalla politica reale. Che cazzo vanno a fare a Mosca quando in Italia si prepara un vero e proprio colpo di stato?
Per svegliarsi dal letargo, i comunisti, compresi quelli russi, devono quindi subire una doccia fredda e un brusco risveglio. Le eccezionali capacità tattiche e strategiche di Lenin, l'acutezza di Gramsci, la lungimiranza di Togliatti rischiano di diventare pura mitologia. Essi hanno anche profondamente sbagliato e la radice dell'errore è proprio nel soggettivismo. Quando si gioca, così come quando si combatte, bisogna tener conto di quello che fanno gli altri. Di fronte al concreto svolgimento della storia, in quel momento, essi paiono del tutto rincoglioniti. Manca la controprova, ovviamente. Probabilmente, anche una forte iniziativa politica, anche un unitario movimento di massa (quanto consistente non lo so) non avrebbe potuto fermare l'irresistibile ascesa del cavaliere Benito Mussolini. Ma un tentativo di accordo con le forze politiche liberali e democratiche per difendere lo stato di diritto si poteva fare. Inoltre, non era affatto scritto che fosse obbligatorio farsi trovare in mutande, in qualche squallido albergo moscovita, invece che resistere, resistere, resistere.
Carlo: anche stavolta devo darti ragione! Ma come sei "colorito"! Non temi un altro cartellino giallo?
Guido: Mi possono solo condannare a scrivere una recensione sulla fenomenologia di Woytila con una particolare attenzione alle analisi di Rocco Buttiglione...
Daniele: Infatti, so che stai leggendo Persona e atto
Guido: Con sommo gaudio, devo dire.
Carlo: Torniamo al sodo, la sottovalutazione del fascismo fu in effetti una colpa da distribuire equamente tra Torino, Roma e Mosca. Ma attenzione, perché la condanna degli arditi del popolo venne da Bordiga, che allora controllava il partito. Gramsci era di tutt'altra opinione. Tra tutti era il più consapevole del rischio fascista. Andò a Mosca perché comunque lì si giocava una partita fondamentale per il movimento operaio internazionale e per l'unità tra comunisti e socialisti in Italia.
Daniele: Ok. Tutta questa attenzione alla storia va bene, però avrei preferito una maggiore attenzione da parte vostra alle questioni teoriche, al Gramsci dei Quaderni, quello che cominciò a influenzare il dibattito culturale e filosofico nel dopoguerra...
Guido: nelle discussioni a ruota libera si va sempre fuori tema. Ma non è sbagliato: emergono cose che altrimenti rimarrebbero latenti. Però, consentimi, la discussione su Gramsci, come su altri marxisti, non può essere disgiunta dalla storia concreta, altrimenti rischiamo di capire poco, di cadere nello stantio confronto tra idee e opinioni in astratto. Quelle idee maturano nella lotta, nell'ansia, nello scontro, nel respiro breve ed affannoso di gente che corre a portare il bene, alla maniera insegnata da San Paolo e dai propagandisti in generale. Quando prima parlavo di rincoglionimento e letargo, non mi riferivo a qualcuno chiuso in una stanza con la testa in vacanza, ma a gente molto presa dai propri obiettivi, dal proprio lavoro. Talmente presa da non accorgersi di quanto stava accadendo, cioè di quanto stavano facendo gli "altri". E' il rischio di ogni soggettivismo, di un attivismo senza reali obiettivi politici intermedi o a corto raggio.
Ora vorrei fare qualche osservazione sull'andazzo al quartier generale, cioè alla direzione del Comintern.
