Sono in questo terzo libro contenute materie
gravi, e di tale e tanta importanza, che
il più degli scrittori su queste sole hanno
disputato, quasi in esse l'intiera cognizione
della moneta si comprendesse: nel che se
da una parte sono degni di discolpa, dall'altra
certamente nol sono. Sembrano meritare scusa,
consideraudo che gli avvenimenti più calamitosi
e le operazioni più strepitose degli stati
tutte si possono dire originate dalla mutazion
del valore della moneta; ma per l'altra parte
le materie che nel primo e secondo libro
ho discorse, e quelle che nel quarto si tratteranno,
sono state tanto ignorate e lasciate in abbandono,
che non è in alcun modo da perdonarsi. E
pure tutto si concederebbe, se almeno questo,
che al valore s'appartiene, quanto è celebrato,
tanto fosse trattato accuratamente. Ma anzi
qui è maggior confusione, disordine ed errore.
Del che altra non può essere la cagione,
se non che gli uomini, quando hanno a ragionare
in quello ove l'interesse ed il guadagno
ha parte, si lasciano trasportar sempre o
da soverchio timore, o da disordinata avidità;
e siccome i decreti delle potestà sono quasi
sempre o da' consigli de' privati, o dalle
grida della moltitudine mossi o sospesi,
rare volte avviene che alla generale utilità
si possa aver mira e ragione. Né è picciola
lode per noi, che mentre tanti creduti più
savi sbagliano, e pagano degli sbagli le
pene, al nostro governo da moltissimo tempo
non si possa rimproverare statuto alcuno
sulle monete che abbia recato grave danno
con sé.
Ma per apportare ordine e lume in tanta oscurità,
è bene spiegare che sia questa proporzione
tra le monete: e prima giova premettere che
il valore intrinseco delle monete è diverso
un poco da quello del metallo, dovendosi
apporre la fattura,1 e talor anche il dritto
di signoria; e questo ascende fra noi a un
di presso al terzo del valor del rame, il
50mo dell'argento, il 400mo dell'oro; ma
siccome questa è una spesa fissa ed invariabile,
il variar della valuta della moneta intieramente
dipende dal variar del metallo, e con esso
è congiunto. Quindi è che tacendosi la fattura,
quando si parla del valor della moneta intrinseco,
s'intende sempre del metallo; a dimostrar
l'origine del quale l'intiero libro I è stato
consumato. Ciò spiegato, entriamo a parlar
della natura di questo valore.
Capo Primo
Della proporzione tra il valore de' tre metalli
usati per moneta
Di tanti e tanti errori onde è circondata
la nostra mente, e in mezzo a' quali perpetuamente
s'aggira, non ne resterebbero se non pochissimi,
quando fosse possibile, come è facile a dire,
il toglier quelli che provengono dalle voci
relative prese in senso assoluto. Se ciò
si potesse, questo terzo libro sarebbesi
tralasciato, perché tutto quello che sul
valore della moneta hanno scritto i dotti
e stabilito i principi, per lo più è stato
fatto senza avvedersi che valore è voce esprimente
relazione: quel che appresso si cercherà
dell'alzamento, se sia utile o no, non sarebbe
sì disordinatamente trattato, se si avesse
avuto in memoria che l'utile è relativo.
Sicché basta ch'io dica il valore esser relativo,
ed esprimere l'ugualità del bisogno d'una
cosa a quello d' un altra, e già s'intende
non essere stabilito e fisso il valore della
moneta dalle leggi o dalle costumanze, né
esser questo alle umane forze possibile:
perché a fissare una ragione bisogna tener
fermi ambidue i termini; e quindi a voler
fissare il prezzo della moneta, converrebbe
darlo stabilmente al grano, al vino, all'olio,
e a tutto in fine. Cosa impossibile. Come
dunque, chiederà taluno, si dice fisso il
valor della moneta? Ciò è detto abusivamente;
perché delle infinite, con cui si paragona
la moneta, con un'altra mercanzia sola sta
fissa la proporzione. Quest'altra è la stessa
moneta. Io ho detto che di più metalli sono
le monete: or fra un metallo e l'altro, acciocché
si misurino bene insieme, ha la legge posta
la proporzione del prezzo. Oltracciò fra
le monete dello stesso metallo si stabiliscono
i prezzi secondo la proporzione della materia
ch' esse contengono; e questa è più tosto
una manifestazione del conio, che una legge
di proporzione. Da questo abuso di parlare
n'è venuto l'altro, che quando la moneta
cambia proporzione col grano, p. e., non
si dice che la moneta sia incarita, o avvilita,
come la verità vorria che si dicesse; ma
si dice del grano: solo se il rame si varia
coll'argento, si dice alterarsi la moneta.
Or questa proporzione stabilita dall' autorità
della legge, senza potersi secondo i movimenti
naturali mutare, è stata in ogni tempo, ed
è, la fonte de' gravi mali che può avere
nell'intrinseco suo la moneta: anzi tutti
gli altri, quale è la falsificazione e il
tosamento, traggono la loro malignità da
questo, che mutano la naturale proporzione,
ma non quella che dalla legge è data. E 'l
male che si genera da una proporzione non
naturale del valore è questo. Essendo il
valore la proporzione tra il possedere una
cosa, o un'altra; quando esso si sta ne'
termini naturali, solo quella gente a cui
vien bisogno dell'una delle due, si dispone
a cambiarla coll'altra; il resto degli uomini
no: ma cambiandolo, forza è che una delle
due cose acquisti minor valore del giusto,
l'altra più. Dunque sarà vantaggioso anche
a chi non gli bisogna, dar l'una e prender
l'altra. Ecco nata una via di guadagnare
non dalla natura, ma dalla legge: ecco nato
un commercio, che tutti senza fatica, senza
talenti, fanno e possono fare. Dunque quella
cosa che è valutata meno del natural valore,
scarseggerà, sovrabbondando l'altra che se
l'è sostituita; né potrà, stante la forza
della legge, incarire e così equilibrarsi.
Or posto che tal cosa sia utile, noi resteremo
privi d'una cosa utile alla vita, e in questa
vita, essendo la felicità da' comodi originata,
questo è il male maggiore.
È generale questo effetto a tutte le cose
alle quali si fisserà il valore: ma a volerlo
applicare al denaro, si stabilisca che la
proporzione naturale tra l'oro e l'argento
oggi è, che chi possiede una libbra d'oro
è ugualmente ben provveduto di colui che
ne ha 15 in circa d'argento. Venga ora l'autorità
pubblica, e faccia 13 libhre d'argento eguali
ad una d'oro. Torna subito conto il pagare
in argento, mentre non più 15 libbre, ma
solo 13 se ne hanno a dare per soddisfare
il debito d'una d'oro. Torna in vantaggio
ritenersi l'oro, e mandandolo là ove ancora
si siegue a valutarlo per 15 libbre d'argento,
un uomo che avea 30 libbre d'argento di rendite,
e quindici di debito, fatta questa mutazione
ne avrà 17 d'entrata e 13 di debito: dunque
l'oro ha da sparire, e l'argento multiplicarsi.
Se questo stabilimento dura, tutto l'oro
anderà via: se, conoscendosi la perdita d'una
classe di moneta tanto necessaria, si abolisce
la legge, si proverà il danno dell' effetto
seguito. Perocché poniamo che, mentre la
disproporzione era in vigore, 100.000 once
d'oro siensi estratte e cambiate in argento;
saranno dunque entrate 1.300.000 once d'argento.
Se si volesse ripigliar l'oro, avrà questo
stato altre 100.000 once d'oro? No: perché
si dee ripigliare da' paesi ove le leggi
di chi l'ha perduto non giungono, e là l'oncia
ne vale 15 d'argento; sicché saranno rendute
sole 86.666; tutto il restante, che non è
poco, lo stato lo ha per sempre perduto ed
è andato in mano della gente più accorta.
Se questi sono stati stranieri ben si vede
qual pazzo dono e quanto considerabile s'è
fatto loro: se sono cittadini, solo uno sciocco
politico può dire che non vi sia stato danno.
Perocché è legge di natura che le ricchezze
abbiano ad essere ricompensa solo di chi
arreca utile o piacere altrui; e dovunque
si permette che uno spenda, perda qualche
suo guadagno senza trarne alcun piacere,
là non può essere ordine alcuno di governo
e di felicità. I dazi, i tributi, le mercedi
de' magistrati allora sono giuste, quando
sono ordinate ad accrescere la nostra quiete,
dando il sostentamento a quelle persone più
savie e virtuose, che sappiano mantenere
la pace e la regolata libertà. La tirannia
non è altro che quel cattivo ordine, in cui
acquista ricchezze colui che ad altri o non
è utile, o è pernicioso. È adunque tirannia
il fare che le ricchezze di chi si trovava
per caso pieno di moneta d'oro passino a
chi avea moneta d'argento, senza ragione
veruna. E chi volesse dire che lo stato intiero
non vi perde quando sono amendue cittadini,
si ricordi che di tutte le cose che distruggono
un paese, niuna lo fa più presto della tirannia.
Ora avendo manifestato quanto male sia nel
dare a' metalli una falsa proporzione di
valuta, non mi pare fuor di proposito, poiché
la materia mi vi tira, discorrere le ragioni
per cui niun popolo o regno è stato finora,
che non abbia voluta stabilire questa proporzione.
E prima cercherò s'egli è stato necessario;
e quando avrò dimostrato che no, cercherò
perché si sia fatto sempre.
A dimostrare che sia inutile lo stabilire
per legge tal proporzione nella moneta, non
meno che il prezzo degl'interessi, e de'
cambi, Gio. Locke ne' suoi trattati usa questo
argomento. Che quando la natura delle cose
la stabilisce, non vi si ha a framettere
la legge; perché o ella non si discosta dalla
natura, ed è inutile, o se ne discosta, ed
è ingiusta: e tutto quel ch'è ingiusto è
sempre dannoso ad ognuno. Ma un tale argomento
concepito in termini generali non è buono:
perocché, come qualunque uomo ben conosce,
essendo la legge giusta una confirmazione
della natura, ne seguirebbe che non si avessero
a porre leggi, non potendosi evitare che
non fussero o inutili o cattive: sicché si
ha da restringere questo a que' soli casi
in cui non può temersi violazione della natura;
come sono i prezzi de' contratti. La compra
e la vendita anche nello stato civile sono
in una piena e naturale libertà, come ogni
altra cosa che dipenda dal consentimento
di due: né può la legge prescriverci quel
che ci abbia da piacere, o bisognare, né
muoverci appetito d'acquistare, o svogliatezza
di possedere; e perciò quel consenso, ch'è
padre de' prezzi, essendo creato dalla natura
non l'ha da turbare la legge. Sono necessarie
le leggi in questi contratti solo per rendere
vero il consenso, allontanando le frodi e
gl'inganni, i quali falsando le idee rendono
falsa la stima ed il consenso.
E se noi considereremo i nostri costumi,
troveremo che sopra tre capi ne' contratti
di compra e vendita abbiamo fatte leggi;
sulla bontà, sulle misure, e sul prezzo delle
mercanzie: con questa diversità, che su'
due primi le leggi sono universali ad ogni
genere vendibile, l'esperimentiamo utili,
e non ce ne siamo mai trovati male: delle
leggi sul prezzo non così. Tanto è vero quel
ch'io ho di sopra detto. E se più particolarmente
esamineremo quali statuti abbiam fatto intorno
ai prezzi, troveremo quali sieno i buoni,
e quali no. Moltissimi generi ancbe de' più
necessari non hanno fra noi regolamento di
prezzo, come sono i frutti freschi e secchi,
l'erbe, le pelli e le suola, i carboni, le
legna, le tele, l'uova, ed infiniti altri:
né da questa mancanza nasce vacillamento
di prezzi, o monipolio, o aggravio; anzi
sebbene essi sieno talora generi non patrii,
e soggetti a grandi vicissitudini, si osserva
che mentre i paesi convicini con infinite
regole ne penuriano, noi senza tante regole
ne abbiamo competente provvis.ione. Alcune
altre merci poi, forse perché si credono
più utili, hanno un prezzo fisso, che con
voce normanna è detto assisa. Le utilità
di questa sono: I. D'appagare le stolide
menti della vilissima plebe, che con l'assisa
per lo più nuoce a sé medesima, come quella
che è la venditrice delle basse merci che
sono sottoposte all'assisa. II. Di dar sostentamento
a molti inferiori ufiziali, i quali lasciando
violare quest'assisa fanno sì che i generi
prendono un prezzo un poco più alto, ma tanto
costante e giusto, che niuno è che per aver
roba buona non si contenti tacenào sottoporvisi.
Onde si vede che quest'assisa non è di giovamento
alcuno alla società, tolti certi generi vilissimi,
consegrati al vitto della gente più meschina,
che meritano esser tenuti a basso prezzo.
E certamente quando i compratori sono più
ricchi de' venditori, la legge ha da favorire
il venditore, e non il compratore; perché
sempre il prezzo è più svantaggioso per chi
ha maggior desiderio di vendere essendo più
bisognoso. E se alcuno richiederà perché
i nostri nobili (in mano de' quali è l'amministrazione
di questa parte di governo) abbiano tanta
cura di far osservare l'assisa, poiché essa
è tanto molesta, e costringe anche l'onorate
persone a contravvenirle; io risponderò che
le opinioni antiche, e le grida della plebe,
anche negli animi ben formati, hanno forza
superiore a tutto; e tanto più che è la classe
de' compratori che impone le assise, e non
quella de' venditori.
Una terza spezie di prezzo abbiamo ancora,
che diciamo voce, che è prezzo fisso, ma
non forzoso. Usasi questa e nel grano, e
nel vino, e negli olii e nel cacio, ed in
quasi tutti i generi di prima necessità.
Non si può con parole esprimere l'utilità
e le comodità della voce. Essa serve di norma
a que' contratti ne' quali spontaneamente
due hanno convenuto di stare al prezzo della
voce: e così è mista la libertà di contrarre
alla necessità d'una regola fissa, e la forza
la fa la libera convenzione, non la legge
della voce. A questa istituzione noi dobbiamo
tutto il giro del nostro commercio, il quale
dovendosi fare quasi senza moneta, perché
di questa il Regno non è abbondante, senza
la voce non si potrebbe raggirare. E poiché
ella è cosa notissima, non mi dilungherò
in celebrarla: solo voglio raccomandare a
chi presiede la conservazione di così bella
ed utile costumanza, la quale si conserva
e si sostiene unicamente per la fede che
ha il popolo nella giustizia della voce,
e nella integrità ed intelligenza di coloro
che la danno. E se questa collo sbaglio di
pochi anni consecutivi (essendo la fede pubblica
più delicata di qualunque fumo a fuggire)
si perdesse, noi saremmo intieramente rovinati.
Ora volendo applicare alla moneta questa
varietà di stabilimenti, e conoscere quale
sarebbe per esserle più accomodato, io credo
che il lasciar la proporzione fra i metalli
affatto non definita, non sarebbe cosa utile;
imperocché essa si richiede: I. Per la facile
valu. tazione delle monete, de' cambi, de'
pagamenti, e d'ogni contratto che si faccia
col denaro. II. Perché non può dar fuori
la zecca moneta nuova senza darle prezzo;
e questo non può averlo regolato la moltitudine
sopra monete ch'ella non ha neppur viste.
III. È necessaria una dichiarazione legale
per que' contratti in cui non fosse spiegata
e convenuta. IV. A' giovani, alle vedove,
a' pupilli, per non esser preda degli accorti,
potria servire almeno di lume e di regola.
Queste ragioni sebbene non dimostrino la
necessità, mostrano la utilità; né l'esempio
de' Cinesi e di altre nazioni, che sono ripiene
ancora d'ordini di governo imperfetti ed
incommodi, distrugge ciò ch'io dico.
Ma per contrario, a voler dare una proporzione
fissa e forzosa, è da temer molto che se
questa si sbaglia non rovini lo stato. La
sproporzione è l'unico male grande, e d'effetto
subitaneo che ha la moneta. Il ritrattarsi
e l'emendarsi da quel che hanno le supreme
potestà stabilito, è cosa rara e lenta, e
o non si fa, o giunge inopportuna. Dunque
il miglior ordine è il terzo, quanto è a
dire il dare una proporzione fissa, ma non
forzosa, quasi in quel modo istesso che è
la voce, o per pigliare un esempio più somigliante,
che è il frutto degl'interessi, il quale
è stabilito in sul 4 per 100, ma non si vieta
ch'esso si faccia per convenzione o maggiore
o minore.
Questo dar prezzo di voce (siami lecito usar
questa espressione) alle monete tutte, anche
proprie, evita tutti i pericoli. La voce
non sarebbe altro che quel prezzo con cui
imprima esce la moneta dalla zecca; dopo
la quale uscita non si avrebbe a costringere
alcuno a stare a quell'istesso prezzo, ma
si dovrebbe trattar come mercanzia: e quando
egli avvenisse che il consenso comune si
difformasse dal prezzo della zecca, dovrebbe
questo uniformarsi a quello della moltitudine,
la quale quando è lasciata in libertà siegue
sempre il vero; e si sarebbe a tempo di farlo,
giacché la moneta non sarebbe uscita punto
dallo stato.
Né è da temere che il popolo mettesse ingiusto
il prezzo; mentre dovunque non può essere
monipolio, vi sarà sempre giustizia ed egualità.
E poiché la sola zecca è quella che dà fuori
tutta la moneta, e si può in certo modo dire
la sola venditrice della medesima; se essa
non dà un non giusto prezzo, il popolo non
lo potrà dare giammai: e perciò se sarà lasciato
in libertà d'ognuno il variarlo, se esso
era il vero, si conserverà, se non era, si
muterà nel vero: e quantunque si debba credere
che le zerche de' principi giusti regolate
da gente virtuosa non sieno per dar mai un
falso prezzo alla moneta, pure egli è da
aversi per certo che i pochi, qualunque studio
v'adoprino, possono sempre cadere in errore,
se non si lasciano condurre da' molti.
