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Antonio Gramsci: un pensiero a scoppio ritardato
L'effetto Gramsci sulla cultura, la politica e la filosofia italiana cominciò dieci anni dopo la sua morte, avvenuta nel 1937. Durante il fascismo, il marxismo fu lungamente trascurato dagli studiosi di filosofia, nonostante qualche episodica apparizione di studi quali quello di E. De Negri, Recenti studi tedeschi sul marxismo (1927), o quello di Capograssi, Le glosse di Marx a Hegel, contenuto in Studi in onore di G. Del Vecchio, del 1930. Per questo si può dire che la resurrezione del pensiero di Gramsci provocò davvero grande impressione. Il marxismo non era più una caricatura, un ritratto deformato, un demone. Ritornava ad essere conoscibile nella sua realtà storica ed anche nel suo sviluppo italiano.
Così, nonostante il ritardo, la portata del ritorno di Gramsci fu incommensurabile. Non è un caso che uno dei cavalli di battaglia dell'offensiva politico culturale della destra liberista da un lato, e di quella post-fascista dall'altro, sia per l'appunto consistito nella lotta contro l'egemonia culturale della "sinistra". Egemonia, che in realtà non si è mai verificata né in senso strettamente filosofico, vista la preponderanza della cultura cattolica e il progressivo sviluppo del "laicismo" nel nostro paese, né soprattutto sul piano politico, considerato che i comunisti non avevano mai governato, e che per ottenere tale abilitazione a governare dovettero cambiare nome e vocazione, allearsi al grande capitale, scegliere una politica efficientistica, dimenticare (o parzialmente obliterare) la stessa lezione gramsciana, optando per un pluralismo filosofico e culturale che di fatto escludeva l'egemonia della filosofia della prassi non solo dalla società, ma dallo stesso partito diessino. Comunque sia, è indiscutibile che la politica e la politica culturale del disciolto partito comunista italiano furono per decenni ispirate e telecomandate dal pensiero di Gramsci, pur nelle ambiguità e nelle contorsioni della linea dettata da Palmiro Togliatti e successivamente da Enrico Berlinguer.
Un chiaro esempio delle ambiguità togliattiane può essere tratto proprio dalla politica culturale ed editoriale del PCI. Il primo classico del marxismo pubblicato dalle edizioni Rinascita non fu un'opera di Marx, e nemmeno di Engels o di Lenin, ma il famigerato Questioni del leninismo di Stalin, curato dallo stesso Togliatti. Del resto, nemmeno gli intellettuali marxisti più autonomi rispetto alle direttive togliattiane mostravano di aver compreso la fondamentale ostilità di Gramsci al materialismo dialettico ed alla sua versione sovietica. Lo stesso Antonio Banfi, ne L'uomo copernicano, rendeva il dovuto omaggio a Questioni del leninismo.
Le lettere dal carcere furono pubblicate nel 1947 e suscitarono immediatamente vasti consensi. Lo stesso Benedetto Croce scrisse sui "Quaderni della critica" una recensione nella quale esprimeva il massimo apprezzamento, contrapponendo inoltre la "grande apertura mentale" di Gramsci alle ristrettezze dogmatiche dei comunisti italiani.
Poi, per volontà di Palmiro Togliatti, cominciarono ad essere pubblicati i Quaderni dal carcere in sei volumi: Il materialismo storico e la filosofia di B. Croce; Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura; Il Risorgimento; Note sul Machiavelli, la politica e lo Stato moderno; Letteratura e vita nazionale; Passato e presente.
L'ordine non era cronologico, ma tematico. Da essi sono stati ricavati anche lavori parziali, dei quali non facciamo l'elenco, se non citando l'essenziale La questione meridionale, ma chi fosse veramente interessato ad approfondire la conoscenza di Gramsci, non potrà evitare di confrontarsi con l'insieme dei Quaderni, i quali costituiscono un'imponente riflessione sulla storia del nostro paese e indicano la via di un suo faticoso e necessario rinnovamento, seppure in una prospettiva di parte: quella dei lavoratori e della causa del socialismo. Attualmente è disponibile una versione curata da Valentino Gerratana ed edita nel 1975, che rispetta l'ordine cronologico.