Dopo Lenin, gravemente malato e poi morto, vengono lanciati alcuni slogans di facile effetto e di contenuto miserevole. Uno di questi è la bolscevizzazione dei partiti comunisti. Se guardiamo alla sostanza delle risoluzioni approvate c'è da inorridire. Zinoviev (e quindi non l'ultimo dei portaborse) scriveva a commento del V Congresso della III Internazionale (1924) che la bolscevizzazione non andava interpretata come meccanico trasferimento dell'esperienza russa nel partito tedesco o negli altri partiti. Però, arrivando al dunque, affermava che bolscevizzazione significava "odio ardente" per la borghesia, i capi rinnegati della socialdemocrazia, i centristi e i pacifisti. Affermava l'ammissibilità di qualsiasi manovra strategica nella lotta contro il nemico. L'unica nota interessante, che non ha solo valore filologico, è che Zinoviev parlava di egemonia del proletariato. Era un concetto nuovo, diverso da quello di dittatura del proletariato, e si sa che risale agli scritti di Plechanov del 1883. In quei testi il concetto di gegemoniya è contrapposto a gospodstvo (dominio) in modo ancora informe, anche se si potrebbe attribuire a Plechanov l'intenzione di approfondire tale differenza. Nel dire che nemmeno il concetto di egemonia è schiettamente originale, non voglio sminuire Gramsci, intendiamoci. Voglio solo evidenziare che se c'è una "sala macchine" dell'analisi marxista essa va cercata nel luogo più appropriato, cioè la Russia. Luogo in cui si sposano due enormità: la dabbenaggine assoluta (vedi l'odio ardente per la borghesia di Zinoviev) e la germinazione di concetti nuovi e per certi aspetti straordinari, destinati comunque a cambiare il marxismo in modo sostanziale.
Sarebbe interessante approfondire questo punto, ma si va fuori tema un'altra volta. Bisogna solo capire che con l'avvento di Stalin, la sala macchine chiude per decesso violento di quasi tutti i macchinisti, si torna a remare, e il ritmo lo dettano lui, Beria, la polizia segreta e l'anonima assassini.
La bolscevizzazione venne recepita dal partito italiano in modo dogmatico, da un partito decapitato dagli arresti e dalle scomuniche. Non è questa la sede per scrivere la storia del periodo, che in questo caso sarebbe molto simile all'aristotelica cronologia, dobbiamo e possiamo riassumerne il succo in alcuni punti evidenziabili. Il primo sta nel conflitto che si venne a determinare tra autonomie locali (cioè nazionali) e direzione centralizzata, legittimata, se ben si guarda, non solo dal fatto che c'è differenza tra chi ce l'ha fatta (i russi) e chi non ancora (tutti gli altri), ma dalla ricchezza dell'elaborazione marxista dei russi tutti insieme. Questa seduzione della teoria russa non è stata sufficientemente approfondita, ma io mi permetto di sottolinearla. Loro, erano riusciti nell'impresa della rivoluzione non solo grazie a Lenin, ma grazie al fatto che Lenin si era trovato belle e pronte tutte le possibili variabili della partita a scacchi che stava giocando, ricorrendo alla ricchezza teorica dei marxisti russi. Alla fine si trovò persino nella condizione di trovare un aiuto insospettabile a priori, cioè l'aiuto del nemico storico e giurato della Russia e dei suoi marxismi.
Ora, proprio in virtù di questa riuscita, i russi si sentirono investiti di una autorità che in realtà non potevano e non dovevano avere. Unità nella diversità, come disse Togliatti, dopo essersi almeno un po' liberato dall'abbraccio soffocante dell'orso, significava qualcosa di molto più profondo, e cioè che l'unico vero specialista della mia situazione sono io che la vivo. Tu mi puoi aiutare, ma non mi puoi dettare la linea dogmaticamente. Non serve, sono io che mi devo liberare, sono io che devo capire con chi ho concretamente a che fare. Vorrei dire che questa consapevolezza maturò in Gramsci prima che in Togliatti, ma Togliatti era anche frenato opportunisticamente da motivi pratici quali quelli del finanziamento nella clandestinità, della squallida ma inevitabile questione della sopravvivenza.
Caro Carlo, ti ho fatto una bella serie di assist... vedi se riesci a fare gol.
Carlo: Hai messo tanta carne al fuoco che quasi mi perdo! Ok. Riconosco che la tua visione della ricchezza teorica del marxismo russo è decisiva per le scelte di Lenin. Riconosco che gli fu più facile scegliere tra le mille linee possibili, ragionando sulle conseguenze pratiche di ogni singola proposta. Senza alternative esplicite e consapevoli noi crediamo di aver fatto la scelta più razionale rispetto allo scopo, ma ci illudiamo.