Né finalmente è degno d'uomini savi il riporre
una falsa idea di vergogna nel lasciarsi
regolare in opera così grande dal popolo.
È cosa più grande assai il prezzo del grano,
del vino, dell'olio, più grande quello delle
terre, delle case, degli affitti, degl'interessi
e de' cambi, e pure niuna legge ne è regola,
fuorché il consenso solo della gente. E veramente
come può esser vergogna il lasciar piena
libertà a coloro, il servire a' quali è il
fonte degli onori? I magistrati sono ministri
destinati alla felicità della moltitudine
ed alla conservazione della di lei libertà:
ed il principe istesso a questo impiego da
Dio è consegrato.
Volendo ora alcuno sapere perché tutti i
popoli contro questo, ch'io dico, hanno usato
porre con legge tale proporzione, io ritrovo
due esserne state le cagioni. L'una, e la
più forte è che gli uomini credono sempre
far bene col fare, e che non facendo s'abbia
a star male; né si troverà magistrato che
voglia pregiarsi di non aver fatto. E pure
il non fare non solo è cosa ripiena molte
volte di pregio e d'utilità; ma ella è in
oltre difficile molto, e faticosa assai più
che non pare ad eseguire. E se noi riguarderemo
che tutte le buone leggi che si possono sopra
qualche materia fare, si possono in un solo
colpo dare, ed in un foglio raccogliere,
conosceremo che quando è fatto tutto il buono,
e pure si vuole (non contentandosi di fare
eseguire il già fatto) seguitare ad ordinare,
è inevitabile guastare il buono e cominciare
il cattivo: ed ancorché non si facesse male,
il voler troppo minutamente ordinare le cose
è in sé grandissimo difetto: e n'è d'esempio
la Republica fiorentina, la quale (come è
la natura degli animi de' suoi cittadini)
volendosi sempre nelle minuzie piccolissime
perfezionare, non fu mai nelle grandi ordinata.
A questa ragione si hanno da attribuire in
grandissima parte i danni sulle monete della
Francia e di Roma, mentre queste corti più
d'ogni altra sono ripiene di magistrati e
di tribunali: il che l'una dee alla venalità
delle sue cariche, l'altra alla necessità
che ha di dar impiego a tanti che vengono
a servirla. Ed è per contrario degna di lode
e d'invidia la mia patria in questo, che
non è il suo commercio tormentato da compagnie,
monipòli, ius proibendi, ordini, e statuti,
che altrove si dicono police, e noi chiameremmo
aggravi; né su d'ogni piccola cura del governo
si edifica una magistratura. E noi soli con
esempio raro e glorioso abbiamo lasciata
la proporzione tra le monete d'argento e
quelle d'oro (che è la più importante) libera
in grandissima parte col più delle monete
straniere.
L'altra ragione per cui è fisso il prezzo
relativo de' metalli, è perché gli uomini
non danno medicina ai mali del corpo proprio,
e tanto meno a que' dello stato, se non arrecano
acerba puntura. Gran dolore non può darlo
la varietà della proporzione, perché essa
per secoli intieri non si muove sensibilmente,
come colla sua storia io dimostrerò.
Un grandissimo numero di critici è persuaso
aver da un passo d'Omero risaputa la proporzione
antichissima tra l'oro e il rame. Nell'Iliade
VI, narrandosi il combattimento tra Diomede
e Glauco, che vien seguito da lunghi discorsi,
e permutazione delle armi in segno d'amicizia,
dice Omero così:
Tum vero Glauco Saturnius mentem ademit Iuppiter,
Parqui cum Tydide Diomede arma permutavit,
Paraurea aereis, centum bobus aestimabillia
cum iis, Parquae novem aestimabantur
onde deducono che l'oro era al rame come
100 a 9: della qual conseguenza non s'è tirata
ancora al mondo la più falsa e la più assurda.
Se così fosse stato, dell'oro per la eccessiva
abbondanza si sariano fatte le mura e lastricate
le strade. Oggi, che abbiamo tanto oro, e
che di rame non abbiamo minore o maggior
quantità d'allora, la proporzione è in circa
come 1.100 a 1, ed allora sarebbe stata come
11 ad 1, quanto a dire cento volte maggior
quantità d'oro avrebbero avuta i Troiani.
Ridasi adunque di questa scoperta, e piangasi
nel tempo istesso che sieno caduti gli scrittori
più venerabili in mano agli umanisti, che
mentre ne hanno emendate le voci, ne hanno
mal intesi i sentimenti. Se non fosse alieno
dal mio proposito, io dimostrerei ora che
le armature erano ambedue di rame puro' e
che non per altro si dicono l'una di rame,
l'altra d'oro, che per esprimere la somma
differenza di bontà e di eccellenza che mettevale
fuori d'ogni proporzione: e questa frase
di dire ogni cosa nel suo genere eccellente
d'oro, è in tutte le lingue frequente ed
usitata.
Poiché dunque in Omero non rimane vestigio
dell'antica proporzione, il primo che ne
dica è Erodoto. Egli narrando le rendite
del re Dario dice imprima che i tributi d'argento
si pagavano in talenti babilonici, que' d'oro
in euboici; dice poi che gl'Indi, nazione
numerosissima, pagavano di tributo 360 talenti
d'oro raccolto ne' fiumi, o sia di polvere
d'oro: in fine per sapere tutte le rendite
di Dario a quanti talenti euboici ascendessero,
dice: "Aurum vero si terdecies multiplicatum
computetur ad argentum, ramentum reperitur
ad rationem Euboicam esse quatuor millia
talentorum sexcentaque, et octoginta."
È dunque chiaro che la proporzione era di
1 a 13.
Pare che questa poi fosse alquanto mutata
in Grecia a' tempi di Socrate, per quello
che da Platone si ha nel dialogo Dell'avidità
del guadagno. Ivi ragionando Socrate con
Ipparco, gli domanda, se un negoziante che
dà una mezza libbra d'oro, e ne guadagna
una intera d'argento, acquisti o perda? gli
risponde Ipparco: "Detrimentum equidem,
o Socrates; nam pro duodecuplo duplum tantummodo
recepit."
I Romani nel primo coniar l'oro fissarono
la proporzione di 1 a 15, dicendoci Plinio
"Aureus nummus post annum LXII percussus
est, quam argenteus, ita ut scrupulum valeret
sestertiis vicenis ". Or 20 sesterzi
sono eguali a 5 denari, ed è ognuno di questi
eguale alla dramma attica, la quale si compone
di tre scropoli. Ma di tale proporzione né
essi potettero esser certi, né noi ce ne
possiamo fidare. In tempi rozzi e oscuri
ove l'armi sole aveano pregio, e le rapine
distribuivano le ricchezze; non commercio,
non arti, non industrie, non la perizia del
governo, non la vicinanza delle nazioni dava
regola alcuna, chi sa con quanta accuratezza
fosse stato dato prezzo alla moneta d'oro
nuova, e mai più non veduta? Da questa proporzione
in fatti si variò, e ne' tempi degl'imperatori
fu di 1 a 12 1/2 costantemente, avendo l'aureo
pesato 2 denari, e valutine 25. Ma forse
che ciò derivò in parte dall'essere fatte
le monete di argento non molto scarse di
lega, e quelle d'oro per contrario purissime.
Nel basso Imperio la proporzione alzò, perché
l'India, e i barbari asciugarono l'oro di
molto. In una legge d'Arcadio e d'Onorio
si ha che una libbra d'argento corrispondeva
a 5 solidi d'oro. In un'altra degli stessi
imperatori ogni solido si valuta 20 libbre
di rame. In una terza, falsamente attribuita
ad Alessandro Severo, poiché ella è di Valentiniano
e Valente nel Codice Teodosiano, il solido
d'oro si riconosce essere la 72ma parte della
libbra, o sia la sesta d'un'oncia. Da queste
tre leggi comparate insieme si trova essere
stata la ragione dell'oro all'argento di
1 a 14 e 2/ 5: quella dell'oro al rame di
1 a 1.450, dell'argento al rame di 1 a 100.
Ne' secoli barbari divenne assai più raro
l'argento, e perciò la proporzione cambiò,
discendendo quasi al 10 per 100; ma in questo
stato restò pochissimo tempo; poiché nel
1356 Giovanni di Cabrospino, nunzio in Polonia,
presentò alla Camera romana un foglio, delle
monete correnti al suo tempo, nel quale si
legge ((Libra auri 96 florenis: libra argenti
puri, sive marcha, 8 florenis)): era dunque
la proporzione come 1 a 12. In questo termine
si mantenne sino alla scoperta dell'Indie
con piccolo vacillamento, e un secolo e più
dopo tale scoperta non era ancora di molto
cambiata. Poi da un secolo in qua è andata
crescendo tanto, ch'ella s'accosta oggi di
molto a quella di 1 a 15, la maggiore di
quante ne abbia accuratamente avute. Ho voluto
distendermi sopra ciò per dimostrare quanto
sia falso ciò che è da moltissimi creduto,
che lo scoprimento dell'Indie abbia mutata
questa proporzione, prima determinata ad
essere di 1 a 10: e si può vedere che fin
da antichissimi secoli ella è stata alle
volte quasi eguale alla presente.
Una tanta costanza ha fatto che difficilmente
siasi errato in definirla con legge, e ne'
tempi antichi lo sbagliarla non importava
di molto; perché essendo i popoli convicini
barbari, rozzi, e privi d'ogni commercio,
non poteano assorbir la buona moneta e render
la cattiva: e perciò quell'autorità che i
Romani ebbero sulle monete, non la può oggi
usare alcun principe, senza suo danno. Questo
ha fatto che io consigliassi tanta oculatezza
nel porre la proporzion tra le monete di
vario metallo; perché quelle d'uno metallo
basta farle di simile bontà, ed apprezzarle
secondo il peso. Entrerò ora a dire della
mutazione di proporzione in vari modi fatta;
poi dirò dell'alzamento, il quale altro non
è che un mutare l'idea antica di qualche
suono di voce, facendo, per esempio, che
si chiami ducato non più un'oncia, un trappeso,
e 15 acini d'argento, ma 492 1/2 acini d'argento:
e siccome si mutano nel tempo stesso anche
le idee de' nomi delle monete d'oro, così
non s'induce tra loro sproporzione, ma solo
col rame e colle monete immaginarie usate
al conto, che è quanto dire co' prezzi delle
merci. La grandezza e la varietà degli argomenti
non mi lasceranno esser breve, quantunque
io sia per essere il più che potrò stretto
nel dire e conciso.
Capo Secondo
Della non giusta proporzione di valuta tra
le monete d'un metallo e quelle d'un altro,
e tra le monete d'uno stesso
Tutte le mutazioni che può ricevere in qualunque
modo la valuta delle monete, sono o d'una
parte di essa riguardo all'altra, o di tutta
la moneta riguardo al suo antico stato ed
a quello de' governi convicini. Le mutazioni
d'una parte di moneta sono o di tutto un
metallo rispetto all'altro, o tra due spezie
d'uno stesso metallo. Fannosi queste mutazioni
in sei modi: o per la natura delle cose,
quando avviene escavazione di nuove miniere,
mutazione di costumi o di lusso; o per naturale
struggimento; o colla liga; o con diminuire
il peso; o con tosarle; o finalmente coll'autorità
d'una legge. Io lascerò qui di ragionare
della mutazione dell'intera moneta, la quale
io chiamo per distinzione alzamento, dovendone
dire nel seguente capo; e mi restringerò
a dire del mutarsi d'una parte. E perché
questa contiene in sé il mutarsi la proporziong,
sotto questo nome sarà sempre da me dinotata;
ed anderò nel ritessere quest' orditura disputando
come essa avvenga, quale utilità, quale danno
abbia in sé, e come, quando è avvenuta, si
possa medicare.
Dico adunque che la mutazione che per natura
accade, non può essere che tra un metallo
e l'altro; né può seguire se non dove è fissa
una proporzione dalle leggi: ed essendo un'istessa
cosa la mutazione che la natura opera contro
alla legge, che quella della legge contro
la natura, appresso insieme di ambedue tratterò.
Qui solo voglio dire essere questa mutazione
lentissima e quasi insensibile, essendosi
per esperienza conosciuto come essa è restata
più di mille anni in sul medesimo stato,
con piccolissimo variamento.
A questo che della natura dico, convien congiungere
lo struggimento, il quale per essere naturale
al metallo è superiore ad ogni umano rimedio;
e sebbene sia vero ch'egli siegua con lenti
passi, e non produca spavento ne' popoli
(come quelli che guardano più all'ingrosso
ove non hanno sospetto di frode), pure quando
cresce assai, è necessario si medichi e si
corregga. A questo fine appunto molti scrittori
propongono le monete d'argento e rame, e
molti governi sono che per questo le usano
e le prezzano: e poiché io ho di sopra disprezzata
questa medicina, voglio qui renderne la ragione.
In primo luogo è da avvertire che le monete
d'uno stato sono tutte disegualmente consumate
non solo per la varia antichità loro, ma
per la varia grandezza; e sempre le più piccole
si consumano più per due cause: I. Perché
si usano e maneggiano più, mentre la moneta
piccola esprime i prezzi piccoli e i grandi;
la grossa esprime i grandi, ma non i piccoli;
II. Perché le monete vagliono secondo quel
che pesano, consumansi secondo quella superficie
che hanno. Io ho scoverto essere il grado
del consumo per riguardo alla solidità tra'
corpi simili (come sono quasi le monete)
in ragion reciproca de' lati omologi: dunque
una moneta che abbia doppio diametro d'un'altra,
perderà col consumo in tempi uguali la metà
meno di metallo relativamente, che non ne
perde la minore. Da ciò è nato che le sole
monete piccole, ove il male è maggiore, si
sono fatte di billon, con persuasione che
questa fosse grandissima utilità. Ma a volere
col computo, vero padre della verità, conoscere
esattamente quanto sia questo utile, io considero
in 1 che le monete nostre più piccole, quali
sono il carlino, le 12 e le 13 grana, sonosi
consumate dal 1686 e dal 1688 in qua, l'une
d'un 7 in 8 per 100, le altre d'un 5 in 6.
Onde è che chi dicesse che tutte in cinquanta
anni si sieno strutte d'un 5 per 100, dice
più, non meno del vero. Il nostro Regno è
più d'ogni altro restato per la varietà de'
principi, che hanno coniato, ripieno di queste
monete piccole d'argento; e pure non credo
che più di due milioni di ducati ei n'abbia
al presente: dunque in queste si sono perduti
centomila ducati. Poniamo che queste tre
monete si fossero fatte di billon, e che
così si fosse salvata dal consumo la metà
del buono argento (il che è di sopra al vero,
come mostra la sperienza); sono dunque 50.000
ducati risparmiati. Si tolga da ciò quel
che importa la spesa assai maggiore della
zecca di questa moneta di tanta lega, e per
la lega, e per la grossezza loro, e per lo
rame che vi si perde dentro, e che s'espone
al consumo, e voi troverete che il Regno
non guadagna altro che un 400 ducati l'anno
sopra due milioni di moneta: guadagno ridicolo
e miserabile, e che con togliere 400 ducati
d'imposizione, è subito eguagliato. Che se
a questo aggiungete il disprezzo che s'induce
negli animi popolari contro una moneta che
pare falsa ed adulterina, il biasimo che
ne viene al governo, la facilità del tosamento,
ed altro; troverete che non solo non è utile,
ma perniciosa introduzione il billon ne'
paesi in cui da antico tempo non sia usato:
e vedrete essere la storia nostra confirmatrice
di questo, mentre ne' princìpi del passato
secolo i mezzi carlini e le cinquine d'argento
e rame ci arrecarono tanto nocumento e male,
che non si medicò se non con l'estinzione
di queste, che si dicevano zannette.
Allo struggimento adunque convien dar riparo
con fare le monete il meno che si può schiacciate,
e dar loro la maggiore doppiezza che non
noccia al maneggiarsi, imitando in questo
la sapienza de' Greci e de' Romani; con proibire
che le monete si trasportino per terra sopra
carrette; con non farle numerare, come talora
ne' nostri Banchi si usa, ma pesare; e con
altre somiglianti avvertenze. Quando poi
sono usate troppo, bisogna insensibilmente
ritirarle e fonderle, aggiungervi il dippiù,
e restaurarle. Questo dippiù conviene si
tragga da qualche dazio, e si riguardi come
una delle spese necessarie pubbliche simile
alla rifazione de' ponti e delle strade:
né come ne' tempi barbari si è fatto, diminuirle
di peso. Se poi sou tutte assai consumate
e guaste, non s'hanno mai da rifare a poco
a poco, perché s'induce disparità di monete,
ma tutta insieme s'ha da coniare una quantità
di moneta grandissima, con argenti fatti
prender da tutt'altra parte che dalle vecchie
monete; e questa s'ha in uu colpo solo a
cambiare colla vecchia, la quale si dee disfare
e struggere; come fu qui dal conte di S.
Stefano con lodevolissima condotta non è
gran tempo eseguito.
Venendo ora a discorrere delle altre quattro
sorti di mutazioni; dico come queste o le
fanno i popoli, o i principi. I popoli, o
sono cittadini, o stranieri, e o lo fanno
col falsare, o col tosare. I principi o sono
propri, o nol sono, e o lo fanno con legge,
o senza; facendolo tacitamente, e quasi con
fraude. E volendo dir prima de' popoli.
È conforme all'ordine del tutto, che le cose
grandi e sublimi, quanto sono più stimate,
tanto sieno più circondate d'ogn'intorno
dalla frode e dagl'inganni degli uomini scellerati.
