| home | libri | la filosofia nel III millennio |

Felicemente relativisti

Richard Rorty e Gianni Vattimo - Il futuro della religione - Garzanti 2005

di Guido Marenco
Due tra i più "pericolosi" esponenti del relativismo condensano i loro argomenti in alcuni scritti di non difficile lettura, bene introdotti da Santiago Zabala, un giovanotto che potrebbe far strada. Il libro si conclude con una conversazione tra i tre non priva di vivacità e spunti interessanti. Chi volesse saperne qualcosa di più su neopragmatismo e pensiero debole, trova dunque una ghiotta occasione.
All'origine dell'operazione vi è un testo di Richard Rorty, vecchio di tre anni (ed in questo caso non son pochi...) qui pubblicato come Anticlericalismo e teismo, ma apparso sulla rivista "Reset" nel fascicolo 68 di gennaio-febbraio 2002 con il titolo La mia religione privata e pragmatica.

Chi è Rorty e cosa dice qui?
Filosofo americano, figlio di comunisti perseguitati dalla "libertà" americana, Richard Rorty è tutt'altro che un marxista. Come autore presenta uno stile penetrante ed ironico, ma lo stile, si sa, non garantisce i contenuti. La sua biografia intellettuale dice che egli proviene dall'immenso serbatoio degli analitici ma, ad un certo punto volse il suo interesse alla filosofia europea.
Donatella Di Cesare, in un articolo-intervista sul "Manifesto", riassumeva concisamente: "Il primo passo di questa svolta, espresso nel suo libro del `79, La filosofia e lo specchio della natura si realizza nella critica all'idea tradizionale, sostenuta da Cartesio fino a Husserl, che la conoscenza sia una rappresentazione, un rispecchiamento mentale del mondo esterno. La fine di una filosofia «spettatoriale», fondata su una verità universale che richiederebbe la validità del criterio di corrispondenza e di conformità, è d'altronde anticipata tanto da Heidegger, che da Wittgenstein e da Dewey, protagonisti della incrinatura di questo paradigma epistemologico. Rorty ha rifiutato la concezione della filosofia come «scienza rigorosa», difesa ancora dal positivismo e dalla fenomenologia, e ha invece mirato a una trasformazione della filosofia - come si legge in Conseguenze del pragmatismo - che deve rinunciare ad essere paradigma di obiettività per divenire filosofia storico-letteraria." (1)
Tra le tante espressioni che Rorty ha utilizzato per descrivere questa sua conversione mi pare indicativa la seguente: scopo della filosofia non è la verità, ma la felicità. Con ciò si guadagna tutta la mia simpatia, ma non il mio accordo, perché contrapporre verità e felicità non mi sembra abbia molto senso. E, tutto sommato, non credo che la filosofia stessa possa vantare grandi successi come maestra di felicità. Da millenni siamo fermi alla sola "felicità del lavoro teoretico", aggiornabile oggi con un lavoro da studioso in qualche campo scientifico o culturale, in un rinnovato gusto per la scoperta. Il resto è come tifare per l'Inter o la Fiorentina.