Hai fatto centro quando alludi alla teoria gramsciana del partito come intellettuale collettivo, che è appunto questa capacità di sintesi delle posizioni, una vera e propria Aufhebung hegeliana, che diventa evidente in Lenin, ma trova sistemazione in Gramsci. Ma, era già presente in San Paolo, che tu contesti, quando affermava che ognuno da il contributo che può alla Chiesa, in base alle sue disposizioni.
Tu finisci però col dire una cosa che non mi sento di condividere, cioè che il gruppo dirigente del partito comunista e quindi anche Gramsci, non sapeva che pesce prendere perché disturbato dalle direttive del Comintern e dal suo stesso cieco attivismo. In quella fase, il dibattito, anche nel Comintern, era ancora fraterno e non diplomatizzato. Le ipocrisie erano ridotte al minimo, al calcolo che ognuno deve comunque fare. Posso assentire però, quando mostri l'evidente contraddizione tra lo slogan della bolscevizzazione e l'espulsione di tutti gli elementi riformisti e la necessità teorica di tener conto del maggior numero di analisi possibili, del contributo degli specialisti e così via. In effetti il radicalismo dei bolscevichi portò infine proprio a una negazione dell'utilità del pluralismo. E' un errore che Gramsci non commise, se mi consenti, anche se apparentemente, egli seguì l'estremismo ed il purismo di Bordiga per troppo tempo.
Guido: Non ho detto esattamente quello che mi metti in bocca. Ho solo detto che l'unione Bordiga-Gramsci non stava su basi solide. Era un'unione tattica determinata dalla necessità di liberarsi dei riformisti per avere un partito in grado di avere mani libere e per obiettivo la rivoluzione proletaria in Italia. Ma non aveva respiro strategico, di linea. Come possono andare d'accordo due tizi che vedono il processo rivoluzionario in modo sostanzialmente opposto? Bordiga si aspettava catastrofi, si aspettava che la situazione sarebbe diventata intollerabile, come in Francia nell'89 o come in Russia nel '17. Gramsci picchiava sulla soggettività, sull'azione capillare e quotidiana. Non voglio dire che fossero l'uno apocalittico, Bordiga, e l'altro integrato, quanto meno in una visione sindacale della lotta di classe che porta a strappare riduzioni d'orario e salari più alti. Erano entrambi apocalittici. Solo che l'apocalisse gramsciana era una via crucis, quella di Bordiga si poteva svolgere stando tranquillamente seduti a fumare un sigaro, aspettando gli squilli di tromba dell'angelo della rivoluzione.
Daniele: sì, questo è chiaro anche a me. Nei file su Gramsci abbiamo cercato di evidenziare l'ottimismo della volontà che si risolve però, come hai ben detto, in una via crucis (tra l'altro, bello il titolo che ci hai imposto: "com'è difficile essere comunisti")...
Guido: sì ma l'ottimismo della volontà senza un'analisi chiara di ciò che è possibile a breve, di ciò che sarà possibile fra un po', è uno slogan da pensare positivo. In ogni situazione ci sono delle "emergenze" e le devi affrontare. Allora la vera emergenza era il rischio di una dittatura fascista. Essa reclamava un'unità più ampia di quella del fronte unico. Occorreva provarci rompendo l'isolamento. Lenin si era fatto aiutare dal kaiser per fare la rivoluzione in Russia. Il partito comunista d'Italia avrebbe potuto aiutare Giolitti a salvare la democrazia in Italia. Questo è un errore imperdonabile, in termini di valutazione storica. Come rischia di essere imperdonabile oggi, del resto, il continuare a non vedere che c'è una questione morale in questo paese di corrotti e che essa viene prima di qualsiasi altra: è un'emergenza gravissima.
Carlo: La prima parte di quello che dici lo abbiamo scritto nel file Com'è difficile essere comunisti. Ma nelle nostre intenzioni, quanto meno nelle mie, non si voleva con ciò dare ragione a Turati e a riformisti...
