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Il sapere del biologo
I biologi non seguono Voltaire (ma lo leggono)
di Giuseppina Saccone
I biologi sanno donde vien la nostra conoscenza: dai manuali di citologia, microbiologia, istologia, fisiologia, anatomia, chimica organica, botanica, genetica, zoologia ed etologia. Viene dal laboratorio, dal tirocinio in ospedale, da pazienti ed emozionanti osservazioni al microscopio, dalle lezioni dei professori, dalla frequentazione delle conferenze e dei congressi. In ultimo viene dalla nostra riflessione sulle esperienze, sul confronto dei dati, sugli aggiornamenti. Abbiamo familiarità con concetti e definizioni che non sono nella testa di tutti. Se parlo di legge di Hardy-Weinberg-Castle, solo il biologo sa a cosa mi riferisco. Ma, ho qualche dubbio sul fatto che la stragrande maggioranza di quelli che leggono queste note sappiano che esiste tale legge e cosa prevede. Una legge scientifica deve avere carattere predittivo, altrimenti non è una legge. Questo spiega perché la biologia si basa su molte leggi provenienti da altri settori del sapere, ma in proprio non ne abbia elaborate che pochissime. Persino il Dogma centrale di Crick, non fu formulato in termini di legge perché, secondo lo stesso Crick, era solo un'ipotesi molto sensata che reclamava un atto di fede. Eppure, in un certo senso, era proprio una legge, sebbene non ancora dimostrata. Essa affermava che il trasferimento di informazione avviene da acido nucleico ad acido nucleico, o dall'acido nucleico alla proteina, mentre il trasferimento da proteina a proteina, o dalla proteina all'acido nucleico, non è possibile. E' notevole riscontrare che questo principio "crickiano" sia oggi in discussione sotto diversi aspetti. Sicché, in fondo, Crick fece bene (facendosi male) a battezzare la sua ipotesi come "Dogma centrale", originando così irritazione nei propri confronti. Non solo sortì l'effetto di aizzare uno stuolo di ricercatori per verificarla o confutarla, ma determinò un effetto aggiuntivo, quello cioè di reagire all'idea stessa di "dogma", contrapponendo ad essa la grande idea, già esistente grazie a Popper, per cui o gli asserti della scienza sono falsificabili, oppure sono solo congetture metafisiche in attesa di trasformazione e trasferimento dal mondo delle congetture a quello delle falsificazioni. In realtà, il Dogma di Crick era falsificabile e la scoperta dei prioni, come quello della "mucca pazza", entità prive di acido nucleico, mise veramente in crisi la corrente dogmatica della biologia molecolare.
Bene. Ora bisognerebbe precisare che cosa si intende per "sapere del biologo". Anche il biologo legge i giornali, si interessa di moda e politica, di arte e letteratura. Io mi sono interessata di filosofia. Luigi Cavalli-Sforza ha scritto un libretto meraviglioso, Geni, popoli e lingue [Cavalli-Sforza L. L 1996] che è insieme un libro di storia e di biologia, di antropologia e di linguistica. Dimostra che il "sapere del biologo" non è qualcosa di angustamente settoriale, e certamente non è solo più "il contare i peli sulla coda dei cavalli" come dicevano sprezzantemente alcuni fisici "di una volta".
Inoltre, questo sapere non è qualcosa di esclusivo, non è roba da iniziati. E' pubblicamente disponibile e non richiede l'iscrizione all'università. Basta entrare in una libreria e ordinare un testo di zoologia, che so, il "Baccetti", per cominciare a familiarizzarsi con temi, concetti e strutture del vivente. Ma la cosa sorprendente è forse un'altra. Anche mia zia, che non è mai andata oltre una scuola di economia domestica presso le suore, sapeva di botanica forse più di me. Riconosceva ogni specie di fiori e di piante "a prima vista", comprese quelle più esotiche e in ogni condizione. La sua passione non erano le orchidee di Nero Wolf, ma le begonie, le viole ed i gerani, dei quali non sapeva tutto, ma dei quali aveva osservato moltissimo. C'è una dimensione nascosta del sapere biologico che sembra dormiente nel senso comune e che invece è attivo. Ho dedicato la mia vita al risveglio dell'interesse per la natura in giovani attratti solo dal successo personale, dal divertimento narcisistico e dalla particolarissima natura del sesso opposto. Adesso ha senso che utilizzi anche internet per risvegliare questa passione.