Rorty sostiene che il pensiero che ha caratterizzato il Novecento, dopo il tramonto del positivismo e della fenomenologia, è stato di natura prettamente anti-essenzialistica, delineando così una rottura forte con Platone ed Aristotele. Gli anti-essenzialisti hanno smesso di "ricavare la mutevole apparenza dal durevolmente reale, il meramente contingente dal veramente necessario".
I testi chiave sono stati, per Rorty, Sein und Zeit di Heidegger (1), Reconstruction in Philosophy di Dewey e Philosophische Untersuchengen di Wittgenstein, cui si devono aggiungere Marges de la philosophie di Derrida e The empirical Stance di Bas van Fraassen.
Rorty crede che l'antiessenzialismo abbia contribuito "ad abbandonare quella che Habermas chiama la 'ragione incentrata sul soggetto' a favore della 'ragione comunicativa'". Ciò avrebbe indebolito la convinzione che "le credenze scientifiche siano formate razionalmente, mentre le credenze religiose non lo siano." Questa fine di un confronto frontale tra scienziati e religiosi avrebbe portato ad una maggiore tolleranza reciproca. Atei e teisti, dunque, si sopportano molto meglio che in passato.
"Questa maggiore tolleranza nei confronti di chi semplicemente ignora domande che una volta erano ritenute della massima importanza è descritta talvolta come l'adozione di un comportamento 'estetizzante'. Questa descrizione è popolare specialmente tra coloro che considerano deplorevole una tale tolleranza e diagnosticano la sua diffusione come il sintomo di una pericolosa malattia spirituale (lo 'scetticismo' o il 'relativismo' o qualcosa di altrettanto sconvolgente)".
Il termine "estetizzante", secondo Rorty, va riferito a Kant, il quale distingueva tra conoscenza morale e conoscenza estetica. Ma "questa distinzione è essa stessa una dei principali bersagli del filosofare antiessenzialistico e storicistico."
" I kantiani - prosegue Rorty - pensano che appena si perde la speranza di raggiungere un accordo universale su un'istanza, questa istanza deve essere dichiarata 'una mera faccenda di gusto'. Ma questa descrizione è per i filosofi antiessenzialisti tanto sbagliata quanto l'idea kantiana secondo la quale essere razionale significa seguire regole. Filosofi che non credono all'esistenza di queste regole respingono le categorie kantiane a favore di domande riguardanti il contesto nel quale certe credenze o certe pratiche o certi libri possono essere inclusi meglio che in altri, domande riguardanti gli scopi particolari da raggiungere."

Rorty é convinto che il mondo trarrebbe grande giovamento qualora si imponesse una distinzione tra ateismo ed anti-clericalismo, chiarendo che quest'ultima posizione nasce dalla constatazione della pericolosità sociale delle istituzioni ecclesiastiche, una parte delle quali è ancora impegnata nell'arena epistemica, cioè in un confronto forte e duro con le scienze oggettive. Se si comprendesse che essere anticlericali non significa lottare per negare Dio, ma per negare solo una pretesa autoritaria, avremmo finalmente quella religione privata, quel rimedio alla solitudine ed alle domande angosciose che, in fondo, è il vero scopo della religione.
Non a caso, dunque, Rorty incontra Vattimo e privilegia un dialogo con lui. Vattimo si sforza, appunto, di sottrarre la religione al confronto con la scienza e la metafisica. Tentativo non nuovo, dice Rorty, richiamando il tentativo kantiano di "porre Dio come un postulato della ragion pratica anzichè come una spiegazione dei fenomeni empirici." Ciò avrebbe aperto la strada a Schleiermacher, Kierkegaard, Barth, Levinas, cioè a pensatori impegnati "a rendere Dio totalmente ulteriore non solo rispetto all'argomentare ma anche rispetto al pensiero discorsivo".
Parlando di Vattimo, muovendo soprattutto da Credere di credere, Rorty condivide il suo tentativo di allontanare la religione dal collegamento con "la" verità, cioè con la verità oggettiva, e persino con la "teologia esistenziale" (termine comunque giudicato infelice ed improprio) cioè la "redenzione attraverso la grazia".
Secondo Rorty, Vattimo amplifica la potenza di Corinzi 1,13: "La sua strategia è quella di trattare l'incarnazione come il sacrificio che Dio compie del suo potere e della sua autorità, così come della sua alterità." L'incarnazione è per Vattimo un atto di kénosis, "l'atto in cui Dio cede tutto agli esseri umani. Questo autorizza Vattimo a fare la sua affermazione più cruciale e più importante: che la 'secolarizzazione' è il tratto costitutivo di un'autentica esperienza religiosa."
Tutto ciò, in pratica, riduce il cristianesimo di Vattimo ad una speranza ed ad una testimonianza: la speranza che l'amore possa prevalere.
Vattimo, insomma, vorrebbe dissolvere il confronto duro tra religione e scienza evitando di identificare Cristo con la verità ed il potere, ma solo con l'amore, che non essendo un postulato metafisico od un prova empirica, ma solo un atteggiamento, un interpretazione del mondo, non ha alcun fondamento.
"Se - dice Rorty - si rimane all'interno di questo orizzonte di pensiero e si continuano a pensare epistemologia e metafisica come prima filosofia, si finisce col convincersi che tutte le affermazioni che si fanno dovrebbero avere un contenuto cognitivo [...] Ma dire che la religione dovrebbe essere ridotta a faccenda privata significa dire che gli spiriti religiosi sono autorizzati, per certi scopi, a uscire da questo gioco."