Così nelle monete, che sono cose sacrosante
e regie, è avvenuto. Negli antichi tempi
essendosi usato un conio di figure assai
rilevate e sporte in fuora, si dette comodità
a' falsatori di far monete di rame simili
a quelle d'argento, vestirle d'una foglia
di buono argento, e darle per sincere. Queste
col correr de' secoli avendo oggi scoperto
l'interiore metallo, sono, in vece di perdere
stima, divenute più preziose, per lo certo
carattere d'antichità che hanno nella loro
falsificazione, e sono dette dagli eruditi
foderate. A tanto male, che dalla quantità
di monete foderate che si scavano si conosce
essere stato grandissimo, rimediarono gli
antichi con batterne d'un conio meno rilevato,
che diconsi contorniate; e questa nuova maniera
sebbene distrusse l'antica bellezza de' conii,
pure da tutti i popoli è stata costantemente
seguita; perché al vero utile dee cedere
ogni bellezza d'ornamento. Così siamo noi
posti in sicuro da simil frode.
Per contrario non è meno dannosa invenzione
quella d'una pasta, che applicata sull'argento
ne stacca quasi una foglia senza punto guastare
le più minute sculture. Con tal arte si può
da un ducato d'argento portar via benissimo
la decima parte del metallo: ma questo è
più da temersi ne' vasellami e ne' grossi
pezzi d'argento, che nelle monete, le quali
col sensibile alleggerimento tradiscono la
frode.
Da tutto il già detto viene che la frode
più ordinaria nelle monete è stata il tosamento
degli orli; perché anche l'imitazione e la
falsificazione loro si vede essere più difficile
e meno lucrosa.
Al tosamento soggiace più d'ogni altra la
moneta d'argento, poi quella di rame, ed
in ultimo quella d'oro; del che è chiara
la cagione. Sul rame v'è poco guadagno; sull'oro,
perché si vende a peso, non ve n'è nulla;
e quando non si pesassero le monete d'oro,
pure pochi sono che s'arrischino tosarle,
mentre si corre pericolo che, non essendo
accettate, resti inutile in mano una cosa
molto preziosa e cara. Delle monete d'argento
soggiacciono al tosamento più le piccole
che le grandi; perché dove v'è minor perdita,
gli uomini usano maggiore incuria: onde si
teme meno d'esser ricusata una moneta piccola
che una grossa.
Ma a questo male, e a quello della falsificazione
ancora, a cui tante e tante leggi e prammatiche
non dettero giusto e forte riparo, lo ha
dato la macchina del torchio con cui oggi
si battono le monete: conoscendosi con nuovo
esempio sempre più vero che quegli studi
e quelle discipline, le quali a' ministri
del governo sembrano astratte, mentali, e
da ogni utilità della vita civile distaccate,
hanno più conferito alla perfezione degli
ordini civili, che le leggi istesse; e che
quello che la politica non giunge ad ottenere,
s'ottiene per qualche scoperta fisica, o
per qualche meccanica invenzione. Col torchio
si dà una impressione che è difficile a falsificare
con istrumenti piccoli, e maneggiati da un
solo mal monetiere. S'imprime sugli orli
stessi della moneta con un altro ingegnosissimo
istrumento, che nelle nostre nuove monete
d'argento e d'oro è stato prudentemente usato.
Così, non restando parte non impressa, non
resta luogo a tosarle senza che sia subito
manifesto. Or la facile cognizione della
frode nelle monete è il miglior rimedio;
perciocché l'uso della moneta è solo ne'
contratti di cambio tra roba, o fatica, e
moneta. Quanto sia necessario ne' contratti
il consenso de' due che contrattano, è chiaro:
quanto sia difficile ad ottenerlo da quella
parte che conosce la frode dell'altra, non
richiede dimostrazione. Colui adunque che
tosa trae danno grandissimo da ciò; mentre
per una decima parte di moneta ch'egli, per
esempio, ha tosata, gli resta tutta inutile
in mano: né può ricorrere al giudice senza
esporsi a pagare il fio del suo delitto,
né può costringere, né persuadere chi si
prenda le sue monete per buone. Così è che
questo male intoppa, ed ha grandissima difficoltà
a sorgere; ma quando egli fosse nato, cresciuto,
e divenuto grandissimo, la cosa procede diversamente.
I mali che produce ad un paese l'aver gran
quantità di moneta tosata (de' quali conviene
dire, prima che de' rimedi) sono i seguenti.
I. Gravi e perpetue dispute tra i compratori
e i venditori. Questi non vogliono cambiare
le loro merci colla moneta, senza che o le
monete sien giuste, o più numerose, tantoché
col maggior numero compensino il minor peso;
laonde incariscono i prezzi. Quelli, l'uno
non vogliono fare, l'altro non possono: e
intanto ambedue per lo commercio interrotto
stentano, gemono, e quasi si muoiono di fame:
sicché il male del tosamento non corrisponde
all'utile de' tosatori; ma per poco sangue
che si succhia, si lascia tutto il restante
immobile e gelato.
II. Non potendosi lasciare senza corso le
monete tosate, si dà comodo agli stranieri
di tosar le buone che loro vengono alla mano
impunemente, e rimandarle nel paese.
III. Gli stessi sudditi, crescendo il male,
restano dal numero de' colpevoli difesi:
e perché dove molti errano nessuno si castiga,
e le ingiurie universali si sopportano assai
più pazientemente che le particolari, perciò
nella moltiplicazione de' delitti si spera
perdono.
I rimedi del tosamento sono: I. sradicare
e distruggere i tagliatori delle monete.
Innanzi a questo ogni altro è vano; e se
questo non si può, è meglio non far nulla
affatto. Quanto ciò sia vero lo conobbe per
esperienza propria il nostro Regno, quando
tutti i viceré che precedettero il marchese
del Carpio non fecero altro che coniar nuove
monete, per poi vederle miseramente innanzi
al termine del governo loro tagliate. La
storia ci narra con quanto poco fervore essi
avessero cercato estinguere le cagioni del
male: né a ciò fa difficoltà il gran numero
di buone prammatiche che pubblicarono; giacché
la più svogliata di tutte le maniere di vietare
alcuna cosa è il contentarsi di avervi fatta
una legge contro.
Il solo espediente, che pare si potrebbe
prendere quando non si ha forze bastevoli
da spegnere i tosatori, sarebbe di ritirare
la moneta d'argento tutta, e sostituirvi
bullettini: ma questo è di difficilissima
esecuzione; ed essendo i bullettini tanto
più facili a contraffarsi, quanto meno soggetti
a tosarsi, potrebbe essere rimedio peggiore
del male.
Non occorre dunque pensare a riparo, se quel
ch'io ho detto non si può far precedere;
e conviene aspettare pazientemente tempi
migliori. Ma posto ch'egli sia fatto, restano
a cicatrizzare le ferite già date; ed a farlo
sono molte maniere, delle quali per giudicare
quali abbiano da presciegliersi, pongasi
questa verità per fondamento di tutto.
Quando in un paese sono due generazioni di
moneta, l'una buona, e l'altra cattiva, la
cattiva fa nascondere o mandar via la buona,
sempre che tra loro v'è equilibrio di forze.
Se la buona è assai più numerosa, l'altra
perde alquanto del suo corso, venendo presa
con rincrescimento, e per lo più ricusata.
Se la buona è assai poca, o va via, o resta
appiattata presso chiunque ne ha. Sono questi
tutti tre mali grandi, e che o perturbano
i commerci, o dissanguano lo stato. S'hanno
da curare così. Il primo, che è il maggiore,
con non lasciare incontrare una quantità
grande di buona moneta con quasi altrettanta
cattiva. Il secondo, non si può già medicare
con dar corso alla cattiva per vigore di
legge; poiché si dà animo a guastar la buona,
o peggiorare la guasta; ma bisogna ritirar
subito questa, e sostituirvi nuova che sia
buona. Il terzo, con far intendere che la
buona, che è in sì poca quantità, diverrà
presto numerosa e comunale. Così ne scemerà
l'amore e la stima, e chi spererà poterne,
sempre che voglia, ammassare ogni gran somma,
non curerà serbarne neppur una.
Posti questi princìpi, resta a dire de' vari
modi da fare la permutazione delle monete.
Operazione difficile, delicata, e simile
assai alla mutazione di tutto il sangue d'un
corpo, la quale i fisici non hanno potuto
finora felicemente eseguire. Prima di farla
è utile sapere quanta ne sia la spesa, né
per la sua grandezza conviene sgomentarsi,
essendo ella sempre incomparabilmente minore
del danno d'aver le monete ritagliate. La
spesa importa tutta quella quantità di metallo
ch'è tagliato, tutto quello che l'uso ha
consumato, e dippiù la fattura: le quali
cose tutte prese insieme rarissime volte
superano la ottava, e al più la sesta parte
del peso totale. Ciò conosciuto, si venga
a considerare le forze dello stato, le quali
o sono grandi e vegete, o infievolite. Nel
primo caso il consiglio migliore è coniare
una quantità di moneta d'argento che uguagli
almeno due terzi dell'antica, con prendere
il metallo da tutt'altra parte che dalle
vecchie monete, seppure queste non ristagnassero
neghittose ne' Banchi, o negli scrigni de'
ricchi uomini privati; poi distribuirla ne'
vari luoghi, e farla in istante cambiare
con l'antica, a cui conviene nel tempo stesso
negare ogni corso; sicché nemmeno a peso
senza comune consentimento si possa dare.
Concorreranno a gara tutti a cambiare, ma
pure due terzi della massa totale non potranno
in pochi giorni essere asciugati tutti. Di
quell'argento intanto che si ritrae, senza
perdita alcuna di tempo si ha da battere
il restante, e con eguale velocità nettare
tutta la moneta mal concia, e ritirare quelle
cedole di credito, se mai alcuna n'è convenuta
fare, quando in alcun luogo non vi fosse
stata più moneta nuova da commutare. Con
ammirabile sapienza fu questa operazione
fatta dal conte di S. Stefano, successore
del marchese del Carpio, fra noi l'anno 1689,
ed ella è certamente di tutte la migliore;
contenendo tutti i risparmi possibili e niun
patimento.
Bisogna, lo replico di nuovo, proibir tutta
la vecchia a non voler far peggio; come lo
provammo nel 1609. Il conte di Lemos con
una prammatica ordinò che le monete grosse
tosate non dovessero aver più corso, e mosso
da una falsa apparenza di necessità lasciò
che corressero le zannette, e le cinquine,
monete basse d'argento, le quali erano peggio
assai ridotte che le altre. La zecca adunque
e i Banchi, a chi vi portava moneta grossa
tosata, cominciarono a dare monete piccole
assai più tosate e cattive. In quattro giorni
il popolo era quasi sollevato; onde fu d'uopo
che la prammatica de' 9 giugno con un'altra
de' 12 fosse rivocata, e stabilito che tutte
le monete corressero a peso. Fu questo consiglio
men cattivo del primo, ma neppur buono; perché
non distoglie i malvagi dal ritagliare, mentre
o hanno a dar le monete a peso, e non ci
hanno perdita restando loro in mano quel
che ne scemano; o non le danno a peso, come
accade nelle piccole somme, e vi guadagnano.
Quando lo stato non ha credito, né potere
bastante da sostenere spese così grosse e
subitanee, molti hanno costumato battere
una gran quantità di moneta nuova, e senza
toglier il corso all'antica, ma con lasciarla
apprezzare a peso, hanno aspettato pazientemente,
e data libertà che ognuno, che lo volesse
fare, andasse alla zecca a mutare l'antica
con la nuova. Ma questo non si ha da tentar
mai senza una certezza grandissima d'avere
spenti i tosatori: perché sulla speranza
di cambiar la guasta con la buona si accresce
il ritagliamento: si soggiace in oltre al
rischio che la nuova sia traviata fuori,
sempre che non è vietato il corso all'antica.
In ultimo non bisogna lusingarsi di andar
coniando con lento passo le monete: che fu
uno de' due sbagli del cardinal Zapatta nostro
viceré nel 1622. Avea egli, per estinguere
le mal conce zanngtte, intrapreso batterne
tre milioni di nuove intere. La carestia
de' viveri, che in parte procedeva dalla
mala raccolta, in parte dal commercio per
cagione delle zannette interrotto, facea
tumultuare il popolo. Per darvi rimedio fu
immaturamente interdetta la vecchia moneta,
e pubblicata questa, di cui appena la sesta
parte era battuta; e ne fu distribuita una
trentina di zannette per ogni capo di famiglia.
Mai non si vide tanto lutto, mai non si udirono
tanti gemiti e tante strida quante allora;
né mai fu in così grave pericolo la maestà
del dominio e la fede de' popoli. Senza potersi
usar la vecchia moneta, senza bastare la
nuova a tanto commercio, il popolo disperato
si sollevò, e dopo varie offese fatte al
viceré fu colla prigionia di trecento persone
e colla morte d'alquanti frenato. Dura condizione
d'un principe d'avere a punire le colpe di
que' sudditi che diventano delinquenti nella
disperazione d'un'acerbità di guai e di malanni,
quasi eguale a quella morte che si dà loro
per pena.
Non potette non disapprovare la prudenza
della corte di Spagna questa condotta, e
tosto richiamò il cardinale, sostituendogli
il duca d'Alba, il quale col coniare molta
moneta di rame riparò in parte a' danni.
Riparare a tutto non era già superiore alla
perizia e alla prudenza della nazione dominatrice,
a cui anzi ben si potrebbe applicare quel
che de' Romani in confronto de' Greci disse
Virgilio, che se cedeano agli altri nella
cura delle belle arti e delle meno utili
applicazioni, l'arte del comandare s'apparteneva
a loro; ma le angustie delle guerre nol permettevano.
Dunque non bisogna nelle nuove coniate zeccar
meno di due terzi della somma totale: perché
o non si vuol toglier corso all'antica, e
non bisogna che ne resti molta che possa
col contrasto nuocere e cacciar via la nuova;
o se le vuol togliere, e la nuova ha da esser
tanta che riempia le vene del commercio,
per non voler che cada e muora. L'aiutarsi
con polizze è buono, ma non basta a viver
tranquillamente: e sempre s'ha d'avere in
mente che ogni rimedio che differisce il
male, lo fa maggiore; e dal tempo, su cui
tanto gli uomini infingardi e sciocchi si
fidano, non è da attender altro che la cancrena.
Ora voglio avvertire l'altro errore che prese
il cardinal Zapatta appena ch'egli entrò
al governo di Napoli nel 1621. Vedendo che
il ricusarsi le monete mozze incariva i prezzi,
disturbava le compre, e facea perir di fame
col danaro alla mano la povera plebe; pensò
per far ch'esse corressero liberamente dar
mallevaria per loro, promettendo sotto la
fede, e parola regia, che nella futura abolizione
delle zannette il danno non sarebbe stato
de' privati. In men che non balena fu tosata
alla peggio quella moneta che restava ancora
tollerabile; e non potea non esser questo
danno de' privati, sempre che si dovea soddisfare
con un dazio esatto sopra di loro. Perciò
a ragione fu egli di così imprudente promessa
acremente ripreso dal sovrano.
Mi pare aver detto abbastanza del tosamento.
Della falsificazione, essendo e negli effetti
e ne' rimedi simile all'altro male, non istimo
opportuno replicar le medesime cose; potendo
fare il lettore quella mutazione di voci
che non fo io. E questo è quanto s'appartiene
alle colpe de' sudditi, che offendono la
moneta.
Possono anche i popoli confinanti nuocere
alle monete d'uno stato falsandole, o ritagliandole;
né v'è altro rimedio, che chiederne il castigo
al loro sovrano. I Genovesi nel secolo passato
insieme con altre nazioni riempirono lo stato
del Gran Signore di aspri, più belli e lucenti
degli ordinari, e perciò più graditi; ma
quasi tutti di bassi metalli composti. L'incuria
de' Turchi lasciò corrergli un pezzo senza
avvertirsene: accortisene gli vietarono;
e della perdita che a un di presso sommarono
poter aver fatta lo stato, si rifecero sequestrando
ed occupando altrettanta quantità di merci
che potettero avere in mano de' mercanti
di quelle nazioni che aveano fatto il commercio
degli aspri. Risoluzione barbara e strana;
ma che ha un fondo di ragione, e che avrebbe
avuta qualche equità, se le Signorie, da
cui dipendeano que' mercanti, avessero avuta
tanta premura per loro, quanta ne avea il
Turco pe' sudditi suoi. Ma a' mercanti non
furono rifatti i danni da que' concittadini
che aveano guadagnato sugli aspri.
Prima di terminare è necessario risolvere
se convenga ritrarre la spesa d'una nuova
coniata dall'istessa moneta, o da qualche
dazio che s'imponga in altra parte del commercio
d'un paese. Questione grande ed ardua è questa:
ed a volervi apportar qualche chiarezza ed
ordine, dico come si coniano nuove monete
per ritirare le antiche consumate o dall'uso
o dalla forbicia. Nel primo caso non si fa
una generale coniata, ma a poco a poco: perciò
è necessario ritrarre la spesa della zecca
d'altronde; ed in questo errarono tutti i
governi de' secoli barbari. Dalla moneta
si può trarre la spesa o alleggerendone il
peso, o il carato, o facendo un alzamento,
cioè una mutazione d'idee e di voci. Tutte
tre queste vie guidano a perdizione, quando
si fanno d'una parte sola di moneta, inducendo
quella sproporzione che conviene tanto abborrire.
Farlo a tutta la moneta non v'è necessità,
onde vi sarebbe maggior danno.
Ma se si rifà tutta la moneta per estinguere
la corrotta e tronca, si può seguir l'uno
o l'altro consiglio; e il più de' governi
hanno soluto usare unitamente tutti e due.