In genere si è soliti ridurre l'interesse schiettamente filosofico dei Quaderni al primo volume. Ciò non è del tutto fondato, anche se è nel primo quaderno che incontriamo la definizione del materialismo storico ed il confronto-superamento attuato nei confronti della filosofia di Croce, cioè l'essenziale di ciò che costituisce il momento determinante della trasformazione del filosofo contemplativo in rivoluzionario attivo.
In tale senso è opportuno richiamare il giudizio di Norberto Bobbio: «Ciò che fece dell'opera di Gramsci un'opera formativa e non solo parenetica o immediatamente politica, fu l'essere non tanto una teoria del marxismo, un'esercitazione filosofica per filosofi, anche se Gramsci si servì di Marx riappreso attraverso Lenin per fare i propri conti con l'idealismo crociano, quanto un'utilizzazione e una verifica del metodo marxiano, fatte allo scopo di dare un'interpretazione di alcuni punti nodali dello sviluppo della società italiana dal Rinascimento al fascismo, e di elaborare alcune categorie analitiche per lo studio della società e della politica che sarebbero dovute servire come schemi di comprensione storica ben al di là dei campi in cui egli stesso le aveva applicate, come "classi subalterne", "blocco storico", "egemonia e dittatura", "società civile e società politica", "società regolata", "volontà colletiva", "catarsi", "riforma morale e culturale", "letteratura nazionale-popolare", "intellettuali organici", "puri", "tradizionali", "organizzazione della cultura".
Con Gramsci il marxismo come filosofia passò da un momento meramente didascalico (essenzialmente dottrinario, anche in Labriola) a quello dell'analisi e della ricerca sul vivo. Ma quel che è più, il marxismo fu per Gramsci non soltanto un metodo ma una Weltanschauung, una concezione del mondo che aveva iniziato "intellettualmente un'età storica che durerà probabilmente dei secoli, cioè fino alla sparizione della Società politica e dell'avvento della Società regolata."» (1)
In sostanza, da storicista, Gramsci pensava che anche il marxismo fosse un fatto storico e non una filosofia perenne, e soprattutto fosse un'ideologia, anche se l'ultima ideologia possibile, cioè quella che avrebbe messo fine a tutte le ideologie. Ancora secondo Bobbio, tale visione del mondo non avrebbe non potuto suscitare uno stimolo su intellettuali ammaliati dal miraggio di un mondo migliore.
La nuova sintesi che Gramsci era venuto elaborando poggiava dunque sulla trasformazione della teoria in prassi, sull'esigenza di una nuova cultura capace di trasformare la scienza in azione e su una riforma morale ed intellettuale possibile solo attraverso la rivoluzione.
Di tutto questo lavorio, Bobbio segnala uno dei passaggi più significativi del primo Quaderno: «La filosofia della prassi è il coronamento di tutto questo movimento di riforma intellettuale e morale, dialettizzato nel contrasto tra cultura popolare e alta cultura. Corrisponde al nesso Riforma protestante più Rivoluzione francese: è una filosofia che è anche una politica e una politica che è anche una filosofia.» (2)
Ciò significa, ci permettiamo di andare un passo oltre Bobbio, non solo il superamento di una concezione della filosofia d'elite ristretta agli intellettuali ed il buon senso popolare e comune, che comunque rispecchia lo stato di soggezione delle classi inferiori, ma la costruzione quotidiana di una cultura che sia prassi rivoluzionaria in quanto rende protagonisti della propria formazione intellettuale i lavoratori stessi, i quali trovano nel partito non solo uno strumento ed un momento di organizzazione, ma ne fanno anche l'organo privilegiato nell'elaborazione di tale nuova cultura, alternativa a quella dei mondi separati del passato, ma erede di essa in quanto a contenuti e conoscenze. In Gramsci era insomma chiaro che il proletariato doveva educarsi alle fonte del pensiero, creando al contempo un nuovo pensiero.