Rorty si dichiara persuaso che quanto più si laicizzerà l'Occidente, tanto più si realizzerà la promessa evangelica secondo la quale "Dio non vede in noi dei servi, ma degli amici". "Posso sintetizzare nel modo seguente la linea di pensiero che perseguiamo Vattimo ed io: la battaglia tra religione e scienza condotta nel XVIII e XIX secolo è stata una contesa di istituzioni che chiedevano entrambe la supremazia culturale. E' stato un buon esito sia per la religione sia per la scienza che questa battaglia sia stata vinta dalla scienza." Perché, così, ovviamente, la religione potrebbe tornare ad essere un fatto privato, che però agisce molto più in profondità ed efficacemente che quando pretende di agire politicamente, come struttura di potere. E questo sarebbe, stringi stringi, quel che pensa Vattimo.

Gianni Vattimo
Il punto di vista di Vattimo si sviluppa a partire dalla ormai leggendaria (e sconcertante) affermazione di Nietzsche per la quale "non ci sono fatti ma solo interpretazioni". Questo non è un enunciato metafisico; a sua volta è solo un interpretazione. "Se si medita - dice Vattimo - su ciò si capisce quanto, di fatto!, l'ermeneutica abbia cambiato la realtà stessa delle cose, e trasformato la filosofia. La conoscenza è nient'altro che interpretazione".
Vattimo, dunque, fedele quanto mai all'assunto fondamentale di Essere e tempo di Heidegger, riconosce che le "cose ci appaiono nel mondo solo perché noi siamo in mezzo ad esse e già sempre orientati a cercare qualche senso specifico". Ne abbiamo quindi una precomprensione che fa di noi dei soggetti interessati. Non siamo quindi schermi neutrali di un panorama oggettivo, ma soggetti già predisposti ad interpretare, data la storicità del nostro esser-ci.
L'interpretazione, dunque è il solo fatto di cui possiamo parlare. Ciò, precisa Vattimo, non porta ad un idealismo tipo Berkeley, e sostiene anche che tutto ciò risulterebbe accettabile in un orizzonte kantiano. Tuttavia, proprio a partire dalla storicità dell'esser-ci, per la quale non è la stessa cosa esser-ci come greci antichi ed esser-ci come greci moderni, l'interpretazione può solo argomentare come risposta interessata ad una situazione storica determinata.
"Voglio dire - afferma Vattimo - in parole più concise, che non si parla impunemente di interpretazione; essa è come un virus, o anche come un farmaco, che infetta ogni cosa con cui viene in contatto. Da un lato, essa riduce tutta la realtà a messaggio - mettendo fuori gioco anche la distinzione tra Natur- e Geistswinssenschaften, giacché anche le cosiddette scienze «dure» verificano e falsificano le loro proposizioni solo entro paradigmi o precomprensioni."
Dall'altro lato, bisogna capire che l'ermeneutica, bensì "l'annunciazione della stessa esistenza storica nell'epoca della fine della metafisica"
Per Vattimo risulta così cruciale il comprendere che noi parliamo dall'interno di una civiltà permeata di tradizione biblica: "...non è tanto assurdo sostenere che la morte di Dio che è annunciata da Nietzsche è, in molti sensi, la morte di Cristo sulla croce narrata dai Vangeli.
Nella storia del Novecento, Dilthey, che Vattimo indica come un proprio maestro, è stato chiaro nel rendere che l'avvento del cristianesimo ha reso possibile la dissoluzione della metafisica. "Il cristianesimo introduce nel mondo il principio dell'interiorità, in base a cui la realtà oggettiva perderà via via il suo peso determinante". In questa luce, l'ermeneutica può essere intesa come "sviluppo e maturazione del messaggio cristiano". A questo punto, Vattimo si pone una domanda: "Davvero possiamo sostenere che il nichilismo postmoderno è la verità attuale del cristianesimo, come a me sembra si debba dire?"