Credo, poi, sia evidente che il nostro sapere non è la costruzione eroica ed esclusiva di grandi menti, ma il concorso plurale e cooperativo di molti ricercatori che si sono susseguiti ininterrottamente da Aristotele e Teofrasto fino ad oggi. Qualcuno ha giustamente osservato che se Watson e Crick, dopo il primo insuccesso, si fossero dati all'ippica, nel breve volgere di due o tre anni, la struttura del DNA sarebbe stata chiarita da qualcun altro, forse Pauling, forse Rosalind Franklin. L'impagabile lavoro di Perutz sull'emoglobina fu il risultato di interazioni tra le più complesse della storia della scienza. Con questo, non si vuole negare che nella storia della biologia anche i giganti abbiano giocato un ruolo, spesso eroico. Ma setacciando nelle biografie di Darwin o di Mendel non speriamo di trovarvi granché sotto il profilo dell'eroismo. Vi troveremo infinita pazienza e grande dedizione, certamente acume, ma l'eroismo è un'altra cosa. Spesso è la consapevolezza di avere un "destino" solo perché si è di fronte, proprio malgrado, ad una responsabilità etica. Eroico fu in questo senso il dottor Semmelweiss, che dovette combattere contro l'ostilità, l'arroganza e l'ignoranza di un corpo medico tra i più squallidi della storia umana per salvare la vita a centinaia di donne costrette a partorire in condizioni ignobili. Non fu eroico Linneo, che ben prima di Darwin, osò collocare Homo sapiens nella classe dei quadrupedi in compagnia di cavalli e cinghiali, e nel più specifico gruppo dei quadrupedi antropomorfi, apparentato alla scimmia e al bradipo. La sua fu solo una mossa coraggiosa, una battaglia intellettuale. La Mettrie e Diderot, che non erano certamente dei teologi, ebbero molto da ridire su questo. I filosofi faticarono molto, come spesso succede, a digerire che l'uomo è solo un mammifero più complesso ed intelligente degli altri.
Per questo il "sapere del biologo" è anche un sapere critico e, in un certo senso filosofico. Chi è scienziato non è scientista e, soprattutto non è fideista. Non è scientista perché ammette che vi siano saperi, come quello pedagogico, che non possono essere matematizzati ed assiomatizzati, e non per questo cessano di essere sapere. Prendiamo Darwin. Nella sua autobiografia si può leggere: «Per quanto posso giudicarmi ... sono sempre riuscito a mantenere la mia mente libera in modo da poter abbandonare qualsiasi ipotesi per quanto amata... Non mi ricordo di aver mai formulato un'ipotesi che poi non abbia abbandonata o profondamente modificata.» La biologia ha lavorato così, per questo ha fatto molta strada.
Sempre guardando alla storia del nostro sapere, ci accorgiamo di due altri fatti rilevanti. Il primo è che la sapienza non è il frutto di un'accumulazione semplice di "scoperte". Tutt'altro, la concezione hegeliana della storia parrebbe senz'altro più indicata per approssimare il modello della storia della biologia. E' il modello che dice: ad ogni tesi segue un'antitesi che si oppone alla tesi, e ciò che rimane dall'unione degli opposti è la sintesi. Ovvero, un pensiero è capace di sintetizzare ciò che di valido, di vero e di utile si trova in ogni "scoperta", nella tesi e nell'antitesi maturate rispetto alla scoperta, ed è in grado di "togliere" da entrambe ciò che non lo è. La validità di questo modello consiste nella capacità di chi racconta la storia della biologia di spiegare perché, procedendo ad una sintesi, si venga a stabilire ciò che è vero e soddisfacente e ciò che, per diversi motivi, non lo è. Ciò che decide, a prescindere dalla capacità della comunità scientifica di prendere decisioni ed emettere un verdetto, non è lo spirito, ma la logica della giustificazione, un grumo di sale contro le imponenti forze dello spirito che spesso congiurano per eliminare il sale.
Il secondo fatto rilevante, è che, come aveva già annunciato Aristotele nella Metafisica, tutti gli uomini concorrono alla verità. In senso molto stretto, e dando per scontato che anche le donne concorrono alla verità, il senso dell'affermazione è persino banale. Ogni disciplina, cioè ogni linea e indirizzo di ricerca, concorre a costruire teorie sulla realtà del vivente e dei sistemi chimici e fisici. Pertanto, anche se la biologia ha elementi e metodi propri, si regge pur sempre anche sui saperi della fisica, della chimica, della meteorologia e chissà di quante altre cose, compreso il sapere botanico di mia zia.