Guido: Invece io sì. Se mi consenti, è proprio dal Gramsci dei Quaderni che imparo il concetto di responsabilità nazionale. Non posso stare a guardare che il paese va allo sfascio senza provare a metterci una toppa. Come fa la classe operaia a conquistare il consenso se non dimostra di essere una forza responsabile opposta agli irresponsabili?
Tutta l'evoluzione della politica del PCI nel dopoguerra non è altro che un continuo rispondere a prove di responsabilità, fino alla definizione berlingueriana di un "partito di lotta e di governo" e di un partito che è insieme "rivoluzionario" in un senso, e "conservatore" in un altro. Così salviamo anche il principio di non-contraddizione, che i marxisti faticano a digerire. Non nascondo il fatto che quand'ero giovane era molto più attratto dalla parola "rivoluzionario" e che oggi mi senta molto più in sintonia con i valori della conservazione. Insomma, mi starebbe bene un partito democratico, appunto, ma non chiedetemi di dichiarami entusiasta ...
Daniele: non ti bastano i DS?
Guido: non facciamo dell'ironia. Se vai ad Hammamet a genufletterti sulla tomba della corruzione, devi averti colpito il virus dei "polli". Se ammetti che l'UNIPOL usi il suo patrimonio per scalare le banche e non per fare case popolari da affittare o vendere ai lavoratori, il virus ha colpito molto in profondità.
Carlo: sì, su questo sono d'accordo, ma alla fine quello di Guido è proprio una specie di nuovo bordighismo. Sta alla finestra ad aspettare il messia!
Guido: non proprio, se mi consenti, fare questo sito non è stare alla finestra. Stiamo provando a seminare, non ti pare?
Daniele: su questo non ci piove. Ora siamo al punto. Gramsci, con i Quaderni, ha seminato più di ogni altro. La tesi di Guido, ma non solo sua, è che il PCI si sia gramscianizzato, nel dopoguerra, non senza difficoltà, almeno fino a quando la direzione fu in mano a Togliatti. Giusto?
Carlo: credo proprio di sì. Togliatti gramscianizza, ma insieme esorcizza Gramsci. Il partito nuovo è quasi del tutto una sua invenzione. Gramsci vedeva ancora il partito come una forza di avanguardia, molto estesa, non settaria, ma sempre d'avanguardia. Era un partito unito e disciplinato che stringeva alleanze egemoniche con forze esterne. Con Togliatti diventò possibile immaginare contadini, artigiani e commercianti, farmacisti, medici, ufficiali dell'esercito iscritti al partito. E' una storia strana ed affascinante quella del partito nuovo. E fu un'idea che ebbe un successo straordinario, anche se nei limiti di una concezione che comunque prevedeva la centralità del politico su tutto il resto. Le polemiche con gli intellettuali furono, sotto questo aspetto emblematiche.
Daniele: Gramsci le avrebbe fatte quelle polemiche?
Carlo: penso di sì, anche se con altro stile, altri argomenti.
Guido: Cosa avrebbe detto Gramsci a Vittorini, a Calvino, a Moravia, proprio non lo so e non riesco nemmeno ad immaginarlo. Ciò che so, o che credo di sapere, è che un rivoluzionario di professione e di vocazione votato e consacrato alla causa, difficilmente vede le "esigenze" individualistiche del mondo della vita. E' portato a classificarle come espressioni di una mentalità piccolo-borghese. E quindi fatica a comprendere le "debolezze", le incertezze, i cedimenti e le derive esistenzialistiche.
Le note gramsciane su Americanismo e fordismo sono illuminanti. Il proibizionismo è funzionale alla nuova fabbrica, ma in fondo serve anche all'uomo e fa bene all'operaio.
