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Gentile: la pedagogia dell'atto e la riforma fascista della scuola
Ci si può legittimamente chiedere come sia stato possibile che di fronte ai fermenti internazionali nel mondo educativo e nelle impostazioni pedagogiche, agli arditi esperimenti che si conducevano non solo in Germania e negli Stati Uniti, ma anche in Francia e nella vicina Svizzera, vera fucina di pedagogisti, tra la fine dell'Ottocento ed i primi del Novecento, in Italia si sia imposto un modello educativo che di nulla risentiva, se non dalla cacciata del positivismo anche dalle strutture scolastiche. La risposta potrebbe condurci molto lontano nell'analisi, ma un primo e immediato livello di approccio consente di dire: Gentile vinse la sua battaglia, e le conseguenze furono quelle che più o meno conosciamo, la riforma fascista della scuola, che fu riforma gentiliana in tutto e per tutto, ma che Benito Mussolini definì la "più fascista delle riforme".
Essa passò tra molti consensi, compresi quelli di oppositori al regime e di quelli che lo diventeranno a breve. Ma anche tra qualche dissenso interno allo stesso partito fascista, per non parlare dei cattolici. Non ebbe nemmeno vita lunghissima, perché abbondantemente ritoccata da Bottai, un interessante tipo di intellettuale fascista, alla fine degli anni Trenta. Però è vero che le strutture fondamentali della scuola progettata da Gentile sopravvissero anche nel dopoguerra. Il progetto gentiliano passò anche perché non aveva alternative e molti erano d'accordo nel ritenere che la scuola italiana fosse in crisi totale non nonostante il positivismo, ma per colpa del positivismo. Un'analisi che a noi pare assurda, e storicamente falsa, ma che allora era condivisa.
In realtà, il positivismo italiano aveva detto qualcosa di importante anche sul piano pedagogico. Perché? Perché i positivisti avevano individuato nell'educazione un campo privilegiato di emancipazione intellettuale. Perché riuscirono a contrastare l'egemonia cattolica nella scuola. Perché seppero trasmettere attraverso alcune figure, non solo il filosofo Roberto Ardigò, ma soprattutto Aristide Gabelli (1830-1891), poi Andrea Angiulli (1837-1890) e Pietro Siciliani (1835-1885) alcune proposte sensate di rinnovamento al passo con i tempi. Per Gabelli era importante che l'educazione sapesse formare cittadini consapevoli, capaci ed autonomi, quindi contestò l'educazione gesuitica fondata sui dogmi e sull'accettazione passiva dell'autorità e si battè per una scuola moderna capace di insegnare ad usare, come lo chiamava lui, "lo strumento testa". Sostenne che la scuola veramente formativa non parte dalle astrazioni e dalla grammatica, ma sollecita l'attività e lo spirito di osservazione. L'insegnamento è produttivo se muove da ciò che è noto e consueto al bambino, se quindi muove dal suo ambiente. Notevole è la critica al formalismo retorico. Tuttavia, Gabelli non seppe andar oltre i limiti della cultura positivista stessa ed affermò comunque la necessità dell'insegnamento religioso, per quanto ridotto all'apprendimento della morale evangelica. Più deciso era stato il progetto di educazione al progresso formulato da Angiulli, convinto che l'evoluzione storica seguisse a quella biologica. Secondo Angiulli era naturale che si introducesse un momento di educazione scientifica proprio per far fronte alle esigenze di progresso. Si battè per una scuola statale, laica e obbligatoria e fu ugualmente critico nei confronti dell'impostazione umanistica tradizionale. Ancora più importante, quantomeno sul piano teorico, appare oggi il contributo di Pietro Siciliani, che insegnò all'Università di Bologna e scrisse due opere importanti quali Rivoluzione e pedagogia moderna, e La scienza dell'educazione. (1) Ma risalendo ancora nel tempo, nel pieno Ottocento, importanti figure innovative furono indubbiamente il cattolico liberaleggiante Raffaello Lambruschini e il nobile fiorentino Gino Capponi che nel Ragguaglio sulla scuola del padre Girard a Friburgo, diede ampio resoconto di quanto stava accadendo nelle scuole elvetiche, dando un giudizio particolarmente positivo del metodo di Girard, capace di essere una specie di guida alla ragione attraverso l'analisi del discorso: nel momento in cui insegnava a parlare, infatti, insegnava anche a pensare. Nei Pensieri sull'educazione, Gino Capponi aveva lucidamente chiarito, poi, che il problema educativo non è risolvibile in un rapporto bipolare educatore-educando, ma è un problema di ambiente culturale: l'educazione è un processo reale "indiretto" dove la cultura che agisce sugli allievi non è riducibile né all'ambiente domestico, che ha la sua decisiva importanza, né all'ambiente scolastico, ma va vista nella sua dinamica sociale. Fu una delle diagnosi più lucide perché il problema rimase lo stesso anche successivamente. Puoi mettere al lavoro anche i migliori maestri, ma in un ambiente socialmente degradato che cosa puoi sperare di ottenere? E' da notare che Gentile scrisse un saggio proprio su Capponi.