Il grande paleontologo G. G. Simpson, ha osservato acutamente, che: «Insistere che lo studio degli organismi richiede principi aggiuntivi rispetto a quelli delle scienze fisiche non implica una visione dualistica o vitalistica della natura. La vita ... non è quindi necessariamente ritenuta non fisica e non materiale. E' solo che le cose viventi sono state soggette per ... miliardi di anni a processi storici... I risultati di quei processi sono sistemi di genere diverso da qualsiasi sistema non vivente e incomparabilmente più complessi. Il punto è che tutti i processi materiali conosciuti e i principi esplicativi si applicano agli organismi, mentre soltanto un numero limitato di essi si applica ai sistemi inanimati... La biologia è dunque la scienza che sta al centro di tutte le scienze... Ed è qui, nel campo in cui tutti i principi di tutte le scienze sono incorporati, che la scienza può davvero divenire unificata.» [Mayr 1982]
Questo significa che il biologo, soprattutto il biologo evolutivo, ha goduto, rispetto ai fisici ed ai chimici, di una maggiore libertà speculativa. Ma ciò non significa affatto che questa libertà gli abbia consentito di rompere i vincoli imposti dalle altre scienze. Il biologo non può eludere una legge della fisica e pensare di farla franca, ad esempio asserendo che un corpo vivente, non necessariamente un uccello, pesando 25 kg, potrebbe volare anche non disponendo di una apertura alare di 15 metri! Questo limite impedisce alle galline di volare e stop.
Non tutte le questioni, però, sono a questo livello. Un esempio famoso di disputa tra un fisico ed un biologo fu quello tra Darwin e Lord Kelvin sull'età della Terra, in particolare sui tempi di raffreddamento della crosta terrestre. Era in gioco la credibilità della teoria della selezione naturale, che secondo Darwin obbligava ad assumere una prospettiva di tempi molto più lunghi rispetto a quelli ammessi da Kelvin. E l'oggetto della contesa era un problema squisitamente fisico. Darwin pretese di avere ragione su un terreno che non era il suo, nonostante possedesse una eccellente preparazione geologica. La storia diede ragione a Darwin, quando appunto venne scoperta la radioattività. Ma la posizione di Lord Kelvin ostacolò seriamente l'accettazione della teoria darwinana su basi scientifiche e non filosofiche o religiose. E se, ben si guarda, la difesa dei tempi lunghi attuata da Darwin fu epistemologicamente molto debole, anche se profeticamente molto forte. Egli sostenne che c'era, probabilmente, un qualche elemento ignoto che avrebbe rallentato il raffreddamento della crosta. Ma, non potendo indicare quale, finiva con l'ammettere la propria impotenza esplicativa.
Se c'è una lezione da trarre da questo episodio, evidentemente, non è quella relativa ad un conflitto tra una superiorità di metodi o la lungimiranza delle visioni, ma solo che anche il metodo logico-matematico dei fisici, se muove da premesse erronee o incomplete, non può giungere a conclusioni vere, ma solo corrette rispetto alle premesse. E questa credo sia una verità largamente condivisibile sia dai biologi che dai fisici.
Studiando la storia del pensiero biologico, ci si imbatterà spesso in studiosi che hanno speculato non solo nel campo delle grandi ipotesi sull'evoluzione, come Lamarck e Darwin, ma anche in campi più strettamente riconducibili ad osservazioni ed esperimenti. Alcuni esempi sono utili. Non c'è dubbio, ad esempio, che nella ricerca di Schwann sulla cellula abbia avuto una grande importanza anche la speculazione necessaria a comprendere da quali premesse, oltre l'osservazione al microscopio, poteva originarsi una teoria cellulare. Nel seguito di questa particolare vicenda, in particolare nelle elaborazioni di Rudolf Vierchow sull'organismo come "repubblica cellulare", non si può non rinvenire una spiccata tendenza speculativa, la quale non è altro che ricerca sulle premesse corrette e complete da cui far discendere una serie concatenata di deduzioni.