Per Vattimo, questa risposta si trova considerando che è del tutto illusorio pensare che la Chiesa possa vincere la sfida che le viene dalla scienza. In passato ci fu la tentazione di riattribuire verità oggettiva al testo biblico attraverso il "letteralismo", collegata con la dottrina dei preambula fidei.
Legandosi sempre più ad una dottrina di tipo oggettivistico, come si può constatare dalle encicliche più recenti, la Chiesa si sarebbe spinta in un vicolo cieco culminante nella pretesa autoritaria "di predicare leggi e principi di carattere naturale, valide per tutti, e non solo per i credenti."
A partire da ciò, Vattimo si augura un rovesciamento "indispensabile per sfuggire al rovinoso realismo, all'oggettivismo e al suo corollario, l'autoritarismo, che ha caratterizzato la storia della Chiesa." In tal senso precisa: "Ci sono in questo processo di riduzione due aspetti inseparabili: solo se la realtà non unicamente e anzitutto il mondo delle cose vorhanden, semplicemente presenti, il cristianesimo ha senso; e il senso del cristianesimo, come messaggio di salvezza è proprio anzitutto quello di dissolvere le pretese perentorie della «realtà». La frase paolina «morte, dov'è la tua vittoria?» può a buon diritto venir letta come l'estremo della negazione del «principio di realtà»."
Provocatoriamente, Vattimo ricorda che un personaggio di Dostoevskji affermava che "se ci fosse da scegliere tra Cristo e la verità, sceglierei Cristo".
Ma tale alternativa, in realtà non sussiste. "La verità che secondo Cristo ci farà liberi, non è la verità oggettiva delle scienze,e nemmeno la verità della teologia; come non è un libro di cosmologia, la Bibbia non è nemmeno un manuale di antropologia o di teologia. La rivelazione scritturale non è fatta per farci sapere come siamo noi, com'è fatto Dio, quali sono le «nature» delle cose o le leggi della geometria - e così per salvarci attraverso le «conoscenze» della verità. La sola verità che la Scrittura ci rivela, quella che, nel corso del tempo, non può subire nessuna demitizzazione -giacché non è un enunciato sperimentale, logico, metafisico, ma è un appello pratico - è la verità dell'amore, della caritas."