Una citazione tratta da Gabelli può aiutare a comprendere cosa fossero le scuole del Regno d'Italia: «Ora le nostre scuole elementari, non tutte beninteso, lo ripeto, ma la maggior parte, somigliano un poco a officine, nelle quali si insegnasse più a dire come una cosa si faccia, che non a farla. Non è già che non vi si lavori; tutt'altro;bensì vi si fa un lavoro in parte improduttivo, di nomi, di parole, che l'alunno ripete a memoria, che hanno l'aria lusinghiera di cognizioni per il maestro che le ha insegnate, e forse anche per talun altro che lo ascolta, ma che tali non sono per il bambino, perché egli non si rende conto del loro valore, non le intende, non sa porle in pratica. Vi si ragiona troppo e troppo prematuramente; vi si fanno troppe distinzioni e troppe definizioni; si resta nel vago, e l'alunno si appiglia a quel tanto che può fare, a ripeter suoni. In conclusione, nei metodi apparisce manifesta l'eredità del nostro passato, la potenza delle nostre tenacissime tradizioni scolastiche e retoriche.» (2)
Per ultimare il quadro, bisogna inoltre ricordare che oltre alle teorizzazioni, si erano anche verificati momenti di innovazione sul piano pratico. Uno di questi non è iscrivibile tout court al positivismo, anche se risente di qualche influsso culturale. Probabilmente è inutile cercare di trovare la quintessenza del metodo di Rosa (1866-1951) e Carolina Agazzi nei libri della prima. Mancano di un vero retroterra teorico e denunciano vistosi limiti culturali. Ma è indubbio, grazie alle testimonianze ed alle ricostruzioni, che il nuovo asilo voluto da Rosa Agazzi sia andato ben oltre le impostazioni ottocentesche. Benché poverissimo di mezzi, la scuola materna di Mompiano, vicino a Brescia, a cominciare dal 1892, divenne un luogo in cui i bambini non sono più solo parcheggiati, o costretti a seguire in astratto il vecchio modello froebeliano, elevando così al quadrato la tradizionale frattura tra famiglia ed istituzione, ma un luogo in cui i fanciulli non sono più spaesati, ritrovando nell'asilo un quadro familiare. Il vero scopo dell'Agazzi era far sì che i bambini raggiungessero l'autosufficienza attraverso operazioni coscienti e motivate. Era tipico, ad esempio, che i bambini svuotassero le proprie tasche e venissero così alla luce tutti i materiali che le riempivano come tappi, corde,biglie, dolcetti, che diventavano immediatamente strumenti utili al gioco. L'asilo agazziano funzionava quindi anche come una casa di ricreazione, ma l'elemento centrale stava nel prepararsi al gioco stesso attraverso operazioni di riordino personale e collettivo. I fanciulli si spogliavano e si lavavano, riordinavano il proprio corredo, imparavano a tener pulita l'aula. La casa ideale, popolata da molti fratelli e sorelle, prendeva così vita nell'asilo attorno ad un principio di ordine autoresponsabilizzazione..