Per quanto molti studiosi insistano sull'induttivismo darwiniano, ed io mi associo, Mayr ha mostrato con molta forza e completezza di argomenti che Darwin fu tutt'altro che un induttivista. Poi non ebbe dubbi nel sostenere la superiorità del metodo ipotetico-deduttivo sull'induttivismo: «La ragione per cui il metodo ipotetico deduttivo è stato così ampiamente adottato è che esso offre due grandi vantaggi. In primo luogo, si adatta perfettamente alla crescente convinzione che non vi è alcuna verità assoluta e che le nostre conclusioni e teorie dovrebbero essere continuamente sottoposte a controllo; in secondo luogo, combinato con questo nuovo relativismo, esso incoraggia il continuo prodursi di nuove teorie e la ricerca di nuove osservazioni e di nuovi esperimenti che confermino oppure smentiscano le nuove ipotesi. Esso rende la scienza più flessibile, più intraprendente e ha reso alcune controversie meno aspre, visto che non si tratta più della vittoria per la verità ultima.» [Mayr 1982]
Chiunque conosca un minimo la moderna filosofia della scienza, si dovrebbe accorgere che questa è una tesi schiettamente popperiana. Ma, non dobbiamo commettere l'errore di arruolare Mayr nella schiera dei popperiani.
Non solo negli ultimi della sua vita, ma a più riprese, egli fu molto interessato all'elaborazione di una filosofia della biologia. Gran parte del suo interesse era dovuto alla constatazione che tutte le filosofie della scienza elaborate nel secolo scorso non erano riuscite a cogliere la peculiare complessità e differenza del pensiero biologico e degli "elementi aggiuntivi" di cui parlava Simpson. Nella prefazione a L'unicità della biologia [Mayr 2004], giunge a scrivere: «Non comprendo, però, come mai la maggior parte dei filosofi della scienza ritenga che i problemi di cui si occupa la filosofia della scienza si possano risolvere con l'ausilio della mera logica.» Che equivale a dire che la logica da sola può solo costruire deduzioni coerenti su premesse date, ma non può arrivare a definire quali siano tali premesse. Pertanto, anche andando oltre le esplicitazioni di Mayr, avremo che una filosofia della scienza orientata esclusivamente a valutare la correttezza logica del ragionamento deduttivo, non sarà mai in grado di cogliere la differenza e l'unicità del pensiero biologico, se esso non si basa sulla pura logica dedotta da premesse. Ed è questo che origina il cosiddetto ragionamento circolare, cioè la tautologia.
I filosofi della scienza che hanno finora provato a spiegare i metodi della biologia, non sempre sono riusciti a dire cose del tutto pertinenti e sensate. Richard Dawkins, nel primo capitolo de L'orologiaio cieco, prova a spiegare la differenza tra fisica e biologia in termini di diversità oggettuale. La fisica si occupa di oggetti semplici. Noi la vediamo complicata perché i libri in cui si parla di fisica sono pieni di formule, ma i suoi oggetti di studio sono semplici. Sono le relazioni tra questi oggetti ad essere complicate e a richiedere calcoli sempre più complessi. In fondo, come rilevato da Einstein, anche le sue teorie sono semplici. La vera materia complessa è la biologia, sostiene Dawkins. E quando mette a confronto, non un aereo di linea ad un corpo vivente, ma lo lo studio e la spiegazione di essi, mi pare che centri esattamente il problema. L'aereo è una struttura più comprensibile perché è un prodotto del sapere umano, e non importa molto che gli ingegneri che l'hanno progettato si siano divisi i compiti di pensare la propria parte in base alla loro specializzazione, spesso ignorando l'insieme e i suoi equlibri. Alla fine, discutendone, essi possono pur sempre arrivare a comprendere il perché delle loro rispettive scelte, e potrebbero venire ad un compromesso utile al funzionamento del tutto. Noi biologi, al contrario, quando abbiamo cominciato a studiare la vita insieme ad Anassagora e poi Aristotele e Teofrasto, non avevamo alcuna idea del perché essa sia "fatta" così. Nessun ingegnere poteva spiegarci perché esistono due braccia, due gambe, quattro zampe, un solo dito, una dentatura, un intestino o le tonsille. Nessun ingegnere è l'agente creativo della vita vegetale o animale. Non avendo ingegneri da interpellare, e nemmeno libretti di istruzione da consultare, i primi studiosi del vivente dovettero attuare una serie di ragionamenti molto più complessi, a partire dall'osservazione.