Così fece fra noi il duca d'Alba nel 1622;
così il conte di S. Stefano che pubblicò
la moneta coniata dal marchese del Carpio.
Ed io son persuaso questa essere la miglior
via: perché i dazi corre rischio che una
volta messi restino per sempre; e siccome
la spesa è grande ed istantanea, se tutta
si ritrae da' dazi, questi hanno da essere
ben gravosi.
Quanto alle monete non bisogna punto diminuirle
di peso o di bontà, ma farne soltanto un
alzamento. Nel primo caso s'impiccoliscono,
si discreditano, si schifano; non tanto nel
secondo: e sebbene molta buona gente, che
ha voluto scrivere di questa materia, gridi
che non s'hanno ad aggravare i popoli, io
non credo ch'essi pretendano che le supreme
potestà, quel metallo che manca, l'abbiano
a crear dal niente; e se dee uscir dal popolo,
non uscirà mai senza strida e dolore.
Ora passando a ragionare delle operazioni
de' principi sulla moneta, dirò imprima che
il diminuirne il peso o la bontà tacitamente,
e di soppiatto, non è operazione che possa
cadere in animo d'un principe nato degno
di comandare. Egli è da supremo arbitro divenir
falsatore e tosator di monete. Perciò non
è strano se sono più secoli che cosa tale
non è avvenuta: e se ne' tempi più recenti
s'è fatta, è stata frode degli affittatori
delle zecche, e non de' principi loro. Che
ne' secoli barbari poi siesi usata, non è
meraviglia. L'ignoranza era tanto cresciuta,
che le regole del giusto non erano ravvisate
da quelli cui non si paravano altri oggetti
dinanzi che di tirannia e di frode, quando
a raggirare la ruota delle cose umane la
maschera dell'inganno e l'aperta violenza
sottentrarono in luogo del sapere e della
beneficenza perdute. Adunque non è decente
oggi trattenersi a dissuaderne i sovrani.
Può anche mutarsi la proporzione palesemente,
e con editto; e questo quando mai fosse cattivo
consiglio, non si può dir però vituperoso.
Intorno ad esso si hanno a stabilire le massime
seguenti.
I. La mutazione di proporzione tra il rame
e i metalli ricchi, se non è grandissima,
non produce effetti; ed è simile all'alzamento
totale. Si vede ciò quasi da per tutto; mentre
pochi paesi vi sono in cui non v'abbia un
10 per 100 almeno di sproporzione; essendo
o soverchio il peso del rame, come è in Roma,
o scarso, come è qui. In Francia gli alzamenti
si sono fatti de' soli metalli preziosi,
fra' quali si è conservata una costante proporzione,
poco curando se si cambiava col rame.
La ragione è che tra il rame e i metalli
superiori non v'è ugualità di forze. Il rame
è sei o otto volte almeno minore in quantità,
altrettanto maggiore in corso. Così nel Regno
di Napoli, ove saranno da sei in otto milioni
di ducati d'argento, non ve n'è un milione
e mezzo di rame. Il rame, cattivo ch'ei sia,
sempre rimane; e quando anche è valutato
più del giusto, mai non perviene ad aver
forze da luttar coll'argento e coll'oro.
Questi due metalli poi sono quasi eguali
in forze: solo l' oro è più agile ad andare
e a tornare.
II. La cattiva moneta caccia via la buona;
e perciò bisogna amare l'infedeltà di quella
che fugge, non la fede di quella che resta:
e que' principati, ne' quali si è corrotta
la moneta con molta lega per farne aver abbondanza,
e che resti, han fatto come colui che piantò
frutta silvestri e amare nel suo giardino
per non vederle rubate.
III. La sproporzione tra due sorti di monete
dello stesso metallo è più perniciosa, che
tra un metallo e l'altro. Questa nuoce per
lo danno che i convicini acquistano comodità
di fare: quella dà modo e agli stranieri
e a' cittadini di guadagnare nocendo.
IV. Non v'è utilità alcuna dell'alzamento
particolare, che io chiamo sproporzione,
la quale non sia maggiore nell'alzamento
totale; ma i danni sono incomparabilmente
più gravi. La prima parte di questa sentenza
è manifesta; rimane a provar l'altra. L'alzamento
di una parte congela o fa dileguare l'altra
parte, e dissangua così lo stato; ma il generale
non fa intoppo a' movimenti della moneta.
L'alzamento generale è un guadagno fatto
dal principe su i creditori, cioè sulla gente
più agiata; la sproporzione è un dono imprudentemente
fatto agli stranieri, o a' sudditi accorti,
maliziosi e ricchi, delle sustanze degl'innocenti,
de' semplici e de' meschini. S'è fatto l'alzamento
in molti principati, e senza medicarsi (come
fu nell'antica Roma) non ha nociuto; la sproporzione
finché non s'è raggiustata, ha sempre offeso.
N'è d'esempio la Fiandra austriaca, la Spagna
nel secolo passato, e l'Irlanda, e soprattutto
la Francia nella pubblicazione de' quattro
soldi fatta nel 1674: di che ragionando Gio.
Locke considera che non giovò l'accortezza
del governo in aver loro dato corso nelle
provincie interiori a 15 per scudo, e ne'
porti di mare a 20, per non ne far venire
de' contraffatti di fuori, che pure convenne
screditargli subito. Né giova sperare in
sulle proibizioni d'estrarre o d'introdurre,
che non saranno osservate. Contro i pochi
s'usa bene la forza; i molti s'hanno a far
guidare dall'utile e danno loro medesimo.
In fine l'alzamento d'una parte di monete
induce varietà di due prezzi; l'uno naturale,
l'altro no; ed amendue comandati dalla legge.
L'alzamento generale induce sì disparità
tra i prezzi antichi delle merci e quello
della moneta; ma di questi l'uno è fermo
per legge, l'altro no: perciò col cambiamento
di prezzi fatto dal comune si medica da sé
stesso un alzamento; la sproporzione, se
la legge non la muta, non si può medicare
da veruno.
Per tutte le sopraddette ragioni è meno danno
l'alzamento generale che il particolare;
onde è che si può dar per rimedio là dove
è sproporzione di monete, o di prender la
cattiva e rinforzarla, o di peggiorar la
restante buona. Con l'uno o con l'altro si
consiegue lo stesso effetto; sebbene quello
sia consiglio più generoso, questo scandalezzi
la moltitudine.
E per dire de' rimedi più in particolare,
è strano il riguardare che di tanti che biasimano
il mutar prezzo alle monete non ve n'è stato
uno che, dopo averlo biasimato, dicesse come
s'ha da correggere quando sia fatto'. quasi
la loro proibizione bastasse ad assicurarci
e dagli accidenti calamitosi, e da' cattivi
governi, e dagli errori compagni all'umanità:
e pure egli era importante più che il discorrere
sopra le cause e gli effetti de' mali. Perciò
io non volendo trapassarlo dirò che la sproporzione
tra monete d'uno stesso metallo s'ha da togliere
subito, ed eguagliarle: né si può indebolire
la parte buona; perché a ritirarla, rifonderla,
e tornarla a dare ci corre più tempo che
non bisogna. Quando è tra metallo e metallo,
si tolga ogni coazione di legge, e si lasci
operare alla natura inchinata sempre a mettersi
a livello; e quel segno ove ella si posa,
se così piace, s'autorizzi con legge. Se
si ha vergogna di far ciò, almeno si esamini
qual è la proporzione ne' principati ben
governati, e s'imiti la loro: ma questo consiglio
è men sicuro del primo. Ciò procede egualmente
o che la legge abbia fallata la natura, o
che questa si sia scostata dall'antica legge:
e bisogna sempre aver a mente che della stessa
maniera appunto si medica una ferita, o sia
fatta dal fortuito cader d'un sasso, o ricevuta
combattendo virtuosamente per la patria,
o data perfidamente da un traditore; né il
castigo del reo ha che far niente colle medicine.
È costante opinione che i mali della moneta
in Roma sieno nati da una sproporzione fatta
nell'argento; e perciò molti s'aspetteranno
che io qui ne ragioni. Ma io, oltre all'essere
poco informato dello stato di quelle cose,
ed al credere che in Roma sieno uomini più
che altrove sapientissimi, come quelli che
coll'età e colla sofferenza hanno lungamente
combattute le stranezze della fortuna, e
fatta rendere giustizia al merito; porto
opinione che que' mali non provengano se
non in piccola parte da' difetti intrinseci
delle monete, ma che sieno una complicazione
di leggieri acciacchi, quale si vede essere
ne' corpi degli uomini per lunga età inclinati
ed infiacchiti. E siccome i vecchi contano
con ragione quasi morbo grave il solo numero
degli anni, così non è giusto (come tanti
villanamente fanno) incolpare la prudenza
de' superiori, se non possono contrastare
a quell'ordine di vicende che la Provvidenza
ha stabilite e fermate.
Nel nostro Regno sonosi fatte mutazioni di
prezzo all'oro straniero, più per aggiustarlo
al vero che per discostarsene. Vero è che
le doppie di Spagna e gli ungheri, per essere
stati valutati sproporzionatamente, non ci
sono stati più recati, e solo abbondiamo
di zecchini. Qual ragione abbia causata tale
determinazione non può essere noto a me,
che non sono stato presente a' consigli tenutivi.
Sento da molti, e leggo anche scritto ciò
essere avvenuto per poco avvertire: ma mi
sembra cosa ardita assai, voler credere inavvertenza
là dove si vede essere senno e prudenza grandissima
e maturità di consiglio. Forse si sarà fatto
per escludere e tener lontana tanta varietà
di monete straniere. È questo ottimo desiderio:
il mezzo presovi è sicuro, e non ce ne siamo
trovati male; e pare che ad arte si sia voluta
avere abbondanza di zecchini e di fiorini,
monete sopra l'altre pregevoli e perfette.
All'argento non si è fatta mutazione dal
1691 in qua, quando con un editto quelle
monete che valeano 100 grana furono fatte
valer 132. Pochissimi intendono ciò che si
fosse fatto allora, e perché; ma tutti confidentemente
ne parlano e ne decidono. Chi dice che fu
alzamento, chi che fu dannosissimo; e chi
ne dà un giudizio, e chi un altro. Il vero
è ch'ei non fu niente di ciò, ma solo una
correzione d'uno sbaglio preso dal marchese
del Carpio. Il marchese nel rifondere la
moneta d'argento avea desiderato farla eguale
alla romana, sicché non si avesse a studiar
tanto sul cambio. Desiderio inutile, e forse
anche pernicioso. Non avea avvertito quanto
la nostra moneta di rame fosse inferiore
alla romana in quantità di metallo. Facendo
i ducatoni di 100 grana, egli dava alle grana
un valore estrinseco superiore al vero di
quasi un 50 per 100. Ciò facea stravasare
l'argento e restare il rame. Convenne adunque
cambiare tal proporzione, e sbassare il prezzo
al rame: ed ecco quanto si fece. Se insiememente
non si fosse mutata la moneta di conto, non
vi sarebbe stato alzamento; ma avendo mutato
il valor delle grana, e fattele divenire
la 132ma parte di quel ducato d'un'oncia,
un trappeso, e 15 acini d'argento, di cui
esse erano la 100ma; ed avendo ciò non ostante
sostenuto il ducato a sole 100 grana, ne
seguì un alzamento che, oltre al mutare i
nomi al prezzo delle merci e de' cambi, non
fece altro nocumento, non potendone per sua
natura fare: giovò sì bene a pagar gran parte
delle spese del monetaggio.
Sovra di ciò ha saviamente discorso il Broggia:
non così Cesare Antonio Vergara, il quale
avendo in tutta la sua opera osservato virtuoso
silenzio sopra consimili operazioni fatte
sulla moneta, volle interromperlo sul fine
appunto dell'opera, per dar giudizio della
Prammatica del 1691, e lo fece con infelice
e vergognoso successo. Disse che "fu
stimata forse da alcuni utile questa alterazione
della moneta, ed avutasi anche qualche compiacenza
nell'aver ritrovato tra lo spazio di una
notte cresciuto il peculio...; nondimeno,
secondo il giudizio di molti, e forse di
tutti, è stata, e sarà perniciosa al Regno
per l'alterazione de' prezzi delle robe e
del cambio; particolarmente colla piazza
di Roma, dove si vide cresciuto pochi anni
sono a ducati 152 per 100 scudi romani. Ed
in effetto il Blanc scrivendo delle monete
di Luigi XIII, pondera di essere non meno
pernicioso che pericoloso l'aumentare più
che il diminuire il valore delle monete:
e che in ciò dovrebbero essere più avvertiti
i sovrani, de' quali l'interesse è sempre
maggiore; per esser essi i più ricchi ne'
loro regni, e che hanno da riscuotere le
contribuzioni da' sudditi".
Se il dire in pochi versi così inettamente,
e male, che non si possa dir peggio, è bravura,
il Vergara merita certo lode d'uomo bravo
e valoroso. Quando l'alterazione fosse stata,
e fosse perniciosa, noi dovremmo sentirne
la pena, non avendola mai ritrattata; ma
il nostro felice stato quanto alle monete
lo smentisce. L'alterazione de' prezzi e
de' cambi è di voci, e non di cose; ed è
la medicina naturale di quell'alzamento ch'egli
biasima. Dire che il cambio perciò alzò al
152 è mostrare di non intendere che sia cambio
e che sia alzamento: ed in fatti senza esser
mutate le monete d'altro che d'un 4 per 100,
pure a dì nostri s'è veduto sbassare il cambio
dal 152 al 118 ed anche più giù. Tanto ha
poco che fare l'una cosa coll'altra. L'autorità
del Blanc pesa poco, e quel ch'ei dice non
val nulla; mentre se, al dir suo, l'aumentare
diminuisce le contribuzioni pubbliche, lo
sbassar la moneta le aggraverà: e ciò dispiacendo
più a' popoli ha da essere più pericoloso
e peggiore. Non ha dunque il Vergara detto
niente che non sia sciocco e falso: tanto
è gran differenza fra il saper interpretar
le leggende delle monete, e il giudicar sanamente
degli stabilimenti dati al loro valore.
Capo Terzo Dell'alzamento, o sia della mutazione di
proporzione tra tutta la moneta e i prezzi
delle merci.
Avendo discorso particolarmente tutte le
qualità dell' alzamento di una parte delle
monete, del quale nel principio proposi di
ragioo nare, e considerato quanto male abbia
in sé, e mostrati i modi di guarirlo; mi
resta ora a discorrere generalmente dell'alzamento
di tutta la moneta, il quale da' principi
si fa o con una legge, o con rifondere tutta
la moneta e diminuirne il peso o la bontà
de' carati. Sarà questa materia assai più
di tutte le altre precedenti da varietà d'opinioni
combattuta ed oscurata, e ripiena tutta di
gravissime considerazioni: perché molti,
come calamitoso allo stato, lo abborriscono,
molti l'esaltano; e di quelli stessi che
ne sono inimici, molti stimano che quando
egli è fatto convengasi medicarlo, con restituire
ogni cosa all'antico stato; molti per contrario
stimano questo essere un raddoppiamento del
male. Or perché in tanta disputa a voler
seguir dietro a tutti gli scrittori, uno
per uno, non potrebbe nascere che ambiguità,
confusione e tenebre; io restringerò sotto
quattro capi quanto da tutti è stato finora
detto e immaginato. E prima dirò di quelle
utilità che si promettono a' principi o a'
sudditi da questo alzamento, e che sono false
e sognate: poi dirò di que' danni che ad
amendue sono minacciati dal più degli scrìttori,
e che io stimo non veri e profferiti ignorantemente:
seguiranno poi que' danni che sono veri e
giusti: e finalmente quelle utilità vere
che dall'alzamento talvolta si Possono sperare.
Onde si vedrà se vi sia tempo e condizione
di cose, in cui (perché nelle deliberazioni
umane è sempre misto il bene al male), l'utilità
superando i danni, sia commendabile l'alzamento.
A volere con una definizione spiegare la
natura dell'alzamento, così come se n'è già
dichiarata la voce, io stimo ch'ei si potrebbe
definire così: ((Alzamento della moneta è
un profitto che il principe e lo stato ritrae
dalla lentezza con cui la moltitudine cambia
la connessione delle idee intorno a' prezzi
delle merci e della moneta)). Quella connessione
delle idee, che è la più grand'opera della
nostra mente, quella che d'ogni scienza è
base, e che per tanto spazio da' bruti ci
diparte, ella è quell'istessa su di cui i
più singolari e straordinari consigli sono
edificati. Perciò mi si farebbe ingiuria
in credere che io avessi voluto maliziosamente
dare questa definizione: perché io posso
dimostrare che la vendita della nobiltà e
de' titoli, la concessione degli onori, ed
infinite altre costumanze meritano avere
la medesima definizione ch'io ho data all'alzamento;
e pure di queste niuno nega l'utilità, niuno
contrasta a' principi il dominio e la libera
autorità. Che la vendita della nobiltà sia
un servirsi d'una connessione d'idee già
formata, lo compren de chiunque riguarda
che se un principe dichiara nobili tutti
i suoi sudditi, non accresce loro onore alcuno,
ma ne toglie alla voce nobiltà, a cui cambia
il significato. Se egli istituisce un'insegna
d'ordine, e non la concede in sulla prima
ad uomini già gloriosi e venerati, sicché
si congiungano queste idee; ma la dà a' suoi
staffieri, qualunque forma si abbia questa
insegna ella diviene livrea: perché la moltitudine
dalla verità trae e concepisce le idee, a
queste accoppia i suoni delle voci, sulle
voci usando giusto imperio il principe giova
al bene dello stato, che è la suprema legge,
o premiando altrui, o sostenendo le sue forze
contro alle traversie; s'ei se n'abusa, si
scioglie la connessione, cambiano significato
le voci, le cose restano le medesime, e vince
la forza insuperabile della natura.