In Italia non abbiamo avuto un Sartre od un Camus, ma abbiamo avuto ad esempio, il Calvino del Marcovaldo, o quello del breve racconto pubblicato su "Officina", intitolato I giovani del Po. Anche un operaio, dice Calvino, non è solo coscienza che viene dall'esterno della classe, non è solo, come consapevolezza, un prodotto di luoghi comuni "marxisti". Può trovarsi scisso, confuso, disperso. Può provare a sentirsi così con la fidanzata e cosà tra i compagni di fabbrica e di partito, e non capire come lo stesso "io" possa sentirsi così e cosà. Qual'è il vero io? Così o cosà? In sostanza, il problema degli intellettuali non si può risolvere con l'ordine, il richiamo all'obbedienza, il non scrivere o dipingere in altro modo dal realismo socialista. L'umanità ha bisogno tanto di un grande Majakovsky, quanto di un buon Pasternak, quando di un mediocre Solgenysztyn. La vita, la vita è un richiamo che va compreso. Un giorno preferii andare a bere (cioè a pagare da bere) un bicerin di Montefalco Rosso di Bastia Umbra con un poeta del cazzo, piuttosto che andare ad un convegno sulla programmazione culturale dell'ARCI. Ho fatto bene od ho fatto male? E chi se ne frega. Gli intellettuali, quelli buoni, hanno spesso il merito di saper mostrare quello che i fanatici di un'idea e i programmatori convinti di un futuro migliore non riescono mai a prendere in considerazione. Piccoli cedimenti e leggere deviazioni sono invece indispensabili per tirare a campà. Gramsci vede gli intellettuali come organizzatori del consenso, e credo abbia ragione. Chiede loro di essere decisivi per la riforma morale e intellettuale, e anche qui ha ragione. Però non coglie quanto essi siano anche seminatori di dissenso e criticità, non solo rispetto alla cultura borghese, ma anche rispetto all'ortodossia proletaria. Non fa i conti con Kafka, con Musil, con Joyce, con il decadentismo di qualità. Quale interprete della vita, l'intellettuale-artista non può che visitarne tutti gli anfratti e le sfumature. Non può che contraddire gli slogan, non può che mettere gödelianamente in crisi i principi della ragione cartesiana e non solo cartesiana. Suppongo che Gramsci fosse non poco più sensibile di Togliatti a questi aspetti negativi dell'intellettualità, che poi erano gli aspetti che facevano incazzare i fascisti, i quali si proclamavano irrazionali, ma non si sforzavano granché per capire cosa fosse l'irrazionalità stessa. Ma non giurerei sul fatto che Gramsci avrebbe poi trovato anche la soluzione elastica al problema posto rigidamente. Quanta autonomia si può concedere alla libera ricerca di un intellettuale definito organico al partito?
Se organicità significa essere parte di un organismo vivente, se il partito è pensato in questo modo biologico, non mi pare che il livello di tolleranza possa comunque rimanere alto. Ogni contaminazione virale va combattuta, porta febbre e debolezza. E' male.
Daniele: E non è forse in questo che il "buon" filosofo, il saggio, si oppone all'intellettuale-artista. Platone contro la poesia.
Guido: al quale potrei contrappore la catarsi di Aristotele come antidoto al proibizionismo più idiota. In realtà, come sai bene, io sono convinto che non si può scegliere tra le due teorie contrapposte senza commettere un grave errore. Il proibizionismo può funzionare con i deficienti, ma penalizza gli intelligenti. Il proibizionismo va rapportato anche all'età di un individuo, essendo iperprotettivo. Viceversa, la teoria della catarsi, funziona benissimo con gli intelligenti, ma rischia di condannare i deficienti e gli immaturi alla perdizione. Un po' di ragione l'aveva anche Platone. La catarsi è comunque selettiva, opera selezione naturale anche nella società civile. Se non fa troppi danni, è da preferirsi. Nel partito, credo sia indispensabile. Un partito che non si depura tramite la selezione naturale, finisce col diventare un partito di deficienti fanatici. Per questo, con espressione abbastanza efficace, Gramsci teorizzò il massimo di tolleranza interna, cioè il massimo di democrazia, per poter esercitare il massimo di unità contro il nemico esterno. Che è come dire che una persona convinta delle proprie idee non è un "invasato" ma uno che ha ben presente il pro ed il contro di ogni posizione.
Carlo: Proprio qui appare evidente, però, quanto siate tutti e due distanti da un'esatta compresione del "marxismo" come filosofia della prassi. Discutete metafisicamente di proibizionismo e catarsi senza alcun riferimento ad una situazione concreta, che nel nostro caso non è il problema se sia giusto o meno dare ampia libertà all'intellettuale di "sfogarsi", correre a briglia sciolta, galoppare con la fantasia, costruire ingegnerie filosofiche, ma di estrinsecare nei fatti la tematica della legittimità dell'egemonia dei produttori. Questo, in ultima analisi, è il Gramsci che interessa.