E' persino ovvio, pertanto, che lo studio dei corpi viventi, sia iniziato da quella che ormai si chiama biologia funzionale, ovvero un tentativo di spiegare come funziona la "macchina" dei corpi viventi.
Tuttavia, proprio la "macchina" presenta sorprese che nessuna macchina al mondo può presentare. Studiando il vivente, andiamo a sbattere in fenomeni come la ricrescita della coda nelle lucertole o le rigenerazioni delle parti del polipo. O persino la rimarginazione delle ferite e la ricalcificazione delle strutture ossee. Di colpo ci troviamo di fronte al vero problema. Gli organismi viventi non sono montati da esperti operai: sono generati da qualche organismo anteriore, si sviluppano poco alla volta, raggiungono una pienezza di forma, poi decadono e muoiono. Ognuno di essi è diverso dall'altro. Nessun mammifero è in grado di rigenerare delle parti asportate, come un polipo, eppure è in grado di procedere a piccole autoriparazioni.
Non fu un caso che proprio nel campo della biologia funzionale sorse una divaricazione di correnti di pensiero, da un lato i riduzionisti convinti che il corpo non sia altro che una macchina complessa, dall'altro i vitalisti, persuasi dell'esistenza di una forza vitale del tutto inafferabile ai metodi della fisica e della chimica. Di questa divisione, ormai non esiste più traccia, perché gli ultimi vitalisti furono il filosofo Bergson e Hans Driesch, la loro scuola scomparve del tutto con la loro morte.
Tuttavia, si può vedere una sorta di prosecuzione revisionistica (profondamente revisionistica) del vitalismo con l'emergentismo. Questo termine è riferito al fatto che rimanendo ai fenomeni come ci appaiono al nostro livello quotidiano, emergono sempre nuove caratteristiche che paiono sfuggire a molte leggi della fisica e della chimica. Quest'emergenza, come scrisse Mayr [Mayr 1982], è spesso invocata per spiegare fenomeni difficili come "vita", "mente" e "coscienza". Ma l'emergenza in sé riguarda anche i fenomeni inorganici. Già T.H. Huxley (il braccio destro di Darwin) disse che l'acquosità dell'acqua non poteva essere dedotta dalle particolari proprietà di ossigeno e idrogeno, e Lloyd Morgan, osservò, nel 1894, che è vero che a gradi diversi di organizzazione, le configurazioni materiali esibiscono fenomeni nuovo e inaspettati, e che questi includono le caratteristiche più salienti del meccanismo adattivo. Mayr osserva che dire che l'emergenza è dovuta alla complessità non è una spiegazione.
«Probabilmente, - scrive Mayr - le due caratteristiche più interessanti di un "tutto" emergente sono 1) che esso può a sua volta divenire parte di sistemi di livello ancora più alto e 2) che esso può influire sulle proprietà delle componenti ai livelli inferiori. Talvolta ci riferisce a quest'ultimo fenomeno come "causazione discendente" (Campbell, 1974). L'emergentismo è una filosofia strettamente materialistica. Coloro che lo negano, come Rensch (1971, 74), sono costretti ad adottare teorie della materia panpsichiche o ilozoiche.
Due false affermazioni contro l'emergentismo - prosegue - devono essere respinte. La prima è che gli emergentisti siano vitalisti. Questa affermazione, in verità, era valida per alcuni degli emergentisti del secolo XIX e dell'inizio del XX, ma non è valida per gli emergentisti moderni che accettano la riduzione costitutiva senza riserve e sono pertanto non-vitalisti per definizione. La seconda è l'asserzione che è parte dell'emergentismo credere che gli organismi possano solo essere studiati come un tutto, e che ogni ulteriore analisi debba essere respinta. Forse vi sono stati alcuni olisti che hanno fatto una tale affermazione, ma questa opinione è certamente estranea al 99 per cento degli emergentisti. Quello che essi affermano è solo che la riduzione esplicativa è incompleta, perché ai livelli superiori di complessità nei sistemi gerarchici emergono caratteri nuovi e precedentemente imprevedibili. Quindi i sistemi complessi devono essere studiati ad ogni livello, poiché ogni livello ha proprietà che non si mostrano ai livelli inferiori.» [Mayr 1982]
E' ovvio che siano dovuti passare millenni prima che qualcuno pensasse che la vita è una sola, ha una sola origine, e che la cellula procariotica e il complesso organismo di uno scimpanzé dotato di 24 coppie di cromosomi vengano da un solo antenato comune, cioè la prima forma di vita apparsa sulla Terra. Questo "ritardo" delle ipotesi evolutive si può spiegare sia ricorrendo al fatto che per millenni siamo stati dominati dal paradigma creazionista, un dio ha creato le specie viventi esattamente come le vediamo oggi, sia riconoscendo che il paradigma non era riconosciuto valido da Aristotele, e che comunque anche Aristotele era convinto della fissità delle specie. Questo vuol dire che fissità e quindi l'immodificabilità delle forme del vivente, non sono una costruzione ideologica della teologia cristiana naturale, ma qualcosa che ha accomunato studiosi credenti e non credenti per un lunghissimo tratto.