Ora tocca a me.
Filosoficamente, e non da ora, sono sempre rimasto piuttosto perplesso rispetto alle posizioni del pensiero debole ed alle stesse idee di Rorty. Non è che abbia maturato una mia posizione, o che creda ancora nella metafisica, ma un certo realismo razionale, che non rinunci a dire la realtà com'è, non può essere abbandonato a cuor leggero per rincorrere interpretazioni, di qualunque tenore esse siano. Comunque, mi pare significativo che le posizioni di Vattimo nascano all'interno di un percorso filosofico e non da un itinerario di fede. Non è escluso che possano essere condivise da chi viene dalla fede, ma a me pare assai problematico. Giustamente, Rorty notava che Vattimo pare rivolgersi a quelle persone dalla religiosità tiepida, da un lato attirati dalle certezze e dalle sicurezze che pare dare una chiesa, e dall'altro decisi a vivere senza tutti quei vincoli "oppressivi" che impone l'etica religiosa, soprattutto quella cattolica. Può darsi che questa idea della religiosità possa far breccia tra queste persone e può anche darsi che esse incontrino sacerdoti in grado di supportarla, concedendo ad esempio un maggior grado di libertà sessuale e l'uso del preservativo. Ma, se tutto si riduce a questo, siamo forse fuori strada.
Innanzi tutto, non credo che le chiese in sé rappresentino un pericolo per la democrazia. Non vedo perché siano destinate a sparire e nemmeno perché dovrebbero ritirarsi in uno spazio privato. Questo non significa, ovviamente, che io creda debbano occupare, direttamente o indirettamente, posizioni di potere. Il cristianesimo è qualcosa di forte e vivo quando si oppone alle degenerazioni, quando denuncia le ingiustizie, quando unisce la salvezza spirituale alla redenzione materiale, non quando si annulla nei valori dell'Occidente edonistico e prepotente, ed addirittura pretende di governarlo.
Ma è proprio per questo che chiese non possono rinunciare ad esercitare la loro missione di magistero morale e non mi infastidisce affatto che ci siano persone che frequentano scuole private o catechismi dove si pretende rigore etico e si continua a minacciare una punizione divina soprattutto a chi ruba, a chi uccide, a chi imbroglia, a chi calunnia il prossimo, a chi abbandona unilateralmente mogli (o mariti) e figli per inseguire illusioni di felicità. Se, illuministicamente, credo nel diritto dovere di ognuno ad usare il proprio cervello, mi pare non illogico sottolineare che non sprechiamo il nostro tempo se prestiamo ascolto a qualche teologo od a qualche pensatore cattolico. Non possono che venire stimoli ad usare ancor meglio la testa.
Inoltre, pur essendo filosoficamente in disaccordo con Rorty e Vattimo, riconosco che quello del confronto epistemico tra scienza e religione è un problema reale e che i religiosi farebbero bene ad abbandonare completamente l'idea di poter competere con la scienza sul piano cognitivo. Da tempo la Chiesa cattolica ha rinunciato ad uno scontro frontale con l'evoluzionismo ma, non si sa mai. Ci sono chiese che in America non vi hanno affatto rinunciato e l'evoluzionismo non può diventare un sapere riservato a chi frequenta le facoltà di biologia.
Tuttavia, è certo che i teologi non possono rinunciare a confrontarsi con l'impresa scientifica sul piano morale, morale - ripeto - non genericamente etico, specie quando questa mette in discussione principi quali la vita e la dignità della persona. Ed è nel loro diritto esporre pubblicamente il loro punto di vista.
Infine, non credo che la Chiesa cattolica possa impunemente permettersi di abbandonare un'ispirazione filosofica realistica. Potrebbe aprirsi a Kant (i kantiani son tutti brava gente, in genere di grandissima onestà intellettuale), ma non potrebbe rinunciare ad Aristotele, a san Tommaso ed anche a Maritain senza suicidarsi. Essa dovrebbe solo smetterla di usare il realismo in chiave reazionaria (anche Maritain ricevette un cartellino giallo!) e, soprattutto, dovrebbe anche cessare di procedere in modo inquisitorio nei confronti di quei credenti che la pensano diversamente. Potrei solo augurami che il tempo delle scomuniche e delle richieste di abiura sia finito per sempre ma, sotto questo profilo, è probabile invece che ne vedremo ancora delle belle. E non solo perché sbaglia la Chiesa. A volte, furono gli "eretici" a sbagliarsi, in modo molto grave. Anche questo andrebbe ricordato, insieme al fatto persino ovvio che "bruciare streghe ed eretici" è una vergogna millenaria, un marchio d'infamia che rende la Chiesa quanto mai "fallibile" e giudicabile, che la espone a critiche più che giustificate, ma anche ad attacchi e calunnie. Questa Chiesa, più che di apologeti, avrebbe bisogno di critici che fanno della verità storica la loro bandiera, non di ermeneuti ipersensibili "ad ogni vento di dottrina". Forse, il futuro della religione sta anche nella rilettura autocritica e coraggiosa del passato.


(1) da il Manifesto 9 marzo 2003, in rete all'indirizzo http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/030309a.htm
(2) è corretto riportare questo giudizio "ironico" di Rorty su Heidegger: "A metà del secolo scorso per molti filosofi il contrasto tra quell'idea modesta di filosofia e quella antica, più ambiziosa, era incarnato del contrasto tra Carnap, un brav'uomo che aveva idee politiche di sinistra, e Martin Heidegger, un ex-nazista megalomane che poneva domande tipo "Che cos'è l'Essere?" senza darsi la pena di chiarire in che modo avrebbe capito che si era dato la risposta giusta.
(da La Stampa-17 FEBBRAIO 2001 - articolo di Richard Rorty su Quine intitolato La verità non è mai un dogma)

gm - 14 giugno 2005