Guido: e su questo temo che non ci intendiamo. L'intellettuale ammette "a parole" l'egemonia dei produttori. Nei fatti si arroga il diritto di saperne più dei produttori stessi e quindi, in realtà, mira ad un'egemonia degli intellettuali. Che poi è nell'ordine logico delle cose, e palese. Nessuna cuoca è mai arrivata a dirigere lo stato e forse nemmeno il municipio di Alluvioni Cambiò in quanto cuoca. Gli scontri tra élites intellettuali sono quelli che determinano il carattere del confronto per l'egemonia, se questo termine ha ancora un senso. Osserverei, inoltre, che la scolarizzazione di massa non ha affatto abolito le differenze tra intellettuali e gente comune. Istruzione non significa di per sé capacità di produrre una cultura o farsi una cultura. Il che non vuol dire però che l'intellettuale sia infallibile, o sia sempre portatore di visioni superiori. Io ho una sola fortuna: quella di essere sempre vissuto lontano dall'università e vicino alla gente che lavora, in mezzo ai lavoratori, alle donne del popolo. C'è molto buon senso in giro, e ciò mi aiutato a non perdere del tutto il contatto con la realtà. Per questo ho anche scelto di fare ricerche antropologiche, psicoanalitiche, economiche, anziché fare della filosofia pura. L'uomo non è una passione inutile e non siamo affatto all'oltreuomo.
Poi vorrei far notare questo fatto: la conquista dell'intellettuale alla causa dei produttori in Gramsci assomiglia in modo impressionante al modo con cui, certosinamente, lo stesso Gramsci conquistò ad uno ad uno i dirigenti comunisti di ogni federazione e i nuovi iscritti, alla sua linea, strappandoli a Bordiga. Nelle note biografiche che avete steso, mi pare che non abbiate sottolineato la fatica estenuante che dovette costare quell'impresa. Quante discussioni, quanti scontri, quanti scazzi. Un'esperienza del genere lascia tracce indelebili. E' questo che fa grande Gramsci, la sue esperienza umana.
Carlo: C'è qualcosa di vero in quello che dici, ma il tutto non è riducibile a questioni di retorica. Non nascondo il fatto che la chiarezza e la potenza persuasiva degli argomenti abbia importanza. Ma nel marxismo, cioè nella filosofia della prassi, l'argomentazione incontra facilmente la realtà che è ricostruita dalla coscienza. Essa accoglie facilmente un'idea di sfruttamento perché lo sfruttamento è nella realtà. Ora, dirai, sì, l'operaio si può anche persuadere che l'analisi di Marx corrisponde veramente alla sua condizione. Lo sente sulla sua pelle, sulla sua fatica. Ma perché l'intellettuale dovrebbe sposare la causa dell'operaio? La risposta di Marx, come di Gramsci del resto, e forse ancora di più, è che l'intellettuale non è un intellettuale se non prova sensibilità per l'umanità negata.
Guido: Su questo non piove. Però tu vuoi sempre tornare sul certo, io preferisco arrischiarmi "oltre", è qui che rischiamo di non trovarci più.
Daniele: abbiamo fatto tardi, potrei provare a trarre un paio di conclusioni?
Carlo: mi sembra che siano mancati, nei discorsi fatti finora, due elementi fondamentali: la questione meridionale e l'analisi della società civile, che Guido aveva provato ad evidenziare all'inizio.