Per una spiegazione storica del perché i biologi si sono convinti della verità dell'evoluzione e della selezione naturale, dobbiamo per forza di cose risalire al momento, anzi, ai momenti, nei quali cominciò a presentarsi nelle menti più fervide il pensiero del trasformismo. Persino dove meno te lo aspetti, nello stesso Linneo. Può sorprendere che il principe della sistematica avesse di questi grilli per la testa, eppure li ebbe. Osserva Giulio Barsanti: «Linneo professava in realtà un'interessante forma di di evoluzione per ibridazione, che gli veniva suggerita dall'assetto della "mappa geografica" (entro cui le specie, disponendosi a grappoli, parevano irraggiare da un punto comune), e dalla nuova sistematica che insieme l'aveva ispirata e vi trovava conforto. Le specie cessavano di venirvi inserite singolarmente (il cane, il lupo, la volpe ...) e di comparirvi isolate; grazie al binomio generico-specifico vi si aggrappavano (Canis domesticus, Canis lupus, Canis vulpes ...), come in "famiglie" caratterizzate dallo stesso "cognome", e ciò non soltanto sottolineava la presenza di numerosi rapporti di affinità (morfologica), suggeriva l'esistenza di stretti legami di parentela (genealogica).» [Barsanti 2005]
Di fronte al reperimento dei fossili, si sparse l'opinione che "essi crescessero nelle rocce" come i cristalli e non fossero altro che un accidente della natura. [Mayr 1982] Tale posizione fu condivisa da molti autori illustri, come il filosofo medioevale Alberto Magno, Mattioli, Fallopio, Agricola. «Anche se - scrive Mayr - Leonardo da Vinci, Fracastoro e altri precursori presentarono molte prove contro la contemporaneità di tutti i fossili, il dogma della giovane età della Terra continuò a lungo ad essere troppo potente per consentire che venisse adottata la teoria di una sequenza di faune fossili distinte.» Furono quindi le scoperte geologiche a muovere profondamente il quadro. Cominciarono a spuntare reperti che non potevano essere assegnati a nessuna specie animale conosciuta. Si trattava inoltre, di fronte a tali fatti inquietanti, se continuare a credere che la Terra avesse solo 6.000 anni di età, come sostenuto dai religiosi. Privatamente, Georges-Louis Leclerc de Buffon credeva a un'età di tre milioni di anni, ma per ragioni di opportunità, nelle sue pubblicazioni, le ridusse a 75.000. Ciò nonostante, la Chiesa, tramite la Facoltà parigina di Teologia, censurò tutta la parte dell'Histoire naturelle dedicata alla teoria della terra. [Barsanti 2005] Anche da questi fatti, si può intendere come il progresso della conoscenza non sia stato ostacolato solo dall'oggettiva difficoltà di trovare spiegazioni e dalla soggettiva incapacità di pensarle, ma anche dai soliti nemici di ogni ricerca.
François Jacob è comunque sicuro che non si possa parlare di «vero trasformismo» per quanto riguarda la seconda metà del Settecento. [Jacob 1970]
Scorrendo le pubblicazioni del secolo XVIII, ci si accorge di come il pensiero di molti autori ruotasse attorno ad un punto che tuttavia non si lasciava afferrare lucidamente. In sostanza, si cercava una spiegazione, ma non era chiaro di cosa. Siamo così di fronte ad approssimazioni, deviazioni, ritorni e brusche fermate. «L'atteggiamento di Buffon - scrive Jacob - per quanto innovatore possa sembrare, è ben lontano dal rappresentare una vera e propria teoria trasformista.» E' la stessa opinione di Mayr e di altri importanti autori di storia del pensiero biologico, tra i quali Pascal Duris e Gabriel Gohau. [Duris e Gohau 1997]
Sarà dunque Lamarck a fare il primo vero passo nella direzione giusta, nostante la sua teoria fosse gravemente erronea e incompleta.
