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Gentile: come e perché uno strano tipo di liberale diventò fascista
Scavando negli scritti e nei discorsi di Giovanni Gentile, ci si può imbattere in espressioni che legittimano l'aperta violazione delle regole della convivenza civile in uno stato di diritto. Si parla di "santo manganello", si osserva, in un discorso elettorale pronunciato a Palermo nel 1924, che "Ogni forza è morale, perché si rivolge sempre alla volontà: e qualunque sia l'argomento adoperato - dalla predica al manganello - la sua efficacia non può essere altra che quella che sollecita infine interiormente l'uomo e lo persuade a consentire. Quale debba esser poi la natura di questo argomento, se la predica o il manganello, non è materia di discussione astratta. Ogni educatore sa bene che i mezzi di agire sulla volontà debbono variare a seconda dei temperamenti e delle circostanze." (il testo si trova in Che cosa è il fascismo. Discorsi e polemiche - Vallecchi 1925)
Sono parole pesanti, parole che rimangono inequivocabili, anche in tempi di revisionismo storico. Seguendo Gentile fino alle estreme coneguenze, ci si potrebbe così trovare a "legittimare" la giustizia sommaria della squadra di partigiani comunisti che pose fine alla vita del filosofo il 15 aprile 1944. In fondo, il puro filosofo non aveva imparato la lezione e non poteva più impararla. Solo un atto estremo come la morte l'avrebbe finalmente messo di fronte ai suoi errori. Ma anche questo modo di pensare sarebbe aberrante. Giustiziare qualcuno senza processo è sempre vendetta e non giustizia. Poi potremmo osservare che l'unica violenza educativa che pare avere una qualche efficacia è la reclusione. Forse a Gentile avrebbe fatto bene un po' di lavoro pratico e forzato, non molto, solo qualche settimana, tanto per capire che differenza passa tra l'atto del pensiero e quello del braccio, la fatica di portare e spostare un peso reale, nonchè la differenza tra un peso reale ed un peso "ideale" immanente al pensiero stesso.
Sia chiaro che non vogliamo fare dello spirito di bassa lega, la riflessione ci è venuta per forza di cose. Se non pretendessimo di ricavare dalla riflessione storica una qualche lezione per il futuro, finiremmo per tradire lo stesso Gentile, la parte viva del suo stesso pensiero, che è comunque un capitolo importante della storia della filosofia italiana ed europea, anzi, costituisce un capitolo importante della storia tout-court.
Se si vuole cogliere in modo corretto la vicenda filosofica (e umana) di Giovanni Gentile, si deve prestare molta attenzione al tempo storico in cui tale vicenda si colloca, ai fermenti dell'Italia post-risorgimentale ed ai suoi enormi problemi, all'insufficienza dell'analisi politica socialista, come del resto di quella cattolica, al mancato decollo di una vera dottrina liberale capace di agganciarsi all'Europa più evoluta e civile, in grado, soprattutto, di promuovere e indirizzare uno sviluppo industriale e produttivo delle zone più arretrate del paese. In tale contesto, dopo il trauma della prima guerra mondiale, il paese era allo sfascio, ed il fascismo fu la risposta. Secondo Norberto Bobbio, le anime del fascismo furono due: una restauratrice ed una eversiva. La prima era la sola che avesse un grumo di razionalità impregnata da una visione conservatrice se non reazionaria. La seconda era pura dottrina dell'azione, surrogata nello slogan "credere, obbedire, combattere". In essa si riconoscevano quei fascisti che chiedevano una rivoluzione del "quinto stato", cioè una promozione degli sradicati, dei reduci, del sottoproletariato rancoroso e sordido. Gentile appartenne, ovviamente, alla prima corrente. Mussolini fu il grande mediatore, il timoniere capace di illudere i primi a parole, e accontentare più efficacemente i secondi con scelte politiche adeguate. Ma Giovanni Gentile non nacque fascista, fu piuttosto, per un certo periodo uno strano tipo di liberale, critico del liberalismo individualista ed antistatalista, che dovrebbe invece costituire l'anima di ogni autentico liberalismo, e poi fortemente orientato ai valori della conservazione e dello stato etico. Fu di fronte alla possibilità della guerra che egli cominciò a prendere posizioni interventiste e nazionaliste. Ad una celebre conferenza intitolata Filosofia della guerra Gentile affermò come primo dovere di ognuno quello di tacere umilmente dinnanzi alla "grandezza degli avvenimenti", "sentirsi compresi dalla solennità [...] religiosa di questa straordinaria giornata del mondo". Ad essa seguirono vari articoli sul "Resto del Carlino" e sul "Nuovo Giornale", raccolti poi nel volume Guerra e fede. Gli orrori della guerra non gli fecero cambiare idea. Di fronte al disordine successivo all'evento bellico egli compose un volumetto intitolato Dopo la vittoria. Nuovi frammenti politici nel quale asserì che si stava vivendo un tempo non di avventura ma di "ordine", ma "non dell'ordine che dev'essere stabilito dalla forza, ma di quell'ordine - tanto più efficace, quanto più sincero e moralmente sicuro - che deriva dal concorde volere di tutte le classi e di tutti i partiti, congiunti nel dovere sacro di instaurare nella sua pienezza il dominio del diritto in un regime di vera giustizia e di ampia libertà." La crisi morale di cui soffrivano l'Italia e gli italiani avrebbe potuto essere superata solo con l'imporsi di una nuova concezione dello stato, organo dell'interesse collettivo, al di sopra delle parti e dei partiti. Bisognava distinguere tra la falsa democrazia in cui il popolo si oppone allo stato e lotta contro di esso, e quella vera nella quale "il popolo è esso stesso lo stato". Sempre in Dopo la vittoria possiamo trovare: "Il liberalismo, almeno da cento anni a questa parte, è concezione dello Stato come libertà e della libertà come Stato: doppia equazione nella cui unità trova adeguata espressione il principio liberale. Né lo Stato esterno all'individuo, né l'individuo concepibile come astratta particolarità, fuori dall'immanente comunità etica dello Stato, in cui egli realizza la sua effettiva libertà."