Ancora più rilevante fu l'esperienza condotta da Giuseppina Pizzigoni (1870-1947) nel quartiere della Ghisolfa a Milano. Lì sorse la scuola Rinnovata, organizzata secondo un modello che faceva riferimento alla New School inglese, alle Scuole del bosco tedesche, all'Ecole des Roches francese. Un modello che esclude l'apprendimento sedentario e libresco e privilegia la vita all'aperto. Secondo la Pizzigoni, lo scolaro deve rivivere la nozione acquisita attraverso il ricordo dell'esperienza sensibile. Solo così impara in modo duraturo. La nozione dei semi di basilico, ad esempio, diviene esperienza indelebile solo se lo scolaro, alla fine dell'estate raccoglie i semi, li semina e nella primavera successiva vede il basilico spuntare. E' un metodo, quello della Pizzigoni, che rifiuta la verbosità, l'apprendimento mnemonico ed astratto, e privilegia il momento concreto e sperimentale, in senso positivista. Per la verità, la scuola della Pizzigoni non fu esente dall'esaltazione di valori nazionalistici e dalla predicazione delle virtù dell'ordine e della disciplina, in modi anche autoritari. Ma il fatto che essa privilegiasse l'apprendimento sul campo dava comunque all'insegnamento una dimensione di concretezza altrimenti impossibile.
Le posizioni pedagogiche che Gentile maturò ignoravano questi aspetti ed insieme li confutavano. Gentile era insoddisfatto del sistema scolastico italiano e lo criticava, ma le ragioni della crisi scolastica andavano cercate, a suo avviso, proprio nel modello positivista, che per Gentile era meccanico, astratto, vuoto e mnemonico. Scambiava il modello positivista con la scuola concreta, che era tutt'altro, cioè un eredità della tradizione. Lo spirito, sosteneva Gentile è un continuo divenire e l'atto spirituale un rinnovamento. Lo spirito deve impadronirsi dell'oggettività, trascendere i limiti dell'io empirico (il cui formarsi e rafforzarsi è incoraggiato dal positivismo pedagogico) e divenire universale. E' per questo che il divenire della filosofia, che è tutt'uno con il divenire dello spirito, è atto pedagogico per eccellenza. Insegnare è insegnare lo spirito, apprendere è superare l'io empirico. Ciò conduce Gentile a contestare apertamente Herbart: la pedagogia non è una scienza particolare, non ha un proprio fondamento; è filosofia in atto, è vita della filosofia. In sostanza, con questo tipo di approccio, l'elemento centrale della pedagogia, cioè l'allievo considerato come organismo in crescita ed evoluzione finisce con lo sparire. E' solo più "spirito" da educare, o da risvegliare. Quella "cattiva" psicologia che pretende di stabilire le varie fasi dello sviluppo, scovare le attitudini e promuovere le capacità non porta ad alcun vero atto educativo, perché soggetto ed oggetto della pedagogia, secondo Gentile, stanno davanti l'uno all'altro come "due cose morte". Dove non c'è vita, non c'è pedagogia. Perché si dia un vero insegnamento ed un vero apprendimento, occorre che tra insegnante e discente si crei un'unità fondamentale, nella quale l'insegnante rinuncia ad essere un io empirico per diventare "spirito" e l'altro diventa "spirito" formandosi come spirito. Non c'è più opposizione, la quale scompare nel momento in cui l'insegnante si costituisce nella lezione come "vivente realtà dello spirito". Nell'atto educativo l'allievo si unisce al maestro fino ad identificarsi, non già con quel maestro, ma con lo spirito. Egli cerca così di appropriarsi del contenuto educativo vivente. Il maestro non ricorre ad artifici o "trucchi" per insegnare, non possiede "nozioni" o formule da trasmettere mnemonicamente da "morto" a "morto" inguaribilmente separati. Se vuole educare deve educarsi allo spirito e l'allievo, se vuole educare sé stesso diviene in un certo senso educatore del maestro. In tale prospettiva non esiste il metodo didattico, proprio perché non ha senso ricorrere a mezzucci per sussidiare l'atto educativo. O c'è o non c'è. E' la lezione stessa che realizza se stessa come metodo in quanto è un accadimento spirituale. Nemmeno esiste il "programma". Esso è continuamente mutevole, perché l'identica materia viene costantemente vivificata e spiritualizzata in modi diversi.