Ma un altro fatto molto importante è da rilevare. Dici "illuminista" e subito pensi ad un gruppo di buoni in lotta contro i cattivi oscurantisti. E' un preconcetto da superare. Rispetto alla biologia, ci sono stati dei pessimi illuministi. Jacob ha richiamato l'attenzione su un punto di estremo interesse.«Nell'età classica, quando si trattava di dimostrare l'unità dell'universo, si riteneva che gli esseri viventi fossero sottoposti alle leggi della meccanica, regolatrici di tutte le cose. Per caratterizzare le forze che animano i corpi organizzati, si parlava del movimento che si produce continuamente nei solidi e nei fluidi. L'inesistenza dell'idea di vita appare evidente nella definizione dell'Enciclopédie, che, molto lapalissianamente, definisce la vita come "l'opposto della morte".» [Jacob 1970] Sarà solo all'inizio dell'Ottocento - prosegue Jacob - che maturerà l'esigenza di definire le proprietà del vivente.
Forse, le osservazioni di Jacob non sono del tutto esatte, ma è innegabile che la situazione non fosse affatto rosea. Alcuni illuministi, come Voltaire, riuscirono a fare, in un certo senso, più danni della chiesa cattolica. Ovviamente, non rispetto al progredire della ricerca, la quale è comunque inarrestabile, ma rispetto alla loro influenza sulla pubblica opinione e le sue idee circa l'impresa scientifica. E ciò in qualche modo si riconnette alla necessaria conclusione del "temino" che mi è stato dato. Dove il filosofo non arriva a capire, sarebbe meglio che tacesse invece che scadere in considerazioni volgari e gratuite come quelle di Voltaire. E cito Voltaire per il semplice motivo che è spesso portato come grandioso esempio di filosofia della tolleranza. Tolleranza verso chi? Sicuramente, ebbe ragione, nel Dizionario filosofico, alla voce Catena degli esseri creati, a ironizzare sugli scritti di Robinet volti a dimostrare la superiorità della razza bianca. Ma, in altre circostanze, Voltaire si rivelò infelice e sgradevole, come quando attaccò le posizioni di Joseph Needham sulla "generazione spontanea" non già con argomentazioni scientifiche, ricorrendo agli esperimenti di Redi, simili a quelli che di lì a poco avrebbe compiuto Spallanzani, ma con argomentazioni teologiche secondo le quali la materia non si fa e non si ordina da sola. "Needham le Patogon" e "Needham l'Anguillard" furono gli epiteti di cui si servì Voltaire per deridere il naturalista, il quale, per altro non intendeva affatto demolire la teologia naturale.
Bibliografia utilizzata e consigliabile
Barsanti G. [2005] - Una lunga pazienza cieca - Einaudi 2005
Cavalli-Sforza L. L.[1996] - Geni, popoli e lingue - Adelphi 1996
Dawkins R. [1976] - Il gene egoista - Mondadori 1992
Dawkins R. [1986] - L'orologiaio cieco - Mondadori 2003
Duris P. Gohau G. [1997] - Storia della biologia - Einaudi 1999
Fantini B. [1988] - Il dibattito teorico in biologia - in a cura di P. Rossi - Storia della scienza moderna e contemporanea - UTET 1988
Fantini B. [1988a] - La microbiologia - in a cura di P. Rossi - Storia della scienza moderna e contemporanea - UTET 1988
Jacob F. [1970] - La logica del vivente - Einaudi 1971
Mayr E. [1982] - Storia del pensiero biologico - Bollati Boringhieri - 1990
Mayr E. [1991] - Un lungo ragionamento - Bollati Boringhieri - 1994
Mayr E. [2004] - L'unicità della biologia - Raffaello Cortina Editore - 2005
GS - iniziato nel 2010 e lungamente discusso con Guido Marenco tra il 2011 e il 2012 - pubblicato nel giugno 2012