Affermazioni di questo genere non sono possibili esclusivamente in un sistema di pensiero gentiliano o hegeliano. Si possono mettere in bocca ad un qualsiasi presidente della repubblica, ad un qualsiasi primo ministro, od anche ad un capo dell'opposizione, in momenti difficili. Han sempre fatto parte della retorica politica. Ed esse suonano sempre stonate quando il peso dello sforzo da "fare tutti insieme" ricade inevitabilmente sui più deboli, o su una solo parte. E' "l'armiamoci e partite!" dell'ironia popolare nei confronti della retorica fascista,ma che finisce col valere in ogni circostanza e nei confronti di qualsiasi predicatore di unità nazionali fondate sul sacrificio di una parte sola. Tuttavia, in Gentile, discorsi di questo genere avevano una ben più elevata origine filosofica e speculativa. Non nascevano dalle circostanze, non venivano da una lettura e da un'analisi del "momento". Forse, non costituivano nemmeno una proposta politica di larghe alleanze ed unità nazionale per affrontare le emergenze, ma il discorso, qui, andrebbe approfondito con gli strumenti dell'indagine storica. L'importante è capire che l'approccio gentiliano era determinato dal suo modo unico ed originale di concepire la filosofia. Un approccio che lo portò, paradossalmente a dichiarare il fascismo come l'erede del liberalismo risorgimentale, e perfino: "Il liberalismo come io l'intendo e come l'intendevano gli uomini della gloriosa Destra che guidò l'Italia del Risorgimento, il liberalismo della libertà nella legge e perciò nello Stato forte e nello Stato concepito come una realtà etica, non è oggi rappresentato in Italia dai liberali che sono più o meno contro di Lei, ma per l'appunto, da Lei." Per Lei, Gentile intendeva "Voi", cioè sua eccellenza il cavalier Benito Mussolini, al quale si rivolgeva nel 1923, al momento di ricevere la tessera del Partito Nazionale Fascista. Diventando fascista, pretendeva di continuare ad essere liberale, ambiva a trasformare il fascismo in liberalismo, a stabilire una continuità storica che invece si era spezzata, perché lo stato di diritto era finito, mentre il liberalismo storico si era battuto per instaurarlo. Ora è interessante vedere come Gentile arrivò a tanto. Per quanto possa sembrare paradossale, è solo comprendendo che nel sistema gentiliano, il duce e il fascismo non sono entità reali ed autonome, ma creazioni del pensiero puro in atto, atto del pensiero che interpreta lo spirito, immanenti allo spirito che pensa nel soggetto, si intende perché il puro filosofo non provasse alcun imbarazzo ed alcuna remora nel dichiararsi fascista. Dobbiamo quindi sforzarci di comprendere la filosofia di Gentile, vedere su che si regge e dove porta.
Giovanni Gentile nacque a Castelvetrano nel 1875. Si laureò con una tesi su Rosmini e Gioberti, due filosofi cattolici dell'Ottocento, che all'epoca venivano tradizionalmente opposti, specie da Bertrando Spaventa, maestro dell'idealismo italiano. Seguì un successivo lavoro intitolato Dal Genovesi al Galluppi in cui è interessante, al fine di comprendere come cominci a prendere forma la filosofia di Gentile, la caratterizzazione offerta di Pasquale Galluppi (1770-1846), un filosofo per il quale l'attività della filosofia muove da una verità originaria, ovvero l'intuizione dell'io conoscente. Secondo Gentile, Galluppi è importante in quanto ha saputo liquidare la scuola empiristico-sensista, privilegiando la coscienza come struttura gnoseologica. Questi primi passi gentiliani risentono profondamente degli insegnamenti di Spaventa, orientato a riformulare il pensiero hegeliano come pensiero soggettivo, per farne il fondamento gnoseologico del filosofare.