In rapporto a Croce, che Gramsci considera come l'esponente emblematico della coscienza che hanno di se le classi dominanti ed intellettuali dell'Italia allo stesso modo in cui Hegel era stato il filosofo della coscienza germanica nell'Ottocento, la filosofia della prassi si pone come continuità-rovesciamento. Gramsci incita gli intellettuali di elaborare una prassi filosofica e una filosofia pratica alternativa a quella crociana. «Una filosofia della prassi non può che presentarsi inizialmente in atteggiamento polemico e critico, come superamento di un modo di pensare precedente e del concreto pensare esistente (o mondo culturale esistente).» (3)
Interagendo, persino integrandosi, col movimento dei lavoratori, si viene così formando una coscienza comune, che non è la stessa cosa che in Marx veniva definita come coscienza portata alla classe dall'esterno, cioè dalla filosofia. La lotta di classe diventa così lotta per l'egemonia culturale: da un lato sta la vecchia cultura che ripropone le stantie divisioni tra le classi e dell'ognuno al suo posto. Dall'altro sta il movimento storico che rivendica la soppressione delle classi e lavora per il suo superamento.
«La comprensione critica di sé stessi avviene attraverso una lotta di "egemonie" politiche, di direzioni contrastanti, prima nel campo dell'etica, poi della politica per giungere a una elaborazione superiore della propria concezione del reale. La coscienza di essere parte di una determinata forza egemonica (cioè la coscienza politica) è la prima fase per una progressiva autocoscienza in cui teoria e pratica finalmente si unificano.» (4)
La visione della filosofia che Gramsci è venuto maturando è dunque debitrice, non solo a Croce, ma allo stesso Gentile, di una concezione come inveramento e superamento della filosofia stessa, sia nella storia come conoscenza assoluta (Croce), sia nell'atto (come prassi) in Gentile. Ciò è particolarmente evidente in questo cruciale passaggio del primo quaderno: «Fino alla filosofia classica tedesca, la filosofia fu concepita come attività ricettiva o al massimo ordinatrice, cioè fu concepita come conoscenza di un meccanismo obiettivo funzionante al di fuori dell'uomo. La filosofia classica tedesca introdusse il concetto di "creatività" del pensiero, ma in senso idealistico e speculativo. Pare che solo la filosofia della prassi abbia fatto fare un passo avanti al pensiero, sulla base della filosofia classica tedesca, evitando ogni tendenza al solipsismo, storicizzando il pensiero in quanto lo assume come concezione del mondo, come "buon senso" diffuso nel gran numero ( tale diffusione non sarebbe appunto pensabile senza la razionalità o storicità) e diffuso in modo tale da convertirsi in norma attiva di condotta.» (5)
Una continuità tra Gramsci, Croce e l'idealismo tedesco è pertanto ravvisabile nella polemica antinaturalistica della filosofia della prassi: l'uomo non è la sua natura, ma non è nemmeno il "suo" spirito, cioè lo spirito realizzato, ma il risultato di complessi rapporti sociali, economici e politici. Questo spiega anche il complesso rapporto che Gramsci sembra instaurare con le scienze della natura, cominciando col dire che, in generale, la scienza ha come centro d'interesse non un'astratta "oggettività del reale", ma «l'uomo che elabora i suoi metodi di ricerca, che rettifica continuamente i i suoi strumenti materiali che rafforzano gli organi sensori e gli strumenti logici (incluse le matematiche) di discriminazione e di accertamento, cioè la cultura, cioè la concezione del mondo, cioè il rapporto tra l'uomo e la realtà con la mediazione della tecnologia.» (6)
Ciò significa che i risultati della scienza possono essere gradualmente e progressivamente liberati dal sistema di ipotesi da cui sorgono. (6) Questo consente ad una classe sociale di "appropriarsi" della scienza elaborata dalla classe dominante ed in funzione della classe dominante, senza accettarne l'ideologia.
«Questo risultato viene raggiunto da Gramsci - scrive Badaloni - anche in polemica con Sorel. Tuttavia la concezione del nuovo senso comune elaborata da Gramsci riprende un tema che Sorel aveva sentito come costitutivo della concezione del mondo dei produttori. Anche Gramsci avverte l'esigenza di partire dalla capacità del senso comune di incorporare in sé la criticità. La sua concezione del senso comune parte dalla sua originaria disgregatezza.» (7)
Se fa parte, ancora, del senso comune una qualsiasi credenza del "magismo", ne fa, ora, altrettanto parte la necessità di appropriarsi della tecnica e della scienza che è in grado di spiegarla. Sicché Gramsci può scrivere: «L'insieme delle forze materiali di produzione è insieme una cristallizzazione di tutta la storia passata e la base della storia presente e avvenire, è un documento e insieme una forza attiva attuale di propulsione.» (8)
In questo capitolo non possiamo dilungarci oltre su questi aspetti, che sono oltremodo interessanti, e dobbiamo piuttosto procedere a tappe forzate per riassumere in breve gli aspetti salienti del pensiero gramsciano che influirono sulla cultura italiana del dopoguerra.