L'educazione è quindi per Gentile la processualità dello spirito, e il suo fondamento è l'autoeducazione. L'allievo è protagonista, va incontro allo spirito, diviene veramente adulto e libero nel momento in cui riesce a far propri i contenuti spirituali offerti dal maestro. In tale situazione, più immaginaria e idealizzata che, ovviamente reale, molte vecchie questioni vengono superate non perché risolte, ma perché dissolte. Non c'è problema di rapporto tra istruzione intellettuale e educazione morale perché sono tutt'uno. Un uomo che non accresce continuamente il proprio sapere spirituale non può formarsi un carattere morale. Analogamente non esiste un problema "disciplina": essa è dipendente dal modo in cui avviene l'atto educativo. E questo, secondo Gentile è una regola che vale per tutto il corso della vita umana, non solo nella fase formativa. Tuttavia, proprio la fase formativa si caratterizza per una sua specialità che anticipa tutte le successive evoluzioni dello spirito. Gentile non disegnò allora solo un modello ideale, ma scese anche in alcuni dettagli, cominciando col dire che l'arte, quindi la pura espressività incoraggia la soggettività, che la religione si presenta sempre come oggettività, e che la filosofia non può che essere sintesi dei due momenti. Chi non arriva alla filosofia, allora, non arriva alla spiritualità, ma perviene solo ad un io empirico che vivrà perenemente diviso tra espressione di sé e oggettività religiosa che lo nega. In tale visione assumono centrale importanza il leggere e lo scrivere, ed in una prima fase deve darsi molto rilievo più alla lingua parlata che alla grammatica. Bisogna anche guardarsi dal rischio della retorica e dalla precoce fossilizzazione dell'espressività nei luoghi comuni e delle frasi fatte. I bambini devono imparare ad esprimersi non già ricorrendo alla riproduzione di pensierini già belle e pronti da ripetere su temi ed argomenti dati (la famiglia, la patria ecc...) ma attraverso un momento creativo spontaneo, tipico dell'arte, che è appunto il diario o la notazione. Ciò, nonostante le differenze, avvicina Gentile alla pedagogia attiva. Essendo un tipo di pedagogia estetica, questo è sicuramente vero.
Altrettanta importanza ha il momento oggettivo dell'educazione, che per Gentile è essenzialmente religioso. Per guardarsi dal cadere nella catechistica, in una semplice imposizione di cosa non si deve fare e cosa si deve fare per sfuggire alla punizione divina, Gentile suggeriva di valorizzare la "poeticità" della religione. In posizione secondaria stanno le scienze naturali, in quanto anch'esse costituiscono un momento oggettivo, e come la religione corrono il rischio di essere insegnate in modo dogmatico. Pertanto è compito del maestro evitare che l'oggettività delle scienze decada a nozionismo, sapendo egli mostrare come si innestano nella vita dello spirito.
Nella visione gentiliana, la scuola elementare è scuola di spontaneità, la scuola media è scuola di umanità, nella quale solo il calore della spiritualità può decongelare il ghiaccio dell'oggettività delle materie, mentre l'Università diviene il vero momento della sintesi tra soggettività e oggettività. Essa è il luogo di nascita dell'intellettuale dirigente, un'idea che recupera l'immagine romantica dei filosofi di stato, portatori dello spirito.
Ovviamente, moltissime e profonde sono state le critiche a questo progetto educativo, in primo luogo centrate sul fatto che dietro all'apparente richiesta di protagonismo rivolta agli allievi si nascondeva uno schema autoritario celebrato attorno all'onnipotenza del maestro prima e del professore poi. L'atto educativo di Gentile, in sostanza, finiva con l'escludere alla partecipazione della sintesi tutti coloro che in vario modo opponevano la realtà del quotidiano alla vita dello spirito che proprio non riuscivano a trovare. Il modello gentiliano aveva così, sostanzialmente dei tratti non solo autoritaristici, ma totalitari perché non poteva che portare al riconoscimento dei valori fondamentali della propria vita quelli che coincidevano con quelli dominanti, cioè con la filosofia dello stesso Gentile.