Nella tesi su Rosmini e Gioberti, Gentile aveva affermato che, una volta concluso, con la restaurazione, il tempo dell'egemonia della cultura francese e illuministica, era venuta formandosi in Italia una rinascita dello spiritualismo e dell'idealismo. Essa era indirizzata a promuovere il ritorno di una visione religiosa della vita che l'illuminismo aveva preteso di cancellare. In contrasto con lo stesso Spaventa, Gentile tese a valorizzare tale ritorno a suo parere storicamente necessario a debellare il sensismo e l'empirismo, quindi il positivismo. Ma, in tale ambito, Gentile non va confuso con gli eventuali epigoni di Metternich e De Maistre. Di fatto, egli continuava a considerare positivamente il liberalismo politico risorgimentale italiano, profondamente diverso da quello fondato sui principi del 1789, ma anche del tutto opposto alla reazione più forcaiola. Esso, secondo Gentile, ha avuto il merito di restituire all'Italia un'identità nazionale.
L'interpretazione della filosofia di Rosmini e Gioberti portò Gentile a identificare il primo con Kant ed il secondo con Hegel. Tale era infatti la natura del contrasto, che comunque annunciava una rinascita dell'idealismo, e nel quale si poteva anche vedere una convergenza tra l'Essere ideale di Rosmini e il primo ontologico di Gioberti. La filosofia di Gioberti, in effetti, era quella che maggiormente attraeva Gentile, giacché in questi era chiaro che l'essere reale è il pensiero e che "la realtà è realtà del pensiero".
Nel 1899 Gentile affrontò direttamente il problema del marxismo asserendo che la dottrina di Marx è una "filosofia", in particolare "una filosofia del soggetto". (1) Si tratta di scritti giovanili in cui però l'originalità teoretica è già marcata. Gentile riconosce a Marx il merito di aver rivendicato, il carattere attivo del rapporto tra soggetto ed oggetto, affermando anche che l'oggetto, cioè la realtà, non è un dato precostituito, che il soggetto dovrebbe limitarsi a conoscere, ma al contrario è un prodotto dell'attività umana stessa, quindi della praxis intesa come soggettività. Ovviamente, Gentile era indifferente al richiamo rivoluzionario del marxismo; ciò che lo intrigava era la decisiva differenza tra il materialismo attivo di Marx e tutti i materialismi precedenti. Questo materialismo storico non faceva che confermare la verità del vero idealismo, l'idealismo che afferma: fare e conoscere sono la stessa cosa, ovvero che "quando si conosce, si costruisce, si fa l'oggetto, e quando si fa o si costruisce un oggetto, lo si conosce; dunque l'oggetto è un prodotto del soggetto." Certo, nella "filosofia della prassi" di Marx, c'è una contraddizione palese: non si può conciliare l'idea della prassi con il mantenimento di una concezione materialistica. Il materialismo storico, infatti, riduce la praxis a mera attività sensibile, ovvero ad un concetto intrinsecamente contradditorio in quanto l'idea stessa di materialità conduce ad una passività dello Spirito. Pertanto, sostiene Gentile, "inverare" Marx significa liberare lo storicismo dal materialismo. E ciò impone una rinuncia all'idea stessa di una rivoluzione in quanto "... negazione della storia, un negar valore a ciò che la storia ha consacrato come naturale movimento e sviluppo della società umana; trattare i fatti storici come modificazioni accidentali - e quindi mutabili ad arbitrio - della natura, perennemente identica a se stessa."