Critica a Croce
Benedetto Croce crede e si illude di fare della storia "pura" ed obiettiva. In realtà produce una ideologia, regalando a determinati gruppi politici e sociali "strumenti pratici di azione". Riferimento privilegiato è la borghesia conservatrice del meridione, pigra, sonnolenta, e speculativa. Non solo, l'antipositivismo di Croce, ha nuociuto alla vita civile italiana, in particolare al sistema educativo esagerando la contrapposizione tra cultura umanistica e cultura scientifica, a tutto danno della seconda.
Tuttavia, Gramsci riconosce esplicitamente che filosofia della prassi e storicismo crociano non sono incompatibili quando concordano nel rifiuto di una visione deterministica della storia. Qui Gramsci rigetta quindi una certa interpretazione di Marx (o anche lo stesso Marx che considerava invitabile il crollo del capitalismo) e ammette il problema del "consenso" e della sua costruzione, poiché il problema del governo e quello correlato dell'egemonia non può risolversi in una legittimazione fondata sulla costrizione e sullo stato poliziesco.
E' perciò merito di Croce (oltre che di Lenin... opinabile, ovviamente) se il concetto di egemonia è diventato centrale nella filosofia della prassi. Ciò riporta in primo piano la sovrastruttura, restituendole un ruolo di primo piano che il materialismo volgare aveva gettato nell'ombra. Leggere Marx obbliga il tornare a Hegel, attraverso Croce, obbliga quindi a fare i conti con l'indirizzo storicistico dell'idealismo, operazione molto simile a quella che " i primi teorici della filosofia della praxis hanno fatto per la concezione hegeliana."
Si può dire, pertanto, che Marx trasformò l'hegelismo in uno storicismo realistico, ripulendolo dal suo involucro metafisico-speculativo. Al marxismo italiano ora spetta di fare la stessa cosa con Croce. Gramsci riconosce allora che nel pensiero crociano si rivela uno storicismo assoluto radicato nel vivo dei problemi umani, ma che allo stesso tempo tale storicismo è rimasto al di qua, per così dire, del Rubicone, ovvero viziato da un'impostazione speculativa incapace di produrre una nuova praxis.
Croce è paragonato ad un papa laico, come scrivono Giovanni Fornero e Salvatore Tassinari: «... con la sua autorità influenza gli inetellettuali e l'alta cultura, ma che, diversamente dal papa, non ha voluto divenire guida spirituale delle classi popolari, precludendosi così la possibilità di farsi promotore di una riforma intellettuale e morale a carattere nazional-popolare, improntata a una visione del mondo laica e immanentistica.» (9)
Questi aspetti del pensiero di Gramsci sono particolarmente chiariti da Giulio Bedeschi: Gramsci vede in Croce una differenza fondamentale; egli ha posto l'accento sulla "dissoluzione del concetto di 'sistema' chiuso e definito e quindi pedantesco e astruso in filosofia..." Secondo Bedeschi, Gramsci aveva visto che in Croce «La sistematicità era ricercata ... non in un'esterna struttura architettonica, ma nell'intima coerenza e nella feconda comprensività di ogni soluzione particolare. Il pensiero non era quindi concepito da lui come "puro" autosvolgimento - da pensiero ad altro pensiero -, bensì come pensiero della realtà storica. In questa profonda adesione della filosofia crociana alla vita, al processo storico reale, così come nella lotta contro la trascendenza e la teologia, Gramsci scorgeva un preciso e fondamentale influsso esercitato su Croce dalla "filosofia della prassi" (secondo la definizione gramsciana del marxismo, mutuata da Antonio Labriola).» (10)
Critica a Gentile