Questo è appunto nell'alzamento. Ei non produce
mutazione alcuna di cose, ma di voce; quindi
è che i prezzi delle merci, per rimaner gli
stessi nella cosa, debbonsi mutare anch'essi
quanto alle voci. Se questo seguisse nel
giorno istesso in cui si fa l'alzamento,
e seguisse in tutto, ed in tutto proporzionatamente,
l'alzamento non avrebbe affatto conseguenza
niuna; come non l'avria quella legge con
cui si costituisse che le monete, in vece
di nominarsi co' nomi italiani, si avessero
a dinotare con nomi o latini, o greci, o
ebraici. Dunque quando ne' prezzi si mutan
le voci, restano le cose nel medesimo stato
di prima; quando stan ferme le voci, le cose
sono mutate. L'alzamento de' prezzi, come
ei si dice, è la medicina dell'alzamento;
e quando è seguito in tutti i generi, e s'è
rassettato, l'alzamento si può dire sparito,
così come la nebbia del mattino è dileguata
dal sole. Nasce adunque l'effetto dell'alzamento,
perché si tarda a mutare i prezzi; e si tarda
perché gli uomini avvezzi a pagare una vivanda
un ducato, sempre ch'essi hanno in mano una
cosa che dicesi un ducato, vogliono colla
vivanda cambiarla; e finché non se ne discredano,
si dolgono dell'avarizia di chi la negasse
loro, o incolpano scioccamente altrui di
aver fatta incarire ogni cosa. In fine un
principe, che abusandosi dell'alzamento lo
facesse ogni mese, distruggendo ogni connessione
d'idea fra i prezzi e le merci, lo renderebbe
inutile affatto e inefficace; e solo con
altre costituzioni potrebbe ottenere quel
che oggi coll' alzamento s'ottiene. Essendo
ora già stabilito e dimostrato che l'alzamento
dalla mutazione de' prezzi delle merci è
annichilato, io parlando dell'alzamento intenderò
sempre di ragionarne prima che sia seguito
l'effetto; e parendomi abbastanza spiegata
e difesa la mia definizione, voglio entrare
a quelle materie di cui mi ho proposto dianzi
di favellare.
False utilità dell'alzamento promesse a'
principi ed a' popoli.
Io tengo ferma opinione che l'abborrimento
che hanno i popoli e la più gran parte degli
scrittori reputati savi per l'alzamento delle
monete, è nato da questo, che rarissime volte
egli s'è fatto per vera necessità da principe
virtuoso, quasi sempre per avarizia, o per
falso consiglio d'apparente utilità. Onde
è nata la volgare sentenza ch'egli sia ingiusto,
tirannico e calamitoso. E poiché io stimo
utile molto e profittevole il mostrare quanto
sia falsa l'utilità dell'alzamento, che a'
principi per ordinario si assicura, per poi
mostrar loro le vere; farò con esempli conoscere
il ridicolo del guadagno che si promette
loro.
Se un principe desideroso d'aver soldati
d'alta statura non volesse soggiacere alle
spese che il morto re di Prussia fece, un
ministro accorto potrebbelo contentare così.
Proporgli di dar fuori una legge, in cui
si stabilisse che il palmo non si componesse
più di 12, ma di sole 9 dita. Ecco che in
una notte tutti i suoi soldati, i quali erano
andati a letto quale di cinque, quale di
sei palmi alto, si risveglierebbero miracolosamente
allungati chi di otto, e chi di nove. Che
se quest'altezza non contentasse ancora le
generose idee del sovrano, con un'altra legge
si potrebbero di nuovo slungare, e prima
di sette braccia, poi di sette pertiche,
e finalmente anche di sette miglia l'uno,
se si volesse, si potrebbero far divenire.
Io conosco che ognuno ride a quel ch'io dico;
e pure questo è l'alzamento della moneta
cotanto celebrato. Gli uomini ridono se si
promette di fargli slungare, non ridono se
si parla d' arricchire: tanto gli accieca
più l'avidità della roba che della statura.
Ma l'ordine della natura è, che le voci non
abbiano forza di mutare le cose; sebbene
nelle scienze e nelle cognizioni che nascono
dentro gli animi umani, le cose e le voci
stiano (né senza grave danno) miseramente
abbarbicate insieme ed unite.
È adunque falsa opinione il credere che crescano
le rendite del sovrano. Quel ch'è vero è
che le spese scemano, restando il principe
obbligato meno di quel ch'era prima. E sebbene
il principe non possa restar mai obbligato
più di quel che il bene del suo stato comporta;
e delle tante maniere, onde egli può disobbligarsi,
la mutazion delle voci possa parere ad alcuno
la meno regia e generosa; pure sonovi congiunture
di tempi in cui il non pagare per mezzo d'un
alzamento non è il peggiore di tutti gli
espedienti.
Per quello che concerne l'utilità de' popoli
che si credono arricchire coll'alzamento,
secondo disse Gio. Locke, questo si rassomiglia
alla risoluzione di quel matto che facea
boller nelle pentole i quattrini per fargli
crescere. E ciò basti aver detto qui delle
false utilità.
Falsi danni che si dicono provvenire al principe
dall'alzamento.
È certamente cosa vergognosissima, che tanti,
che presumono di ragionare delle cose degli
stati, e misurare le loro utilità, non sappiano
che cosa sia questo, che utile si chiama.
Essi lo prendono per quantità assoluta, non
relativa come egli è. Non sanno che quando
le determinazioni sono miste di buono e di
cattivo, quale è la più gran parte delle
umane, si ha da computare e pesare esattamente
e l'uno e l'altro; e sottraendo il minore
dal maggiore, conoscere quale supera, e di
quanto. Il pane è utile, ma non è utile farselo
tirar sul muso; l'acqua è necessaria non
che utile, ma all'idropico è pestifera e
letale. È adunque l'utile d'una cosa misurato
principalmente dall'uso e dalle circostanze
della cosa a cui si applica; né quando uno
se n'abusasse, o malamente e sconciamente
l'adoperasse, acquista la cosa nome di dannosa,
ma l'uomo si manifesta o stolido o pernicioso.
Perciò quell'autore che ha dimostrato l'alzamento
assolutamente considerato essere pernicioso
ed ingiusto, perché aggravava i popoli e
gl'impoveriva, senza cercare se in que' tempi
in cui sarebbe necessario per loro bene aggravar
di dazi i popoli, e manca ogni via da riscuotergli,
sarebbe per essere utile allo stato; sebbene
abbia ripieno il suo trattato di profondi
studi, quanto nello stato prospero è poco
necessario, tanto nello stato misero e combattuto
sarebbe poco riguardato: ed il cattivo principe
non lo leggerebbe, il buono non ne trarrebbe
giovamento.
Ora venendo ad enumerare le conseguenze dannose
dell'alzamento, come sono da questi autori
dette, la prima e la più grande è che il
principe per un istantaneo guadagno perda
per sempre grossa parte delle sue rendite,
e riceva danno grandissimo rendendo a' popoli
libero il poter rendere a lui quel pagamento
in apparenza eguale, in realità minore, ch'egli
fece loro imprima. Questa scoperta pare ad
essi quanto ingegnosa, altrettanto sublime:
ed io non conosco scrittore alcuno che nell'inganno
di questa falsa sembianza di verità non sia
caduto. Il Davanzati crede dimostrare che
cott'alzamento ((si scemano le facoltà de'
privati, e l'entrate pubbliche ancora; perché
quel che guadagnano col peggioramento una
volta i principi, lo perdono quantunque volte
le loro entrate riscuotono in moneta peggiore)).
In questo istesso dà dentro e il Muratori
e il francese du Tot, e, quel che mi sembra
più strano, l'abbate di S. Pietro, che di
tutta la scienza delle monete questo solo
punto con infelice successo ha discorso.
Memorabile esempio di quanto possa operare
anche nelle menti illuminate il desio d'applaudire
alla moltitudine, e la voglia pur troppo
generale di biasimare e d'insultare alle
operazioni sempre venerabili delle supreme
potestà; e di que' consigli, de' quali non
s'è potuto essere autore, volerne divenire
censore.
Io voglio adunque dar da ridere a' miei lettori
colla sola enumerazione delle patenti falsità
dell'utile scoperta, che ci si addita, della
diminuzione delle pubbliche rendite. Dirò
imprima però, che quantunque il bene del
giusto principe sia indivisibilmente quello
del suo popolo, né l'uno dall'altro si possa
o si convenga neppur col pensiero distinguere;
pure io in ciò che son per dire mi accorderò
alla maniera di parlare di questi scrittori,
che oppongono scioccamente l'uno all'altro,
ed a' principi talora han soluto sceleratamente
dare il nome di lupi. Ora venendo al proposito,
io non so capire come in tal linguaggio possa
esservi statuto che impoverisca il principe,
impoverisca il popolo, e non mandi danaro
fuori. È dimostrato che l'alzamento, quando
non contiene falsa proporzione, non produce
stravasamento di denaro: se dunque, come
essi dicono, l'alzamento è calamitoso al
popolo ed al sovrano, il denaro ove va? Sarebbe
egli mai questo quell'annientarsi a cui repugna
l'ordine della natura? Essi chiamano bene
del sovrano l'arricchirsi di quanto si toglie
a' sudditi, e ciò dicono cagionarsi dall'alzamento;
soggiungono che il principe non s'arricchisce.
Dunque né egli ha bene, né il suddito ha
male: se perde in un tempo, si rinfranca
nell'altro. Dunque alla peggio l'alzamento
non è altro che infruttuoso; o se egli è
dannoso al sovrano, è utile al popolo suo,
cui scema il pagamento. E certo se le rendite
pubbliche altro non sono che i tributi, scemarsi
queste vuol dire alleggerirsi i tributi.
E si può dir cosa più strana, che si ribellino
i popoli, che si dolgano gli scrittori ed
insultino il sovrano per essersi alleggeriti
i dazi da lui? Né è vero che le rendite de'
sudditi non crescano; mentre essi stessi
dicono che i prezzi delle cose rincarano,
e i venditori sono sudditi. Si può udire
cosa più incredibile che un suddito prenda
tanta cura, faccia tanto schiamazzo, perché
il sovrano gli diminuisce il dazio? Io credo
non esservi esempio d'uno zelo di sudditi
così singolare.
Ma rivolgendoci per l'altra parte, si può
dire più atroce ingiuria ad un principe virtuoso,
che chiamar suo danno la diminuzione delle
sue rendite, cioè de' tributi del popolo
a lui così caro? E qual altra cura maggiore
ha un principe giusto, che quella di diminuire
sempre ed impiccolire le sue rendite, togliendo
i pesi pubblici? E se egli nol fa sempre,
è perché le sue spese sono confacenti troppo
al bene dello stato. Sempre però mal ragiona
chi crede essere utilità del principe sostenere
i medesimi tributi, non che l'andargli sempre
accrescendo. La misura dell'utilità del principe
è l'utilità del suo popolo; e quando il popolo
richiede alleviamento, è ricchezza al principe
il suo impoverire.
Non finiscono qui le false riflessioni sull'alzamento;
come quelle che essendo profferite da persone
niente intelligenti delle cose politiche,
per qualunque lato si riguardino sono ripiene
d'errore. Io ho dimostrato che la diminuzione
dell'entrate regie non si può sempre dir
danno, né assolutamente sconsigliarsi; ora
dimostrerò che è falso essere l'alzamento
seguito da minore entrata. È errore grandissimo
e per le funeste conseguenze, e per la numerosità
di chi ci vive dentro, credere che un dazio
fruttifichi sempre più se più s'aggrava,
meno se si alleggerisce; avendo l'esperienza
infinite volte dimostrato in tutti i regni
che un genere di necessità non assoluta,
aggravatosene il dazio, si è dismesso dall'uso
umano, onde si è perduto quel dazio che si
credeva aumentare. Se alle porte della nostra
città si ponesse che dopo due ore della notte
chiunque vuol passare paghi un baiocco, potrebbe
questo dazio rendere 100 mila ducati; se
si avesse a pagare un ducato, nemmeno mille
se ne trarrebbero. La ragione è chiara abbastanza:
e questo è uguale in tutti i dazi. Se adunque,
secondo quel che questi scrittori stessi
confessano, le merci rincariscono, ciò che
il contadino riceve sarà più di prima; ciò
ch'egli paga, se l'entrate regie diminuiscono,
sarà meno: dunque ne ha da seguire che più
facilmente e' pagherà. Se i contadini sono,
incomparabilmente agli altri, la più gran
parte dello stato, se il loro pagare senza
soffrire violenta esecuzione è la salute
dello stato e la maggiore utilità del sovrano
(le quali cose sono tutte stabilite per basi
fondamentali da essi), come non ne abbia
a seguire maggior frutto de' tributi dall'alzamento
io non giungo a concepirlo. Sicché sono questi
scrittori per quattro capi colpevoli: contro
al popolo, perché chiamano danno l'alleviarlo
da' tributi e ne distolgono con ogni forza
il principe; contro al principe, poiché di
lui altra opinione non hanno che di tiranno,
e credono mettergli paura quando gli predicono
diminuzione di rendite; contro a sé medesimi,
che essendo nati sudditi biasimano il principe
del bene ch'egli vuol far loro, e l'offendono
riprendendo quella operazione che a loro
pro è ordinata; contro al vero, mentre, come
è falso che la diminuzione delle rendite
pubbliche sia sempre danno, così è falso
che ella siegua sempre l'alzamento. Tanto
è pericolosa cosa trattare quella materia
di cui né per lunga pratica di grandi affari,
né per profonda meditazione si ha cognizione
veruna.
Più strana mi sembra l'opinione d'un altro
danno che si vuole doversi produrre dall'alzamento;
ed egli è che i popoli divenendo più poveri
non potranno che a grande stento pagare,
e mal pagheranno i tributi. Opinione falsa,
e per chi la propala vergognosa: perché se
ne adduce per ragione che l'alzamento fa
rincarare i generi tutti; onde vengono due
effetti, l'uno che molti se n'astengono dal
comprargli, e così i dazi postivi sopra rendono
meno; l' altro che i popoli divenendo più
poveri pagano con maggiore difficoltà. Ma
a conoscere la falsità di tali pensieri basta
ricordarsi quel ch'è certo, ed io ho dimostrato
di sopra, essere l'alzamento mutazione di
voci e non di cose. Tutti i suoi effetti
adunque hanno ad essere di voci, e non di
cose: di voce rincariscono le merci, di voce
impoveriscono i sudditi. Se da questa ideale
povertà ne possa nascere cattivo pagamento,
lo vede ognuno. Il solo effetto reale che
fa l'alzamento è il liberare il debitore
di alcuna somma anteriore alla mutazione
de' prezzi della moneta, dal dover restituire
quell'istesso che egli ebbe; ma una tale
mutazione, siccome è fra due ugualmente sudditi,
non può produrre minore entrata allo stato.
Il principe, che è di tutti il maggior debitore,
anche egli si disobbliga; e se per questa
via egli rende alcuno povero, non si può
dire che questo gli dia perdita, ma al più
non gli darà guadagno; diminuendosi il frutto
de' tributi di tanto, di quanto si diminuisce
il debito: e sempre sarà falsa tema di perdita
questa che si predice. Il solo autore del
Saggio sul commercio, uomo e per l'acutezza
dell'ingegno e per la sperienza delle cose
umane a tutti di gran lunga superiore, è
stato quello che ha conosciuta tale verità,
e non ha temuto contro alla corrente sostenerla.
Egli crede che l'alzamento è di sollievo
al contadino: e che così veramente sia, in
appresso io lo verrò a dimostrare.
In terzo luogo si dice che il principe, diminuendo
le rendite sue, non può diminuire le spese;
essendo anzi costretto ad alzare i soldi
de' ministri suoi, e a pagar care le merci
proprie, e molto più le straniere, delle
quali sempre non è piccolo il bisogno o l'assuefazione
all'uso: le quali cose chi le dice mostra
non avere sperienza del corso naturale degli
effetti prodotti dall' alzamento; perciò
è bene ch'io gli spieghi. In due stati si
può considerare l'alzamento; prima della
mutazione de' prezzi delle cose, e dopo.
Fatto un alzamento, non subito variano i
prezzi delle merci per adattarsi alle nuove
misure, ma lentamente e di grado ìn grado,
tale essendo, secondo di sopra ho detto,
la disposizione delle menti umane. Tutto
l'effetto dell'alzamento sta in questo spazio
che corre tra la mutazione fatta dal principe
e quella del popolo; seguita la quale, la
prima svanisce e rimane annullata. Il corso
che tengono queste mutazioni ad avvenire
è il seguente.
Fa un principe una mutazione di voci alle
monete: in apparenza egli non si mostra minor
debitore di prima, pagando con voci simili
se non con moneta eguale: in realità egli,
senza accrescer rendite, diminuisce il debito.
Quindi è che tutto il danno dell'alzamento
va a cadere imprima su coloro che hanno soldo
da lui; ma costoro non se ne sentono, trovando
a comprare lo stesso di prima: e se questa
mutazione seguisse in un'isola separata da
ogni straniero commercio, sarebbe lentissima
la mutazione dell' antiche idee, e forse
piuttosto si muterebbe la naturale idea di
valore de' metalli. Ma il commercio fa che
il primo a variare è il cambio, il termometro
degli stati; e se questo non si cambiasse,
l'uno stato si beverebbe il denaro dell'altro.