Un primo giudizio, utile ad introdurre la figura di Gentile, a questo punto, viene da Norberto Bobbio: «... era un uomo intellettualmente vigoroso e moralmente generoso, fatto d'impeti e slanci ideali, ottimista sino all'ingenuità, con una vocazione profonda all'apostolato filosofico, intesa la filofia come fede nel vento dello Spirito che soffia in ogni cuore, una specie di religione laica che suscita proseliti entusiasti. Promotore e animatore di studi, il suo prestigio presso gli uomini di cultura della nuova generazione fu forse più circoscritto di quello di Croce, ma, là dove giungeva, più intenso.» (2)
Così tratteggiato il carattere dell'uomo e del filosofo, da un autore che non può alcun modo essere sospettato di simpatie gentiliane, ci è molto più agevole introdurci nel mondo di Giovanni Gentile. Croce lo criticò, si sa, perché il puro Filosofo, "incurioso delle cose piccole", tuttavia "da anni seduto al suo tavolino, rimirando il calamaio e domandandosi: questo calamaio è dentro di me o è fuori di me?" Una raffigurazione ironica che voleva colpire al cuore le caratteristiche "mistiche" del purus philosophus Giovanni Gentile. Comunque sia, i due strinsero una proficua alleanza e svilupparono anche una sincera amicizia, perché entrambi interessati a combattere il positivismo. Gentile collaborò con Croce alla redazione della rivista "La critica", che divenne efficace strumento per la diffusione dell'idealismo. In quel momento, Gentile sentiva con particolare intensità la questione dei rapporti tra filosofia e religione. Egli era convinto che la religiosità giocasse un ruolo indispensabile nel portare l'uomo dalla religione alla filosofia, e che lo stesso cattolicesimo, lungi dall'essere quello che i positivisti denunciavano come fattore di oscuramento delle coscienze, avesse una funzione formativa indispensabile. Era inevitabile che Gentile venisse a muovere una seria polemica nei confronti del modernismo cattolico. Proprio sulle pagine de "La critica", Gentile scrisse: «Il cattolicesimo liberatosi dai modernisti, rinverdirà anche una volta sul suo tronco secolare, mettendo nuove fronde, determinando sempre più rigidamente la coscienza della propria logica. La quale non può morire, perché Platone non muore; perché [...] ci saranno sempre anche troppi uomini ad aspettare la voce di Dio dall'alto del Sinai.» (3)
Sempre all'interno di tale visione va collocato l'intervento di Gentile al Congresso della Federazione nazionale degli insegnanti di scuola media nel 1907, nel quale affermò che la laicità della scuola non porta ad affermarne la neutralità, o l'indifferenza, e nemmeno la tolleranza per tutte le opinioni. La scuola pubblica deve essere gestita dallo Stato e libera da ingerenze confessionali. Tuttavia essa deve anche porgere agli allievi una "visione del mondo" unificante, fondata su valori spirituali, che sono poi l'essenza della religione cattolica. E aggiunse con chiarezza che solo laddove è impossibile l'insegnamento della filosofia, come appunto nella scuola elementare, diventa indispensabile l'insegnamento della religione. Tesi che incontrò l'ostilità della maggioranza degli insegnanti.
Bobbio sottolinea che Gentile condivise con Croce una concezione militante della filosofia e questo lo si può dedurre da quanto osservato finora. Attraverso alcuni suoi discepoli, che già cominciava ad avere, come Fazio-Allmayer e Guido De Ruggiero, Gentile «determinò un mutamento, se non d'indirizzo, di accento, nella "Voce", con un fascicolo dedicato alla filosofia italiana contemporanea (del dicembre 1912), in cui egli stesso scrisse pagine efficaci contro la filosofia libresca, già morta prima di essere nata, che si insegnava nelle scuole. Pochi mesi dopo, la stessa rivista ospitò un dibattito tra lui e Croce sull'idealismo attuale in cui Croce difese il principio della distinzione nell'unità, avendo intravisto nella filosofia dell'atto puro il pericolo di un ritorno ad uno sterile misticimo, mentre Gentile sospettava nelle distinzioni crociane una ricaduta in qualche forma di trascendenza e quindi un tradimento (involontario) dell'immanentismo assoluto.» (4)
Gentile aveva preso le distanze da Croce, del resto, rifiutando la distinzione tra conoscere ed agire, che gli pareva incompatibile con il principio idealistico dello Spirito, ammissibile solo da chi si trovasse ancora a posizioni che contrapponevano l'oggettivo al soggettivo. Ma tale contrapposizione era stata risolta proprio dall'idealismo. Teoria e prassi sono per Gentile un'unità dell'atto spirituale, che è il modo di porsi dell'io quale principio che non presuppone nient'altro e che tutto crea. Croce ravvisò in questa prima delineazione del pensiero gentiliano un fondo di irrazionalismo, un «irrazionalismo e attivismo vitalistico, del resto assai diffuso nella cultura italiana del primo Novecento, destinato a trovare più tardi nell'adesione di tanti intellettuali e dello stesso Gentile al fascismo, il suo fatale punto di approdo.» (5)
(1) gli scritti di Gentile sul marxismo sono due: Una critica del materialismo storico del 1997 e La filosofia della prassi del 1899
(2) Norberto Bobbio - Profilo ideologico del '900 - Garzanti 1990
(3) dall'articolo Il modernismo e l'enciclica Pascendi, ora in Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia - Sansoni 1962
(4) Norberto Bobbio - Profilo ideologico del '900 - Garzanti 1990
(5) Giovanni Fornero / Salvatore Tassinari - Le filosofie del Novecento - Bruno Mondadori 2002
moses - 10 gennaio 2005