L'opposizione di Gramsci a Gentile è marcata chiaramente, ma non è sviluppata a fondo. «Questa apparente opacità teorica non dipende dall'imbarazzo del dover ammettere il proprio debito con un pensatore che era divenuto un pilastro dell'apparato ideologico del regime fascista, e la cui filosofia costituiva la matrice coerente della sua adesione al fascismo: l'apertura mentale di Gramsci lo rende immune da simili reticenze. Ai suoi occhi sia Croce che Gentile svolgono nei riguardi della cultura italiana un ruolo negativo: se l'uno rappresenta la versione moderna del cosmopolitismo degli intellettuali italiani, l'altro ne testimonia l'aspetto propriamente corporativistico. Semmai, egli attribuisce ai due pensatori una diversa rilevanza: anche Gentile partecipa di un grande movimento europeo, ma non ha la medesima statura culturale di Croce e, nonostante la protezione del regime, non esercita una vera egemonia sugli intellettuali italiani.» (11)
Ciò nulla toglie al fatto che la concezione del marxismo presentata da Gentile abbia esercitato una certa impressione sul giovane Gramsci, non l'autore dei Quaderni, ma il polemico giornalista de L'Ordine Nuovo e il co-fondatore del partito comunista. Gramsci, tuttavia non può che rifiutare l'attualismo proprio per il motivo con cui accoglie parzialmente Croce: le idee non sono autosvolgimento del pensiero.
Inoltre, l'autore dei Quaderni ha maturato una concezione dello stato molto diversa da quella gentiliana. Essa muove dal fatto che lo stato non è mero momento di forza, "guardiano notturno" del capitale e del latifondo, anche se, in una brevissima nota che assomiglia ad una formula chimica leggiamo: «Stato = società politica + società civile, egemonia corazzata di coercizione.»
Sicché, una polemica con Gentile consiste proprio nell'accusare il filosofo siciliano di vedere la storia solo come storia dello stato, di non distinguere la società civile da quella politica, di non scorgere la differenza tra egemonia politica e culturale da governo politico-statale; di non mostrare la differenza tra forza e consenso, politica e morale, diritto e libertà. Emerge, insomma, proprio nella critica a Gentile, uno dei leit motiv della concezione gramsciana: le idee non sono mai il riflesso meccanico e deterministico della struttura sulla sovrastruttura. Esse, quindi, sia come distinto momento economico che come distinta sferadelle idee e della coscienza sociale, vanno sempre pensate come una totalità concreta, all'interno della quale il momento della prassi (gentilianamente l'atto del pensare e del fare) sgorga comunque dalla coscienza. Il che è come dire che Gramsci e Gentile, pur separati da una irriducibile contrapposizione filosofica e politica, finiscono quasi per dire la stessa cosa. L'azione è il momento nel quale si manifesta la coscienza. Così: «La prassi, anziché fatto deterministico, diviene atto di libertà, perché attraverso di essa, e attraverso le forme della coscienza che la sostengono e la definiscono, la concreta volontà umana riesce a piegare a sé la struttura, indirizzandola per i propri fini, sia pure i fini concretamente circoscritti dalla struttura e configurati entro una forma di coscienza determinata.» (12)
La critica del materialismo dialettico e del materialismo volgare
In un passo dedicato alla scienza della natura, Gramsci osservava: «... ciò che interessa la scienza... non è tanto l'oggettività del reale, ma l'uomo che elabora i suoi metodi di ricerca, che rettifica continuamente i suoi strumenti materiali che rafforzano gli organi sensori e gli strumenti logici (incluse le matematiche) di discriminazione e di accertamento, cioè la cultura, cioè la concezione del mondo, cioè il rapporto tra l'uomo e la realtà con la mediazione della tecnologia.» (13) In rapporto alle scienze, la posizione di Gramsci è sicuramente più vicina a Sorel che a Croce, nel senso che in Sorel vi una vera e propria epistemologia.