Come vedremo successivamente, una simile impostazione, che privilegiava il momento laico perché metteva nelle mani dello stato tutto l'apparato educativo, in quanto per Gentile, vi è un'educazione di stato che coincide con la pedagogia dell'atto e dello spirito, sarà contestata dai cattolici, nonostante le generose aperture in materia di religione. Nell'ottica di Gentile, l'educazione religiosa, riservata ai soli bambini del livello elementare, viene progressivamente superata dall'educazione filosofica degli stadi superiori. Ma tale orientamento non poteva che scontrarsi con la cultura e la filosofia cattolica sia nel paese che all'interno dello stesso regime fascista.
Comunque sia, il progetto gentiliano prese finalmente corpo con il primo governo Mussolini e grazie all'attiva collaborazione del pedagogista Giuseppe Lombardo Radice, che venne nominato direttore generale per l'istruzione con Gentile ministro. Le scuole elementari erano già state statalizzate nel 1911, salvo quelle ospitate da municipalità in grado di sostenere la spesa. La riforma fu varata nel 1923. Stabiliva la durata della scuola elementare in cinque anni e riconobbe all'insegnamento religioso cattolico un ruolo centrale e primario. Fu anche introdotto l'esame di stato, come richiesto dai cattolici per mettere in condizione di parità gli studenti delle scuole private gestite da religiosi.
Venne abolita la vecchia scuola tecnica ed al suo posto venne introdotta la scuola complementare, un livello post-elementare riservato alla gran massa che non avrebbe mai proseguito gli studi. Rimasero il ginnasio-liceo e l'istituto tecnico, al quale era demandato il compito di formare i quadri intermedi e bassi dell'industria, dei commerci ed e del terziario. Il ginnasio-liceo era il vero fulcro dell'intera riforma al quale Gentile dedicò la massima importanza rappresentando questo il momento fondamentale dell'educazione, nel quale il giovane si appropria dell'oggetto, e nel farlo, coglie attivamente le espressioni dello spirito.
Venne abolita, dopo vent'anni di discussioni, la scuola Normale deputata a formare i maestri e sostituita con l'istituto magistrale. La differenza era significativa perché nella vecchia scuola avevano spazio materie come l'igiene e l'agronomia, mentre l'istituto magistrale si fondava sullo studio delle lettere, del latino, della pedagogia gentiliana e filosofica in generale e non prevedeva alcun tirocinio dei candidati maestri nelle scuole elementari. Anche qui prevalse dunque l'idea gentiliana che non esiste metodo in astratto e che esso è tutt'uno con la stessa educazione.
Il quadro complessivo fu dunque quello di una scuola selettiva e classista, ideologicamente orientata in senso conservatore e attualista, che non serviva nemmeno ad una società in via di sviluppo ed industrializzazione. Tuttavia, la riforma Gentile non si può considerare solo in chiave negativa. Essa produsse una nuova forza istituzionale ed amministrativa della scuola nel suo insieme, e non si può negare una sua interiore vitalità anche nei momenti più bui del regime. L'Università, ad esempio, conservò fino al 1935 una relativa autonomia, e solo sotto il ministro De Vecchi subì la violenta intromissione del potere politico. La scuola complementare venne presto soppressa e rimpiazzata dalla scuola di avviamento professionale per i ragazzi dagli 11 ai 14 anni. Solo nel 1938 vennero introdotte misure di discriminazione razziale contro gli ebrei, e mentre i ragazzi venivano allontanati dalla scuola pubblica, numerosi insegnanti dovettero lasciare il posto di lavoro. Nel complesso, la progressiva fascistizzazione dell'insegnamento e la militarizzazione della gioventù non sono direttamente imputabili a Gentile.
(1) Un quadro del positivismo pedagogico italiano è nei due volumi curati da D. Bertoni Iovine in collaborazione con R. Tosato: Positivismo pedagogico italiano - UTET, mentre di una certa utilità sembrano essere le monografie: A. Saloni - Educazione e scuola in Aristide Gabelli - Armando 1963; T. Tomasi - Scuola e società in Aristide Gabelli - La Nuova Italia 1965.
(2) A. Gabelli - Il metodo di insegnamento nelle scuole elementari d'Italia in Il problema del metodo della pedagogia positivistica - a cura di R. Tosato - R. A. D. A. R.