Daniele: sì anche a me sembra così. Però non resta che rinviare alle note che abbiamo steso su Gramsci. Il fine di questa discussione era mettere in rilievo una eventuale attualità di Gramsci, alla luce della più generale crisi del marxismo. Mi pare che in qualche modo siamo riusciti ad evidenziare qualcosa: ad esempio che la sinistra ha bisogno di Gramsci, al di là di un generico bisogno di tornare ad avere un punto di orientamento in Marx con la problematica del superamento del capitalismo in quanto formazione storica... Guido: scusa se ti interrompo. Ma qui la questione mi sembra scolastica. Cioé, preferirei metterla così: un pensatore che non è attuale oggi, non lo era nemmeno al suo tempo. Non è che smettendo di leggere Gramsci si sia smesso di affrontare quelle tematiche. L'apparato politico berlusconiano è scienza politica gramsciana applicata. Il fatto stesso che tanti babbei siano scesi scesi in campo per spazzar via l'egemonia culturale della sinistra, dimostra l'attualità di Gramsci, che rimane un nemico, ma da morto riesce persino a diventare utile consigliere del principe del postmoderno, il signore dei tranelli.
Carlo: in questo c'è molto di vero. Un pensatore che non è attuale oggi, non lo era nemmeno a suo tempo... bravo!
Daniele: Beh, lo sappiamo che Guido è sparato contro il relativismo.
Carlo: l'intelligenza è sovrastorica, o c'è, o non c'è
Daniele: vedo che proprio non mi volete lasciar trarre una conclusione! Massì, ci provo lo stesso. Un punto mi sembra chiarito, anche se molto provvisoriamente: Gramsci ha messo in scena un nuovo tipo di marxismo, è lo storicismo italiano, nutrito di Labriola, di Croce, di Sorel ed anche di Gentile. Guido ha giustamente rivendicato una continuità con Marx e Lenin, ponendo però l'accento sulla contiguità con Lenin e la feroce determinazione soggettiva anche contro tutte le determinazioni oggettive. Carlo ha insistito sul fatto che il pessimismo della ragione non è dovuto tanto alla ragione stessa, cioè una sorta di blocco interno ai nostri ragionamenti, ma al fatto che la ragione coincide con la realtà e la rispecchia. Tutti siamo convinti del grave errore commesso dai dirigenti comunisti, Gramsci compreso, nel sottovalutare il fascismo. Nessuno, però si è dichiarato disponibile a scommettere sulla possibilità di impedire la dittatura fascista con una tattica diversa. Il che non rende l'errore meno grave. In Bordiga il disprezzo per il cretinismo parlamentare aveva una giustificazione, ma negli altri forse no, visto che un bicchiere mezzo vuoto è sempre meglio di un bicchiere vuoto. Da questa riflessione sugli errori giovanili è arrivata una salutare correzione di linea che troviamo espressa nei Quaderni, di cui non siamo riusciti a parlare granché. Tuttavia,anche i Quaderni non hanno sciolto tutte le ombre, i ritardi e i limiti di una elaborazione. Secondo Guido, l'analisi della società civile non è riuscita ad arrivare ad una formulazione pienamente soddisfacente di quanto anche in essa vi sia di coercitivo. Suppongo volesse riferirisi soprattutto all'eticità in senso hegeliano, e ai rapporti di produzione in senso marxiano,quindi all'esistenza di un mercato del lavoro determinato che nega, cosa che avvertiamo tutti sulla nostra pelle, la nostra qualità umana (ed anche professionale) e ci richiede solo obbedienza ed abnegazione nel fare i commessi o i pizzaioli. Del resto, pare anche a me non soddisfacente né l'idea che il privato, cioè la società civile, si basi su rapporti consensuali, mentre lo stato sia solo momento coercitivo. E' vero, ad esempio che lo stato è momento normativo e legislativo, e che lo era anche ai tempi di Gramsci. Com'è vero, però, che non è sufficiente impadronirisi dello stato per impadronirsi di tutti gli strumenti del consenso e gli apparati dell'egemonia. Lo dimostra l'esperienza di Berlusconi. Nemmeno con il monopolio delle televisioni l'ottimismo della volontà è riuscito a vincere il pessimismo della realtà.
Orbene, questa esperienza di confrontarsi in chat, in diretta, non mi è parsa del tutto negativa. Non siamo riusciti esattamente ad arrivare a quanto speravo, ma la freschezza del dialogo è indubbiamente servita a tirar fuori qualche osservazione utile. Direi che tale esperienza si può proseguire.
moses - 29 gennaio 2006 - a cura di Daniele Lo Giudice