Il punto di partenza, nella filosofia della prassi, è l'appropriazione della scienza borghese e moderna da parte dei produttori. La scienza, in Sorel, viene presentata come una serie di imprese parallele. Alcune di esse sono ormai razionalizzate, come la meccanica; in altre prevalgono ancora momenti di incertezza. Tuttavia, secondo Sorel, se si osservano le scienze nella loro genesi, si troverà in esse lo stesso bisogno di produrre violente scissioni nel campo delle esperienze. «Esse, dapprima cariche di elementi espressivi, tendono poi a isolare gli enunciati in una loro autonoma razionalità che fa perdere il ricordo della genesi materiale. Ma questa è sempre presente, perché ogni scienza non è altro che la razionalizzazione scissa di una certa pratica. La storia della ragione è la storia della formazione degli strumenti (outils) che servono a determinare le separazioni. Come l'industria (cioè la natura artificiale) è il luogo reale della verifica delle leggi scientifiche, della loro esattezza e capacità di determinazione, che non sono ritrovabili in egual misura in natura, così anche la ragione è una sorta di seconda natura, di outillage mental, che si forma storicamente, attraverso le scissioni delle visioni totalizzanti.» (14)
Per Sorel, dunque, all'opposto che in Croce, la scomposizione-scissione, è un'operazione conoscitiva essenziale, e nel rapporto che si instaura tra natura artificiale e l'outillage mental, si giustifica anche la ricostruzione del senso comune arrichito o rivoluzionato dalla scienza. Su questa base, Gramsci elaborerà la sua idea di traducibilità e commensurabilità del linguaggi scientifici e tra essi ed il senso comune. Comunque, è un fatto che Sorel abbia dato un contributo originale ad una nuova teoria del senso comune, facendo di questo il luogo di formazione della mentalità dei produttori. In esso si viene chiarendo che la natura artificiale non è immobile, o soggetta a eterni ritorni, come la natura autentica. In questa nuova dinamica le teorie scientifiche sono inevitabilmente provvisorie, ma il carattere fuggevole delle ipotesi scientifiche sarebbe giustamente in evidenza solo di fronte alle ambizioni di una scienza che volesse giungere a cogliere le essenze eterne. I produttori, secondo Sorel, non hanno questo bisogno. A loro serve solo una solida base storica.
«Consapevolmente o no, attraverso Engels e Labriola, Sorel ha ripreso temi centrali del marxismo in una accezione che ha elementi comuni e differenti da quella leniniana. Mentre Lenin appoggia il suo realismo su una concezione della struttura oggettiva del mondo e su una approssimazione ad essa mediata dalla esperienza e dalla prassi, Sorel giunge alla oggettività passando prima attraverso l'esperienza e la prassi, cioè attraverso la costruzione artificiale. Sono in gioco gli stessi elementi, ma in ordine inverso. Anche in questo caso si direbbe che, rispetto a Engels, Sorel abbia scomposto l'ordine della dialettica della natura, separando i due elementi della oggettività e della storia sperimentale dei concetti, per prospettare infine la loro ricomposizione, ma attribuendo la precedenza all'ordine storico che, per quanto riguarda la scienza, significa attribuire rilievo all'autonomia dell'ipotesi. Lenin segue il cammino inverso. Egli accentua il momento dell'oggettività dell'esperienza sensibile, per giungere poi alla teoria delle ipotesi...» (15)
Gramsci accolse alcune indicazioni soreliane, riportando la tematica della scissione e dell'outillage nell'alveo dell'originale discorso di Marx sull'arrichimento delle facoltà umane. Il nuovo possibile "senso comune" era per Gramsci la facoltà umana, la quale può essere sviluppata soprattutto attraverso il rovesciamento da una situazione di cooperazione forzata ad un'altra di cooperazione libera. Su questa via, però, Gramsci non pretese di raggiungere con metodi extrascientifici un'idea di oggettività extrastorica, o addirittura extraumana: «noi - scriveva - conosciamo la realtà solo in rapporto all'uomo e siccome l'uomo è il divenire storico anche la conoscenza e la realtà sono un divenire.» (16)
C'è quindi una notevole differenza tra Gramsci e il Materialismo ed empiriocriticismo di Lenin, un'opera nella quale la tesi fondamentale è centrata sull'esistente al di fuori e indipendentemente da noi. Ma il punto più rimarchevole sta nell'opposizione gramsciana all'ipotesi di Engels sulla dialettica della natura: «E' certo che in Engels (Antidühring) si trovano molti spunti che possono portare alle deviazioni del Saggio. Si dimentica che Engels, nonostante che vi abbia lavorato a lungo, ha lasciato scarsi materiali sull'opera promessa per dimostrare la dialettica legge cosmica e si esagera nell'affermare l'identità di pensiero tra i due fondatori della filosofia della praxis.» (17)
Se la critica al materialismo dialettico è solo accennata, quella al materialismo volgare fu sviluppata con maggior dovizia di dettagli e proprio partendo dalla dialettica concreta, storica, e persino dall'accettazione di uno dei fondamentali principi engelsiani, quello della conversione della "quantità in qualità" e viceversa.