Mutato il cambio, subito il prezzo delle
merci straniere si muta; perché poniamo che
un mercatante abbia comprata in un paese
una merce per un'oncia d'argento, e la porti
in un altro ove il ducato pesava un'oncia,
ma poi fatto un alzamento non pesa più di
4/5 dell'oncia. Certamente costui non può
dare per un ducato la mercanzia; dappoiché
il cambio, che s'è già posto sul vero, lo
fa trovare al suo ritorno padrone di 4/5,
e non d'un'oncia d'argento. Rincarite le
merci straniere, coloro che non possono più
comprarle cercano trar profitto dalle rendite
loro, che sono le produzioni natie del luogo,
e le vendono più care non meno a' cittadini
che agli stranieri. Agli stranieri non pare
più caro il prezzo per la mutazione de' cambi,
e perché resta lo stesso peso di metallo;
come a dire, vaglia in un paese un'oncia
d'argento uno scudo, in un altro un ducato;
se in questo si muta il prezzo al ducato
d'una 10ma parte, il cambio che era di 100
scudi per 100 ducati si fa di 100 a 110;
mutazione d'apparenza, non di verità. Chi
dunque viene di fuori a comprar quel che
prima valea 100 ducati, e lo trova valer
110, non ne prende cura nessuna sempre che
alla sua patria riceve i suoi 100 scudi.
Ma a' cittadini l'incarimento muove gravi
doglianze: né si può dire che sieno giuste,
né che nol sieno; ma convien chiamarle erronee.
Non sono giuste, essendo falso incarimento,
quando il venditore sotto qualunque nome
chiede lo stesso peso di metallo: non ingiuste,
perché pagandosi i crediti e i salari in
moneta che solo in nome è la stessa di prima,
è cosa dura il dover comprare coll'antico
peso e con mutazione di prezzi, per coloro
che riscuotono l'istesso prezzo e non lo
stesso peso. Sono sì bene erronee querele;
mentre l'inganno delle voci fa che del vero
male, che è la diminuzione delle mercedi,
non si dolgono, del falso si querelano.
In tale stato di lamenti, ognuno per consolarsene
alza il prezzo a quello ch'egli ha da vendere
o affittare, case, terre, mobili; e mentre
questa classe di gente si ristora, torna
il danno onde prima cominciò, cioè su' salariati
dal principe, i quali continuando ad aver
lo stesso soldo, non ne traggono le stesse
comodità. Le querele di costoro costringono
il principe alla fine ad alzar le paghe;
onde è che tutto. ricade finalmente sul sovrano.
Quale è dunque l'utile dell'alzamento? Questo
appunto, che per sentirne danno il principe,
si richiede un giro che non si fa repentinamente.
Or siccome l'alzamento s'ha da far solo negli
estremi mali, un rimedio che apporti tardo
danno è buono: perché, non potendo i mali
insoffribili durare, prima che l'incommodo
della mutazione ritorni sul re, o lo stato
si sana, ed è facile la medicina, bastando
accrescere i tributi secondo la mutazione,
sicché restino eguali a' primi secondo il
peso de' metalli, ed allora tutto è come
se mai non si fosse fatto, e solo le idee
e i nomi restano senza nocumento mutate;
o lo stato muore e si distrugge, e non conviene
pentirsi d'averlo con ogni estrema arte curato;
ma conoscendo essere venuto il termine di
quella vita che a tutte le umane cose la
Provvidenza prescrive, resta solo accompagnarlo
decentemente alla sepoltura.
Sicché ritornando al proposito, è falso che
il principe abbia necessità d'alzar le paghe
subito dopo l'alzamento, mavi corre molto
tempo. Non faccia poi spavento questo accrescer
de' tributi, essendo solo di voce e per emendare
l'alzamento, che in sé stesso consìderato
è un dono d'una parte de' dazi: dono necessario
e vantaggioso, quando la grave infermità
dello stato, divenuto inetto all'antico peso,
lo dimanda.
Quanto alla compra delle merci straniere,
negli stati fruttiferi è poca e poco necessaria;
quanto è minore, tanto è più desiderabile;
e mai non assorbisce tutto il guadagno d'un
alzamento. Voglio anche avvertire che negli
stati ove il principe è libero ad imporre
i tributi, niuna operazione può minorarglieli,
fuorché quella che gli toglie tal potestà;
non dovendo egli regolare la spesa sulle
rendite, ma queste sopra quella, la quale,
quando egli è giusto, si sforzerà che sia,
il più che si possa, minore.
V'è chi più ingegnoso crede dir molto col
dire che l'alzamento è una violenza fatta
alla natura: il che siccome è verissimo,
così non rileva punto. Di tutte le violenze
che si possono fare alla natura, la maggiore
è la morte d'un uomo; né v'è cosa che sembri
più assurda quanto che il ministro del bene
cagioni il massimo de' mali a colui su di
cui egli non per altro ha autorità che per
renderlo felice; e pure ella è talvolta giustizia.
Lo stesso è dell'alzamento.
In ultimo s'oppone che l' alzamento è tirannico
ed ingiusto; e questa opposizione (perché
negli animi di chi regge, niente ha da aver
più forza della virtù), questa opposizione,
io dico, è la maggiore. Così fusse ella vera
tanto, come ella è grande. Ma se noi riguarderemo
bene le sue ingiustizie (che certamente alcune
troveremo esserne in esso) conosceremo che
non bastano a far che mai non si possa fare.
Le ingiustizie sono: I. Che aggrava i sudditi,
e nuoce loro molto, non pagandosi il convenuto.
II. Che diminuisce i soldi. III. Che toglie
ad uno ed accresce ad un altro, senza merito
di questi, senza colpa di quegli. IV. Che
macchia il più prezioso tesoro del principe,
LA FEDE, la quale se non è reciproca, non
dura. Esaminiamole una per una, cominciando
dalla prima.
È falsa locuzione ed indegna di qualunque
è nato non dico suddito, ma uomo, il chiamare
assolutamente ingiusti gli aggravi e le diminuzioni
delle rendite private, che altro non sono
che i dazi ed i tributi. Se noi non siamo
simili in tutto agl'Irochesi dell'America
ed agli Ottentotti dell'Africa, a questi
aggravi appunto ne siamo debitori. Similmente,
uno stato non si salva dalle calamità, se
non col nuocersi a molti uomini, i quali
avendo goduto dell'infinito benefizio della
società umana, è giusto che si sagrifichino
per lei. A dir dunque che l'alzamento è un
dazio, non si dice cosa nuova; a dire che
perciò è ingiusto, non si dice cosa savia;
a dire che non s'ha da fare senza bisogno,
non si dice niente di raro e stupendo: e
sotto un governo giusto, come siamo noi ora,
dire che l'aìzamento non è opportuno è fatica
tanto perduta, quanto il dimostrare che non
è tempo di diroccare chiese, di devastar
campagne, di uccidere innocenti, di prender
danaro da' Banchi. Fa ingiuria alla virtù
del principe la supposizione sola di ciò.
Ma se ne' rischi di grave e giusta guerra
si volesse dissuadere il governo dal fare
un accampamento in terreni culti; una torre
in un sito eminente, ove la divozione avea
inalzata una chiesa che conviene atterrare;
esporvi i più fedeli sudditi a' perigli,
con argento preso da' Banchi o dalle sacre
suppellettili, sarebbe impresa giudiziosa?
Come è inutile l'una, così l'altra è biasimevole.
Sotto un governo ingiusto poi, se è sensato
il timore d'un importuno alzamento, è stolto
il rimedio che con trattati impressi e scritture
non lette neppure dal principe, non che rispettate,
gli si volesse apportare. Conviene solamente
"bonos imperatores voto expetere, qualescumque
tolerare".
Dolersi che il principe non paghi il convenuto
anche è irragionevole; perché o egli non
vuole, o non può pagare. Se non vuole, ha
mille modi, oltre all'alzamento, da non pagare:
se non può, è cosa sciocca che i suoi sudditi
vogliano ad ogni modo esser pagati da lui.
S'egli non ha niente privatamente suo, ed
è sua solo la suprema autorità sulle robe
e sulle vite, pagando fa un circolo vizioso
e inutile, mentre rende a' sudditi le loro
robe istesse. V'è questo solo divario, che
prende da tutti, e dà a pochi più meritevoli
degli altri. Ma se i creditori del principe
fossero i più agiati, sarebbe molto ingiusto
togliere a' più poveri per dare a' meno bisognosi.
Nelle congiunture calamitose avviene appunto
che chi non serve al principe, quali sono
i contadini e i bassi artigiani, s'impoverisce.
Dunque è degno di commendazione il principe
se paga meno del convenuto, e se diminuisce
i soldi quando, non avendo più denaro, conosce
non essere spediente dissanguare l'infelice
contadino desolato dalla barbarie delle guerre,
per soddisfare appieno il ricchissimo finanziere.
Onde si conosce con quanta contradizione
parlino quegli scrittori che ostentando rigide
massime gridano contro a' grossi salari,
e di tali spese ragionano come di tanto sangue
tratto a' nudi ed affamati agricoltori; biasimano
poi l'alzamento, e quel ch'è più meraviglioso,
conoscono esser esso la medicina di quel
male.
Da quanto s'è fin qui detto, diviene manifesto
quel che si convenga giudicare dell'altro
male, cioè che si tolga ad uno per dare,
ad un altro. In voci assolute una tal sentenza
è degna di detestazione, poiché ella è la
definizione appunto della tirannia; la quale
è ((quello stato di governo, comunque siesi
o di molti, o di pochi, o d'un solo, in cui
hanno ingiusta distribuzione i premi e le
pene)). Ma se coloro a' quali si toglie sono
meno bisognosi di quelli a cui si dà, è giusta
l'operazione; non risultandone altro, se
non che i pesi dello stato sono portati,
come è dovere, da que' che il possono; i
quali non solo pagano il principe, ma rifanno
a' più poveri il danno dell'imposizione generale.
E che ciò nell'alzamento avvenga, si dimostrerà
di qui a poco.
In ultimo non vacilla la fede regia per un
alzamento, fuorché i quando è inopportuno.
Il mancare alle promesse quando è forza di
necessità, non toglie fede, ma accresce compassione;
come nella Repubblica genovese abbiamo, non
è molti anni, veduto avvenire. Agli uomini
non danno sospetto le disgrazie che procedono
da cause naturali, ma sì bene i vizi e la
mala fede, se non possano esser frenate o
da timore interessato, o da autorità superiore.
Sia il principe giusto, e si avrà fede in
lui. Faccia l'alzamento quando è necessario,
e niuno se ne lamenterà. Non paghi quando
non può, e il non poterlo non è sua colpa,
ed e' ne sarà compatito più, e con maggior
fervore d'animi soccorso.
Mi nasce un timore nell'animo, che molti
potrebbero credere aver gli altri a differenza
mia avuto in mente discorrere dell'alzamento,
quando egli è fatto senza necessità. Se essi,
che io nol credo, avessero così pensato,
sarebbero perciò vieppiù biasimevoli: perché
niun medico scrivendo della virtù de' medicamenti
ne dirà sul supposto che sieno dati a' sani:
né i giurisperiti trattano delle pene a cui
con ingiustizia si condannano gl'innocenti.
Non è degno di chi si gloria scrivere accuratamente
d'una cosa, supporre sempre ch' ella sia
amministrata fuori di tempo e di ragione;
né quando ciò si volesse supporre, vi si
può fare un libro; poiché in due versi soli
si dice tutto. È sentenza che non soffre
eccezione, tutto quello che è fatto sconciamente
ed inopportunamente esser cattivo: e quel
botanico che volesse discorrere delle virtù
de' semplicil così amministrate, terminerebbe
il libro alla prima facciata.
Danni falsi del popolo.
Dirò ora brevemente de' danni che si dicono
venire al popolo dall'alzamento; mentre a
lungo ne disputerò nel capo seguente.
In primo si vuole che sia un dazio; il che
è impropriamente detto, perciocché i dazi
sono uno smembramento delle ricchezze di
molti concittadini, che unite compongono
quella che è detta forza dello stato. I biglietti
regi sono uno sforzo fatto dallo stato sopra
la somma de' dazi, e sono perciò un dazio
anticipatamente preso. L'alzamento è un fallimento
di questo debito. Sicché egli non è dazio,
ma un rimedio per non accrescerne e pagare
nel tempo stesso quei debiti, o sia quell'uso
di forze non reali, tempo prima fatto. Conviene
perciò affliggersi de' debiti contratti per
spese esorbitanti, non della estinzione di
essi, che ad ogni costo si ha da fare, e
che coll'alzamento si ottiene.
E che l'alzamento non sia dazio, siegue da
quell'istesso che tali scrittori predicono
al principe, che le sue rendite sbasseranno.
Or non si può udir cosa più sciocca, che
sia dazio ciò che scema i dazi. Né giova
dire che ciò è in due tempi diversi; essendoché
l'alzamento in sulla prima è in danno del
popolo, e poi del re; mentre qual è quel
popolo a cui per un perpetuo sollievo non
basti l'animo di tollerare un momentaneo
dolore?
Ma dato che l' alzamento sia un dazio: sono
dunque i dazi un male? È questa sentenza
egualmente stolta, come l'altra di pocanzi,
che il porgli sia ingiusto. La loro ingiustizia
e malignità proviene da circostanze particolari,
né riguarda la loro natura.
In secondo si dice che s'impoverisce lo stato.
Ciò è detto da tutti ad una voce, senza che
possa intendersi da alcuno. Le ricchezze
d'uno stato sono, come altrove ho detto,
le terre, le case, gli uomini e il danaro.
L'alzamento non devasta i campi, non atterra
le case, non uccide gli uomini: dunque se
non offende la moneta, non può certo generar
povertà. Ma alla moneta non nuoce cacciandola,
non dandola in mano al principe; giacché
secondo i loro detti al principe s'impiccolisce
la rendita: dunque come si ha egli a impoverire?
Il solo effetto suo è diminuire la quantità
di danaro che circola tra i sudditi e il
principe, pagata dagli uni, spesa dall'altro:
ma ciò quando è poca la moneta è utile grande
e singolare. Quando un fiume per la poca
acqua non è navigabile, se gli rallenta il
corso, e si vede divenir gonfio e maestoso.
Se i canali del commercio languono inariditi
di moneta, togliete i circuiti lunghi ed
inutili, sicché la moneta cammini con minor
fretta, e gli vedrete tosto riempiuti.
In terzo si dice che le merci proprie rincariscono.
Ma non se ne paga già il prezzo a' forestieri.
In quarto, che le straniere rincarano. Meno
danaro dunque va fuori, meno si spossa uno
stato, più merci e manifatture proprie sopravanzano
da vendere agli stranieri. L'economia degli
stati è appunto che si venda più del comprato,
o sia che più si estragga che non s'immetta.
E se ciò è utile sempre, e negli stati ben
governati (come poco fa fece Benedetto XIV
pontefice ripieno di vero amore al suo stato,
e degno di tempi migliori) levasi ogni dazio
all' estrazione delle merci natie, fuorché
delle non lavorate; e pongonsi sulla immissione
delle estranie, fuorché de' materiali da
lavoro: chi mai si persuaderà esser danno
d'un principato il rincarare i generi stranieri
in tempi stretti ed angustiati?
In quinto, che il principe paga meno. Se
n'è disputato di sopra.
L'abbate di S. Pietro aggiunge la sesta ragione,
che è una delle quattro da lui enumerate,
ed è che il commercio s'interrompe durante
l'aspettazione d'un alzamento, per la speme
di vender più caro. Pensiero che al pari
degli altri tre è tutto falso. Fatto un alzamento,
il mercante o vende a' prezzi antichi, ed
ha peggior condizione di monete, o alza il
prezzo, ed ha maggior numero di monete, ma
egual peso di metallo, e così non migliora.
Dunque non gli giova aspettare. Passiamo
da tanti pensieri falsi una volta a' veri.
Veri danni che produce un alzamento.
Sempre che il diminuire i salari a' ministri
del principe è inutile e pernicioso, sarà
inutile e pernicioso e perciò ingiusto l'alzamento.
Ne' tempi prosperi l'alzamento è d'aggravio
a' poveri, siccome ne' calamitosi è di sollievo.
Il signor Melun, che ha meglio d'ogni altro
discorsa questa materia, è inciampato in
un sillogismo che gli mostrava l'utilità
dell'alzamento, di cui l'inganno è così impercettibile
che quasi non si ravvisa. Egli ha ragionato
così. L'alzamento giova al debitore, nuoce
al creditore: or i debitori son sempre più
poveri: dunque l'alzamento è di sollievo
al povero. L'inganno sta in questo, che ricco
è ((colui il quale ha modo di poter godere
delle altrui fatiche senza dover prestare
una equivalente fatica in atto; avendo presso
di sé le fatiche sue, o da' suoi maggiori
fatte prima, e convertite in danaro)). Perciò
è ricco chi ha molto danaro, ed è creditore
delle fatiche: il povero non ha danaro, ma
n'è creditore sul ricco mediante la sua fatica,
ch' egli a lui deve. Sicché stando sull'opposte
bilance il danaro e le fatiche, il ricco
è il debitor del danaro, il povero il creditore.
Or l'alzamento giova non al debitore delle
fatiche, ma a quel del danaro; dunque giova
al ricco, facendo che con maggior fatica
s'abbia ad acquistare lo stesso vero valor
di metallo. (Io qui parlo dell'alzamento
prima della mutazione de' prezzi delle fatiche,
seguendo la quale egli è distrutto). Sicché
egli è ingiusto, giacché arricchisce il ricco,
ed aggrava di peso il povero.
Ma quando lo stato è travagliato, il principe,
che per essere la più ricca persona è il
maggior debitore di danaro, diviene povero
di danaro; e perciò gli giova l'alzamento
a farlo restar creditore delle medesime fatiche
da' ministri, non ostante ch'ei non soddisfi
lo stesso debito di mercede. All'utilità
del principe, che è il centro della società,
dovendo cedere quella d'ognuno, ancorché
restasse aggravato il povero, non converrebbe
dolersene. Ma il fatto è che il povero ne
trae sollievo, non assolutamente (come ha
creduto il Melun), ma relativamente, in quanto
del nuovo peso tocca a lui la minor parte.
Imperciocché tutto quel risparmio che fa
il principe su i suoi ministri, non possono
questi farlo sugli altri, che alzano subito
il prezzo alle loro fatiche; onde conviene
loro tollerar qualche perdita per la moneta
cambiata. Coloro a' quali la danno, anche
essi perdono, e così di grado in grado la
perdita si distribuisce sopra tutti, finché
perviene a' contadini; da' quali nel nuovo
pagamento de' pubblici pesi è renduta al
principe. Or poiché, nel circolo delle spese
che fa il principe, egli è in una estrema
punta, e nell'altra i contadini, e in quello
dell'introito subito da' contadini si passa
al principe; ne siegue che ne' risparmi di
spese il minor danno è de' contadini; nella
diminuzione de' dazi il maggior utile è loro.
Ambedue cotesti effetti ha l'alzamento delle
monete con sé, quando egli è fatto nelle
strettezze de' bisogni: e a dar di ciò una
immagine viva, si può considerare quel moto
che fanno le acque d'un pozzo percosse da
una pietra cadutavi nel mezzo, che di quanto
ho detto è la similitude più naturale.
L'altro errore in cui cade il Melun è simile
al primo, concludendo un suo discorso così:
((L'alzamento delle monete per guadagnare
il dritto della zecca è pernicioso; per sollevare
il contadino aggravato dall'imposizione è
necessario)). Assolutamente profferita questa
necessità è falsa; mentre in vece di sminuire
l'intrinseco valore de' dazi, è meglio toglierli.
Un re di Francia che riscuota 200 milioni
di lire sul suo popolo, perché mai volendo
sollevarlo da tanto peso ha da far che mutata
la moneta, 200 milioni corrispondano a soli
150 milioni antichi, e non più tosto annullare
50 milioni di dazi? Voler udire la medesima
grandiosità di numero, ma di cose mutate,
è ridicola vanità. Allora dunque è necessario
l'alzamento, quando da una parte è forza
alleggerire il peso, dall'altra non si può
palesemente farlo: e che questo caso avvenga
molte volte, pare che dovesse esser noto
al Melun, che ha dato a risolvere questo
problema non meno grande e serio che malagevole
e scabroso.
Chiede egli, "quando l'imposizione necessaria
a pagare i pesi dello stato è divenuta tale
che i debitori d' essa, con tutto il rigore
delle esecuzioni militari, non hanno assolutamente
modo da pagarla, che convien fare al legislatore?".
Niuno di que' che si sono creduti capaci
di rispondere al Melun ha posto mano alla
risoluzione d'un quesito il quale, sebbene
sia molte volte avvenuto, si può dire che
nemmeno in pratica sia stato ancora con ferma
e considerata ragione risoluto: avendo nelle
grandi calamità e nelle somme perturbazioni
piccola parte il senno sulle azioni. Io credo
ch'ei si debba risolvere così. Quel che non
si può avere, non bisogna richiederlo neppure;
mentre il richiederlo violentemente non dà
modo da acquistare nemmeno quel poco che
si potrebbe. S'oppone a ciò la necessità
delle spese: a queste dunque convien supplire
o con consumare le imposizioni degli anni
avvenire, e questi sono i biglietti di stato,
le azioni, e que' che noi diciamo arrendamenti;
o con minorare le spese, e questo è l'alzamento.
Se la tempesta mostra esser sul fine, è migliore
l'alzamento; mentre quando il danno di lui
ritorna sul principe, tutto è già in calma:
se le onde sono senza speranza di vicina
quiete agitate, è miglior consiglio l'altro;
e quando amendue non bastano v'è la servitù;
la quale (come lo dimostrò Sagunto, Cartagine
e Gerusalemme) è migliore d'una infelice
e disperata difesa, creduta solo dagli oratori
gloriosa, perché essi hanno, a causa della
vicinanza loro, confuso l'eroismo colla pazzia.
È adunque necessario l'alzamento quando si
vuol minorare la spesa; ma per la necessità
delle guerre non si può palesemente dimostrarlo,
per non disgustare e sollevar le milizie
e i magistrati, impiccolendo i soldi.
Finalmente anche è un male dell'alzamento
la minorazione de' censi e delle rendite
pecuniarie; il quale però, come io dimostrerò
al lib. V, è male piccolo, e talvolta anche
è bene.
Vere utilità dell' alzamento.
Tutto quanto ha di buono in sé l'alzamento,
e di cui così prolissamente tanti con diversità
d'opinioni ragionano, fu dalla prudenza romana,
ancorché in tempi barbari, conosciuto; ed
è da Plinio scrittore gravissimo raccolto
in due versi soli. ((Librae autem pondus
aeris imminutum bello punico primo, CUM IMPENSIS
RESPUBLICA NON SUFFICERET; constitutumque,
ut asses sextantario pondere ferirentur.
ITA QUINQUE PARTES FACTAE LUCRI, DISSOLUTUMQUE
AES ALIENUM)). Ecco le tre grandi utilità:
soccorrere a' gravi bisogni, risparmiar sulle
spese, saldare i debiti.
È manifesta pruova della prima utilità, che
niuno di tanti disapprovatori dell'alzamento
ha mai saputo proporre un migliore espediente.
I debiti pubblici detti fra noi arrendamenti,
quando lo stato fosse già impoverito, sono
assai peggiori, come al libro V dimostrerò.
La creazione de' biglietti di stato è men
cattiva dell'altro, e su di lei discorrerò
al libro IV. Ora dico solo che chiunque ha
biasimato l'alzamento, ha gridato più forte
assai contro i biglietti. Adunque non essendo
mai cattivo quel che non ha vicino un migliore,
l'alzamento è buono a soccorrere le pubbliche
necessità.
Maggiormente cresce l'utilità dell'alzamento,
perché egli giova non con aumentare l'imposizione,
ma con diminuire la spesa; e siccome la massima
che dovrebbe esser sempre avanti gli occhi
de' principi è questa, che ((parcimonia magnum
est vectigal)), così è da credersi ottimo
quel mezzo che per una parte scema il peso
de' tributi e gli rende più fruttiferi col
pagamento facilitato, per l'altra riseca
le spese; le quali nelle calamità delle guerre
non solo sono grandissime, ma per lo più
fatte con soverchia prodigalità. Dall'economia
del principe siegue quella delle persone
più agiate e ricche che sono d'intorno a
lui; le quali non solo hanno minor salario,
ma minor pagamento da' loro affittuari e
debitori: e così il povero resta doppiamente
sollevato e del regio dazio, e delle private
assai più crudeli esazioni. E quantunque
ciò possa parere ingiusto, egli non l'è:
mentre la privata ingiustizia, che dalla
pubblica utilità maggiore è seguita, cessa
d'essere ingiustizia, e diviene necessità
e ragione.
E quindi è la terza utilità del pagamento
de' debiti non meno grande rispetto a' debiti
dello stato, che a que' de' privati co' privati.
Quanto al primo, ella è cosa verissima niente
esser di più nocumento quanto il sospendersi
i pagamenti del principe: perché sospesi
i suoi, i creditori di lui sospendono i loro;
e così tutto l'oriuolo resta immobile in
ogni sua ruota. Se rigirano i loro debiti
su quello del principe, ecco nati inaspettatamente
i biglietti di stato. Onde conviene accordarsi
in questo, che o il principe ha da fallire
palesemente, o mostrar di pagare per intiero,
ancorché paghi meno cose reali. E sebbene
sia male che i ministri dello stato e que'
che per esso si sagrificano sieno mal pagati,
pure si può per consolarsene avvertire che
costoro sono i più ricchi, e che quanto più
durano le agitazioni dello stato, tanto arricchiscono
più.
E da ciò si conosce quanto sia falso l'assunto
dell'abbate di S. Pietro, e quanto ne sia
frivola la dimostrazione. Egli vuol provare
che l'alzamento di tutti ((è il più ingiusto,
sproporzionato e gravoso tributo)). Lo dimostra
dicendo ((che in un alzamento colui che ha
censi perpetui e rendite ìn moneta fisse
ne perde una gran parte: minor perdita è
quella di chi ha dato in affitto, perché
finito il tempo, egli lo cambierà: niuna
ne sente chi tiene l'affitto, anzi v'ha guadagno
vendendo a prezzo maggiore)). Quindi conclude:
((E si può immaginar sussidio peggiore di
quello che è pagato solo da un terzo de'
sudditi, e da altri per cinque o sei anni,
da altri per sempre?)). Se l'altre molte
opere non acquistassero a sì grand'uomo le
stima ch'ei merita, questo raziocinio potria
mostrarci ch'ei non sapesse qual tributo
sia ingiusto. Dovendosi in un luogo edificar
le mura da' cittadini, sarebbe giusto o ingiusto
esentar dall'opra le vergini, i bambini,
i vecchi e gl'infermi, e farne portar il
peso a un terzo solo degli abitanti? È giusto
quel dazio che cade non sopra tutti egualmente,
ma sulle spalle più forti. Or le persone
che hanno censi e rendite fisse, sono gli
antichi signori, i luoghi pii ricchissimi
e le opulenti chiese e monasteri: né si pagano
censi enfiteutici a' contadini. Coloro che
danno in affitto sono non solo i comodi,
ma i poltroni e neghittosi, tanto più degni
di pagare, quanto senza accrescere le ricchezze
dello stato consumano non solo le proprie,
ma le straniere ancora. Né bisogna stare
a chiamare in soccorso e a spaurirci colle
tenere voci d'orfani, vedove, vergini e pupilli;
poiché questi sono pochi assai. Il vero orfano,
il vero povero è il contadino industrioso,
l'artigiano, il marinaro e il mercatante.
Di costoro s'ha da aver compassione; ed essi
sono quelli che essendo soliti pigliare in
affitto guadagnano nell'alzamento.
Così è caduto in errore un uomo d'ingegno
grande ed acutissimo, trattovi dalle querele
e dall'aspetto miserabile della Francia a'
suoi dì, e dall'impetuosa voglia ch'egli
avea d'apporre sempre alla fine de' suoi
discorsi quelle voci venerabili: Quod erat
demonstrandum. Voci che essendo state da'
matematici consecrate alla verità, dovrebbe
esser vietato che altri in scienze inculte
ancora ed ignote abusandone le profanasse.
Quanto a' debiti tra privati e privati, confesso
imprima che è giusto non diminuirgli: ma
è necessario insieme sapere come il maggior
male delle guerre non è l'impoverirsi il
popolo, ma lo stravasare il denaro, e raccogliersi
tutto in mano di pochi. Male gravissimo,
su cui discorrerò al libro seguente. Da questo
male, che nasce da un disequilibrio nella
costituzione del governo, fu afflitta l'antica
Roma, e ne vennero quelle liberazioni de'
debitori che paiono ingiuste, ma non lo erano:
poiché ne' corpi che contraggono indigestioni
e replezioni, le purghe violenti hanno a
curare il difetto della natura non buona.
Non minor difetto è quello d'un principato
d'esser ripieno di liti tra i creditori e
i debitori di maggior somma che non hanno.
Le liti multiplicano la ricchezza ideale
e scemano la reale: perché mille ducati pretesi
da uno e non pagati da un altro, appaiono
due mila, vantandosi egualmente d'avergli
non meno chi gli aspetta tra breve, che chi
senza sicurezza gli ha; e intanto che tra
loro contrastano per spogliarsi, si consuma
quel tempo e quell'opra che potrebbero amendue
impiegare mercatando ad arricchirsi davvero.
È perciò degna cura d'un principe disingannare
chi spera maggiori ricchezze delle realmente
esistenti; acciocché conoscendosi povero,
fatichi: e quindi l'estinzione de' debiti
e delle pretensioni, comunque si faccia,
è gran bene a uno stato.
Similmente il sovrano ha da estinguere il
più presto che può i debiti suoi; e a chi
ne rimane povero gli giova almeno il saperlo
per tempo, ed aver ozio da potersi industriare.
Ma se convenga a chiare voci dirsi fallito,
o no, questo è quel dubbio che, come ho promesso
di sopra, voglio esaminare.
Il fallimento è migliore senza dubbio che
i nuovi dazi. È più facile e spedito: né
dà campo che n el rigiro straricchisca qualche
furbo progettatore, come fu Giovanni Lavv
in Francia. Ma egli è troppo subitaneo, e
impetuosamente percuote. Quel ch'è peggio,
percuote le persone che sono intorno al principe
le più potenti, onde è da temerne tumulti
e ribellioni; e sfregia la fede sua con macchia
grande ed indelebile.
L'alzamento ha lo stesso effetto del fallimento,
ma il danno ne è più lento, e cade spandendosi
sopra tutti, onde è meno pungente e clamoroso:
ma quel che è più, contiene in sé una economia
sulle spese.
Conosco che il presente capo è divenuto ormai
lungo soverchio; ma io non credo esserne
in colpa, né mi pare poter finire senz'aver
prima dette le maniere colle quali si fa
il guadagno dell'alzamento, e considerato
quale ne sia la migliore. Tre sono i mezzi,
quanto è a dire il merco, la nuova coniata,
ed il semplice editto de' prezzi delle monete.
La prima maniera è quella che si usò negli
antichi tempi; onde si trovano molte monete
antiche con merchi nel mezzo, che esprimono
la mutazione del loro valore: ma perché tali
merchi s'imitano facilmente, onde si divide
il guadagno della mutazion della moneta tra
la zecca e i privati, perciò sonosi a ragione
disusati.
L'altra si è costumata in Francia nel presente
secolo; ed ella sarebhe buonissima, eccettocché
si perde molta spesa nella nuova coniata,
e nelle monete che si trovano consumate il
profitto dell'alzamento è minorato dalla
necessità di dover riempiere quel mancante
metallo. In oltre si lascia il commercio
per qualche tempo interrotto e rappreso nel
disturbo della mutazione, e si agita e si
confonde ogni cosa.
L'abbate di S. Pietro aggiunge a tanti incommodi
il guadagno che i forestieri faranno in coniare
monete simili anch'essi; e poi un tal guadagno
lo duplica nel computo del danno, perché
fatto da' nemici dello stato. Sono questi
spauracchi da mettere a' bambini. Nel nostro
Regno si coniarono cinque milioni di monete,
che poi s'alzarono d'un trenta per cento,
e neppur un carlino n'è stato battuto fuori:
e lo stesso fu nella Francia. Né può essere
altrimenti, poiché dato che gli stranieri
coniassero, come faranno poi a far entrar
la loro moneta là dove è alzata? In dono
non la manderanno. A comprar merci in un
paese distrutto, che non ha le bastanti per
sé, nemmeno. In cambio della vecchia moneta,
quando questa se la ritira il principe e
la rifonde, non possono. Dunque come ha ella
a venire? Sicché tal timore è vano.
La terza maniera di alzar la moneta con editto
è la migliore, ma v'è poco guadagno pel principe,
che si trova senza moneta. Nel solo nostro
Regno, ove è molto denaro depositato ne'
Banchi, potrebbe fare il principe divenir
suo tutto il guadagno loro, e così senza
la spesa di rifonder tutta la moneta, ei
n'otterrebbe il giovamento; ma negli altri
stati non vi sono tante ricchezze ne' Banchi,
mentre o non vi sono Banchi, o non hanno
altra ricchezza che la fede e la sicurtà,
come è nel Banco d'Olanda. E da ciò viene
che ivi s'hanno ad usare i due sopraddetti
modi.
Quanto si è finora detto da me è tutto opposto
al torrente della opinione volgare; la quale
avendo avuta tanta forza da menar seco anche
i savi, non mi lascia sperare ch'io possa
averle contrastato in modo da aver acquistati
a me molti seguaci. Della qual cosa siccome
pare ch'io dovessi esser dolente, così ne
sono per contrario lieto e contento. Conosco
quanto sia facile che importunamente si proponga
un alzamento, e s'eseguisca, ostentando bisogni
e necessità o false, o assai leggiere. E
certamente chi cercherà l'origine dell'opinione
volgare troverà ch'essa, come tutte le altre
opinioni della moltitudine, non ha altro
di falso eccetto l'essere conseguenza generale
tirata da induzione particolare; ma i fatti
onde deriva gli troverà tutti confacenti
a formarla: e l'origine dell'odio contro
l'alzamento è questa. Gli antichi popoli,
per quanto ce n'è noto, non si dolsero delle
mutazioni della moneta, finché si pervenne
al dominio de' barbari settentrionali. La
forma di governo che costoro stabilirono
ovunque giunsero, fu despotico-aristocratica;
governo di cui pochissimi autori ragionano,
avendovi poco avvertito. Ella nacque necessariamente
dall'innesto delle due nazioni, la conquistatrice
e la vinta. I vecchi abitatori divennero
schiavi de' barbari; ma questi siccome viveano
tra loro in prima aristocraticamente, così
vollero continuare. E perciò formando tra
loro quel Senato, ch'essi dissero Parlamento,
prescelsero uno a cui altro di regio non
dettero che il nome e le insegne e la spontanea
loro sottomissione. Così né soldati, né rendite,
né ministri propri aveano i re, oltre ai
loro ereditari; ma degli elettori, che essendo
tutti dispotici nelle loro terre aveano e
soldati, e dazi, e ricchezze, doveano forzosamente
servirsi. Dura consimile governo ancora in
parte nella Germania e nella Polonia: altrove
non più tanto come ne' secoli passati. Ora
da sì fatti ordini venne che i re e gl'imperatori
erano poverissimi di propria forza: e poiché
fu loro data, come segno di sovranità, la
zecca, su di lei cominciarono a rivolgere
gli studi e le arti, ed a saziarvi la loro
non ingiusta avidità. Così d'una istituzione
fatta pel ben pubblico si fece un capo di
rendita e di profitto, il migliore che i
re avessero, perché tutto loro: onde si cominciò
a concedere come una rendita regia eguale
a' dazi e pedagi, e così divenne annessa
alla sovranità, o a quel dominio che l'avea
dal sovrano diretto ottenuta. Fu tanto l'abuso
che della zecca fecero i principi per mal
regolata avarizia, che i Parlamenti ancora
ripieni d'autorità, e di potere, vietarono
loro talvolta il variar la moneta, e lo fecero
col giuramento confirmare: ed i popoli di
ciò, quasi liberati da gravissimi mali, ne
seppero loro grado. Si sarebbe l'ereditario
orrore potuto cancellare dagli animi popolari
nelle ultime necessità della Francia, se
la salutare operazione dell'alzamento non
si fusse mista e confusa con altre non tutte
lodevoli: e perciò ancora si dura a temere
ed abborrire quel che, essendo cattivo e
brutto in sé, è poi qualche volta, al pari
della crudele e sanguinosa guerra, necessario
e buono. Ma io temo tanto che senza necessità
si metta mano alle monete, che se non avessi
perfetta conoscenza del tempo e del principe
sotto cui ho avuta dal Cielo la sorte di
vivere, o non avrei scritta la verità, o
mi sarei dallo scrivere cosa alcuna astenuto.