Nei Quaderni, Gramsci attaccò duramente il saggio di Nicholaj Bucharin La teoria del materialismo storico. Manuale popolare di sociologia marxista, edito a Mosca nel 1921, accusandolo di mancare di "una trattazione qualsiasi della dialettica". Bucharin, secondo Gramsci, intendeva il materialismo storico come scisso in due tronconi: da un lato teoria della storia e della lotta politica intesi come sociologia e da affrontare con il metodo delle scienze naturali, dall'altro la filosofia propriamente detta, orientata ad un materialismo meccanico e volgare, con tratti quasi inspiegabili di metafisica.
Il limite di Bucharin, secondo Gramsci stava nel fatto che egli non volle mettersi contro il senso comune, l'uomo medio. Così poteva commentare: «L'ambiente ineducato e rozzo ha dominato l'educatore, il volgare senso comune si è imposto alla scienza e non viceversa; se l'ambiente è l'educatore, esso deve essere educato a sua volta, ma il Saggio non capisce questa dialettica rivoluzionaria.» (18)
Così commenta Giovanni Fornero: «Con il suo modo di procedere, lo studioso russo, non si sarebbe quindi accorto che, scissa dalla teoria e dalla politica, la dialettica diviene una sottospecie di logica formale (o di scolastica dogmatica) e la filosofia una sorta di metafisica. Invece, ribatte Gramsci, fra le grandi conquiste del marxismo vi è la conoscenza della dialettica come "dottrina della conoscenza e sostanza midollare della storiografia e della scienza della politica" e l'identificazione della filosofia con la storia (e con la politica). Infatti, posta l'equazione storicistica fra natura umana e storia, la filosofia non può fare a meno di identificarsi con una "metodologia generale della storia", ossia, nella prospettiva gramsciana, che non va confusa con quella crociana, con una dottrina che è metodo e "Weltanschauung" contemporaneamente.» (19)
(continua)
(1) N. Bobbio - Profilo ideologico del Novecento - Garzanti 1990 / la citazione di Gramsci in Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce - Einaudi 1948
(2) A. Gramsci - Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce - Einaudi 1948
(3) A Gramsci, ivi
(4) ivi
(5) ivi
(6) si veda in proposito N. Badaloni - Il marxismo di Gramsci / Dal mito alla ricomposizione politica - Einaudi 1975
(7) N. Badaloni - Il marxismo di Gramsci / Dal mito alla ricomposizione politica - Einaudi 1975
(8) A. Gramsci - Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce - Einaudi 1948
(9) Giovanni Fornero / Salvatore Tassinari - Le filosofie del Novecento - Bruno Mondadori 2002
(10) G. Bedeschi - Il marxismo - in A. Bausola, G. Bedeschi, M. Dal Pra, E. Garin, M. Pera, V. Verra - La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi - Laterza 1985
(11) Giovanni Fornero / Salvatore Tassinari - Le filosofie del Novecento - Bruno Mondadori 2002
(12) ivi
(13) A. Gramsci - Quaderni (1557)
(14) N. Badaloni - Il marxismo di Gramsci / Dal mito alla ricomposizione politica - Einaudi 1975
(15) ivi,
(16) A. Gramsci - La teoria del materialismo storico. Manuale popolare di sociologia marxista
(17) ivi. Il Saggio a cui Gramsci si riferiva era, come chiarito sotto La teoria del materialismo storico. Manuale popolare di sociologia marxista di Nicholaj Bucharin.
(18) ivi,
(19) G. Fornero - Storia della filosofia di Nicola Abbagnano / La filosofia contemporanea I/ TEA 1996
moses - 29 gennaio 2006