Intanto la sua virtù m'assicura appieno ch'egli
non toccherà mai le monete senza estrema,
e dirò quasi disperata necessità; e la sua
grande e meritata fortuna mi promette che
a tale stato, vivente lui, non perverremo
giammai.
CAPO QUARTO
Considerazioni sügli avvenimenti della Francia
nel 1718 cagìonati da una nuova coniata della
moneta, con alzamento del valore di essa.
Siccome quanto si può dire sull'alzamento,
fu tutto in Francia nella minore età di Luigi
XV con grandissima contenzione d'animi disputato
tra il Parlamento e la Corte, e seguito da
gravissimi accidenti; io stimo cosa non inutile
il ricondurre qui ad esame le proposizioni
dell'uno colle risposte dell'altra; tantoppiù
che l'esempio di una nazione potente ed ingegnosa
istruirà più di qualunque ammaestramento.
Era la Francia nel 1718 oppressa da' mali
che la guerra ultima aveale cagionati; i
quali, sebbene non ne durassero le cause,
non essendo stati medicati mai, duravano
ancora e s'andavano sempre incrudelendo.
Filippo d'Orléans, reggente e zio del re,
uomo d'animo grande, era non meno afflitto
del male che incerto del rimedio. La persecuzione
data a' finanzieri avea vendicata in certo
modo la rabbia popolare e saziatala, ma non
dato ordine alle finanze. Il conto fatto
dare dal Contrôleur général il signor Des-marets,
siccome avealo pienamente giustificato, così
scopriva esser la piaga quasi incurabile.
La somma de' debiti del 1708 ascendea a quasi
seicento milioni di lire, e in dieci anni
s'era fatta sempre maggiore. Questi debiti
erano espressi sopra carte alle quali davasi
libero commercio: ma il numero loro divenuto
grandissimo, e la cognizione dell'impotenza
dell'erario reale a pagare sì vaste somme,
toglieva loro il credito, onde il commercio
soffriva intoppo grandissimo; e la misera
gente era dissanguata dagli avidissimi usurai,
che dicevansi agioteurs. Per abolire tali
biglietti se ne fece una grossa riduzione;
ma dopo fattala, restandone ancora più di
duecento milioni di lire col frutto loro
di tanti anni, il signor d'Argenson Custode
de' sigilli, propose al duca un alzamento
di tutta la moneta d'oro e d'argento, con
coniarsi di nuovo tutta la vecchia, e alzarsi
di quasi un terzo di valore. Così sotto altre
sembianze e con movimento più lungo si veniva
a non pagare il restante de' biglietti, e
a lacerargli: ed in somma, come tutti i savi
aveano preveduto, ed era necessità, facea
la Corte un fallimento generale.
Contro tal nuovo consiglio deliberò il Parlamento,
mosso più da' sdegni privati e da prurito
d'applausi popolari, che da matura considerazione
delle pubbliche necessità: e i 18 maggio
del 1718 si presentò a far rimostranza al
sovrano. Di questa io tralascerò le querele
della lesa giurisdizione del Parlamento,
e di altre dispute particolari di quel governo;
e prenderò ad esaminare solo ciò che appartiene
al mio istituto. Si disse nel discorso: "Permetteteci,
Monsieur" - parlando al duca reggente
- "il rappresentarvi che mentre l'editto
fa mostra voler estinguere i biglietti pagandogli,
la perdita è tutta di chi porta alla zecca
la moneta. Eccone un esempio. Un particolare
porta alla zecca 125 marchi d'argento, che
vagliono 5.000 lire di quelle che sono di
40 al marco, e porta 2.000 lire di biglietti
di stato; ne ritrae poi 7.000 lire di nuova
moneta, che non pesano più di 116 marchi:
sicché egli perde tutti i suoi biglietti,
e dippiù 9 marchi sopra 125. Siccome la legge
è generale, chi non ha biglietti soffre perdita
al pari di chi ne ha; nel tempo che il pagamento
de' biglietti è un debito privilegiato dello
stato, soprattutto dopo tante riduzioni fattene,
che ha da esser soddisfatto dal re solo".
Ciò che espose il Parlamento è vero; ma non
potendo alla gran mente del duca esser ignoto,
fu imprudenza svelarlo alla moltitudine,
a cui era espediente non farlo chiaramente
percepire. E in fatti che ne potea dedurre
il Parlamento? Che il duca d'Orléans ne'
suoi studi chimici avesse dovuta trovar l'arte
di far l'oro? Se le rendite regie, come era
noto al Parlamento, non bastavano a pagar
tanto debito, qual altro consiglio v'era
fuorché non pagarlo? E come potea farsi che
ciò non fusse danno de' creditori? Il Parlamento
non volea nuovi dazi; e sarebbe stato dannoso
il porgli su i sudditi poveri per pagare
i ricchi sudditi, e non pochi stranieri.
Dunque quanto si facea doveva esser tutta
finzione di pagamento così ben condotta,
che ne cadesse il danno sopra tutti, acciocché
per ciascuno divenisse minore. Il mostrare
perciò che l'alzamento cadea sopra tutti,
è dirne un pregio, non un difetto. Voler
che il re solo paghi i biglietti è dire una
grandissima impertinenza: mentre il re solo
senza autorità di porre dazi, quale il Parlamento
lo volea, è il più povero della Francia,
se non mette mano a vendere i mobili suoi
preziosi. Che se si era detto essere i biglietti
un debito privilegiato, s'era fatto per continuar
loro qualche residuo di vita e di moto; essendo
la fede e la promessa regia l'anima loro,
tolta la quale essi cadono estinti affatto.
Continuò a dire il Parlamento: "È chiara
pruova che i sudditi del re tutti quanti
essi sono soffrono danno, il potersi affirmare
senza eccezione, che ad ogni privato s'accrescerà
la spesa d'un quarto senza accrescersi il
consumo; e la rendita diminuirà d'un terzo:
intanto per la differenza che corre tra il
valore dato dal nuovo editto alle monete
e il loro intrinseco, il commercio tutto,
e particolarmente lo straniero, soffrirà
perdite smisurate". Ciò in parte anche
è vero, essendo certissimo che crescono le
spese, ma non tutte le rendite. È falso però
che ambedue queste perdite vadano congiunte;
poiché separatamente a molti scemasi la rendita,
e a molti altri cresce la spesa: ma da tutto
ciò altro non viene che una generale economia
e risparmio assai desiderabile. Falsissimo
è poi che il commercio straniero ne soffra;
stante la mutazione de' cambi rende agli
stranieri insensibile l'alzamento. Che se
rincresceva ed era molesta una forzosa economia,
non era il 1718 tempo di dolersene, ma diciotto
anni prima. Il lusso delle monarchie sono
le guerre, dagli effetti delle quali nella
pace non si può scampare senza ridursi tutti
a vita parca e frugale. Sono per altro degni
di scusa i Francesi se si dolsero dell'alzamento;
poiché l'ammalato stride ed urla quando e'
si medica, non quando vivendo sregolatamente
contrae il male: e perciò se le guerre sono
ripiene di lieti canti, e di feste, e d'allegrezze,
e le mutazioni della moneta sono luttuose
e meste; se n'ha da argomentare che quelle
sono i disordini e i morbi, queste le medicine.
Fu conchiuso il discorso così: "Quanto
agli stranieri, se noi prendiamo da loro
una marca d'argento eguale a 25 libbre antiche,
ne dovremo dare 60. Ed egli ciò che paga
a noi, lo pagherà in moneta nostra, che a
lui non costa altro che l'intrinseco".
Questo poi è pensiero falso tutto. È vero
che il forestiere pagherà in moneta nuova:
ma avendo lo stesso Parlamento predetto che
tutto sarebbe rincarato, cioè pagato con
maggior numero di lire, lo straniero dovendo
soggiacere a' prezzi che trova alzati, pagherà
le merci più care, ancorché con moneta più
leggiera; e così quel che risparmia sul peso
perdendolo sul numero, non guadagna alcuna
cosa.
Onde quel timore che nella fine del discorso
mostrasi d'avere dell'introduzione di monete
battute fuori, è malissimo fondato; stantecché
dove non v'è sproporzione tra i metalli non
può farsi sul conio guadagno: e quando fosse
stato possibile ciò che si temeva, sarebbe
stato da gradirsi molto per la Francia rimasa.
quasi senza denaro. Temette dunque il Parlamento
d'un bene impossibile, ma grandissimo; e
ne temette come di un male prossimo e funesto.
Né creda alcuno che l'aver il Parlamento
in una sola notte deliberato, meriti. addursi
per iscusa; perché lo stesso ne sarebbe stato
anche dopo lungo esame: essendo ciò che dalla
superficiale considerazione, quale il più
degli uomini usano, suol provenire.
Ora per continuare la storia: il re non rispose
al Parlamento, se non dicendo che l'editto
e l'opera non si poteano più sospendere e
rivocare. Fattosi animo il Parlamento, di
sua autorità rivocò e annullò l' editto con
espressioni sediziose. Consiglio imprudente,
e che fu fatale alla Francia. Il Consiglio
di stato annullò subito l'arresto del Parlamento
de' 29 giugno, né fece altra dimostrazione;
ascoltando anzi tranquillamente la nuova
rimostranza, che fu fatta dal Primo Presidente
con termini assai rispettosi. A questa ed
alla prima rispose finalmente il Custode
de' sigilli i 2 luglio, con risposta degna
della sapienza e superiorità d'animo di chi
reggeva. Disse, "che il re essendo persuaso
DOVERSI PAGARE I DEBITI DELLO STATO DALLO
STESSO STATO, in difesa di cui sonosi contratti,
crede che tutti gli ordini del suo regno
gareggeranno in soddisfargli, né nelle dignità,
nascita o privilegi loro cercheranno uno
scampo indegno del loro zelo, e fedeltà.
I danni privati de' creditori sono compensati
dall'utilità pubblica e dalla liberazione
più facile e pronta de' debitori: e i terreni,
che sono la vera ricchezza dello stato, divenendo
migliori delle carte obbligatorie cresceranno
di rendita e di prezzo.
L'esazione delle imposizioni sul popolo miserabile
sarà più facile, e perciò meno grave ad esso,
più copiosa al re: e l'introito di giugno
l'ha già fatto credere". Questa risposta
di consumata prudenza in poche parole scuopre
la falsità delle opposizioni. Ad essa seguirono
nuove e mal intese rimostranze, terminate
dal grande e memorabile lit de justice de'
26 agosto, col quale fu depresso ed umiliato
il Parlamento con caduta tale, donde egli
non è mai più risorto.
Ma prima che tali cose accadessero, aveano
già le due Camere de' Conti e dell'Aiuto,
per non parer da meno, fatte le loro rappresentanze
i 30 giugno.
La Camera de' Conti per bocca del presidente
Paris avea esposto, "che l'alzamento
rendea il commercio impossibile, i cambi
enormi, le mercanzie straniere raddoppiate
di prezzo; restando le monete di Francia
fra gli stranieri sul piede delle loro. La
facilità del contraffare e la lusinga d'un
immenso guadagno potea riempir la Francia
di monete adulterine. Il commercio interiore
anche era danneggiato dall'alzamento, che
scemava il consumo". Tutte cose false,
e sconciamente dette. Il commercio non potea
diventare impossibile, essendo tra due sudditi
egualmente aggravati dal male, che secondo
essi, siegue dietro la mutazione della moneta:
e quando ha pari bisogno il venditore e il
compratore, sempre i prezzi sono moderati.
I cambi non fansi enormi, fuorché in voce,
il che non importa. Se divenisse il cambio
tra Roma e Napoli d'uno a mille, quando il
ducato sarà la millesima parte dello scudo,
sarà sempre il cambio alla pari. Se le merci
straniere rincaravano, meno se ne doveano
spacciare: dunque meno denaro andava via.
Se il consumo delle natie scemava, più ne
restavano da mandar fuori. La falsificazione
era male che sempre si potea temere; ma non
v'era ragione alcuna per cui si dovesse temere
più allora, che in altro tempo, come quello
che non ha connessione alcuna coll' alzamento:
e si trovò in fatti che niuno stato vicino
mandò in Francia monete.
Il presidente Le-camus per parte della Camera
dell'Aiuto parlò poi con più eloquenza, ma
non con sapienza maggiore. Disse "esser
male grandissimo il rincarar delle merci
già cominciato a sentire: colla carestia
privarsi i popoli degli agi della vita: che
per lo spaccio diminuito si dismetterebbero
le manifatture ed uscirebbero dal regno gli
artefici: che le gabelle del re anche diminuirebbero,
scemato il consumo: che se i re predecessori
aveano fatta cosa simile, era stato in tempo
di gravi guerre e d'estremi bisogni; né mai
aveano fatto alzamento sì grande; ed aveano
sempre promesso ed osservato, ritornata la
pace, rivocarlo. Ma che in mezzo ad una profonda
pace dopo la stanchezza di una guerra crudelissima
e perigliosa, era colpo troppo acerbo e crudele".
A sì fatto discorso, a cui non dette risposta
il duca d'Orléans, io credo ch'egli avrebbe
potuto rispondere così. Che i popoli restino
privi di molte comodità, lo sappiamo, e ce
ne duole; ma d'un debito di tanti milioni
neppur una lira n'abbiamo noi contratta,
e tutto conviene ad ogni costo estinguerlo,
e liberare lo stato da tanti biglietti discreditati:
che lo spaccio sarà minore, lo crediamo;
ma da ciò speriamo che più mercanzie s'abbiano
da estrarre, e che le stoffe, e non gli artefici
andranno fuori, e rimanderanno in Francia
quel denaro che dalle guerre è stato asciugato:
se le gabelle scemano per lo minore consumo,
crescono le dogane per la maggiore estrazione:
se i nostri predecessori han fatto alcun
alzamento, è segno ch'ei può farsi, e non
sempre doversene pentire: s'essi l'han fatto
in mezzo a gravi guerre, noi lo facciamo
alla fine d'una di cui non ha avuta mai la
Francia la maggiore; ed abbiamo aspettata
la pace sì perché Luigi XIV non ha avuto
cuore nella sua cadente età di curar piaghe
così profonde; sì perché la convalescenza
e la buona stagione sono più proprie alle
forti medicine. Con tante centinaia di milioni
di cattiva moneta, volersi riposare e goder
la pace, è pazzia. Voler aver promessa che
l'alzamento che si fa sarà disfatto, è pernicioso
desiderio d'una cosa manifestamente cattiva.
Tutte le opposizioni sopraddette nascevano
dall'ignoranza di questa verità, che a voler
escludere un rimedio plausibile d'un male
doloroso bisogna proporne un migliore: perché
il popolo, quando si duole del presente stato,
siegue sempre i nuovi consigli, sperando
migliorare. Perciò non fu, come un scrittore
disse, fatale alla Francia, che il Parlamento
non fosse stato riguardato, ma fu fatale
l'aver pensato d'opporsi; avendo per così
imprudente mossa perduta in un istante tutta
quell'autorità e stima che, col favorire
le opinioni popolari e meno cortigiane, aveasi
da gran tempo conciliata. Né si ricordò il
Parlamento quanto convenga avvertire alla
forza dell'arme che si maneggia, e dello
scudo su cui si percuote; e che se non si
rompe l'uno, si fiacca infallantemente l'altra.
Così ad altri per aver vibrata un'armatura
più temuta che forte contro un corpo di perfetta
solidità, se gli spuntò in modo che non se
n'è potuto più servire.
Fecesi adunque l'alzamento: ma dall'esito
suo non si può prender regola, essendo stato
interrotto dal sistema della Banca, e della
Compagnia del Misissipì. Solo ne fu macchiata
la fama del duca d'Orléans, contro cui non
restò calunnia o atroce ingiuria che non
fosse inventata, profferita e creduta. Grande
ammaestramento dell'ingiustizia degli umani
giudizi. Luigi XIV dopo stancate le penne
e gli elogi dell'eloquenza, ottenne il nome
di Grande, che certamente gli è ben dovuto.
Filippo d'Orléans, di cui non v'è dubbio
che trovò la Francia moribonda, lasciolla
sana; in vece d'un nome glorioso, è morto
con memoria d' abominazione. E pur questo
non è strano; perché io ho veduto sempre
gli uomini (e siami lecito framischiare a
tanta serietà una espressione giocosa) maledire
i chirurghi, e non le amiche.