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Il sapere del biologo
Dopo Mendel e Darwin: uno scenario complicato

di Giuseppina Saccone
Ci siamo occupati nei precedenti articoli soprattutto di questioni metodologiche. Ma la biologia non si fonda solo su metodi di indagine, si basa anche e soprattutto su conoscenze che si cumulano se ritenute valide, e si accantonano se ritenute erronee.
La teoria di Darwin fu molto contrastata, non solo per motivi scientifici. Le sue implicazioni erano rivoluzionarie soprattutto dal punto di vista filosofico e religioso. Essa invitava a ricercare spiegazioni unicamente naturali alla biodiversità e ad accettare la differenza dell'uomo come un prodotto della selezione naturale e della lotta per l'esistenza invece che come un prodotto della volontà divina. Era un chiaro invito a rinunciare anche al finalismo lamarckiano, cioè all'idea che tutte le forme viventi sentissero il bisogno di progredire verso una sorta di perfezione, e che le forme più evolute fossero via via rimpiazzate da una continua germinazione spontanea dalla materia inorganica. Tesi, questa, che fu finalmente confutata da Pasteur, in un contesto molto contrastato.
L'impatto della selezione naturale fu rivoluzionario, ma spesso si trascura un altro fatto storico molto importante, e cioè che un gran numero di biologi, di medici, di scienziati continuarono a rifiutare non solo la selezione naturale, ma anche a diffidare dell'evoluzione in sé e dello stesso finalismo lamarckiano. Non sempre è chiaro se ciò avvenne per motivi religiosi e/o filosofici, o esclusivamente per ragioni scientifiche. Ma quando spesso si legge che "lo studio della biologia ha senso solo alla luce dell'evoluzione", un concetto guida in cui anch'io credo, riportando la famosa espressione di Dobzhansky, si rischia di ripetere una banalità che non ci aiuta a comprendere perché la biologia aveva un senso anche prima di Darwin, o anche di Lamarck, e continuò ad avere quello stesso senso anche dopo Darwin. Famosi avversari della teoria della selezione naturale furono il fisiologo Pierre Flourens, vivisezionista e autore di studi all'avanguardia sulle funzioni del cervelletto, il quale giudicò Darwin come il portatore di "un gergo metafisico"... "pretenzioso e vuoto", il paleontologo Louis Agassiz, l'embriologo von Baer che, già nel 1827, aveva scoperto l'ovulo nei mammiferi, Richard Owen, il quale nel 1836 formulò il concetto di "omologia", l'idea per cui in animali differenti esiste lo stesso organo con le identiche funzioni, anche se ovviamente con forme e dimensioni diverse.
Una mente acuta potrebbe contestare quanto ho affermato, proprio appoggiandosi a questo concetto. Owen lo aveva sì formulato ma, in maniera confusa. Darwin lo corresse e fu alla luce della teoria dell'evoluzione che acquistò un senso nuovo e fecondo: l'omologia deriva da antenati comuni. Non vorrei essere costretta ad arrampicarmi sugli specchi per difendere un punto di vista che, come ho già detto, non è il mio. Anche per me la biologia ha molto più senso alla luce della selezione naturale. Tuttavia, ho fondate ragioni per sostenere che per quasi tutto l'Ottocento le ricerche biologiche si svilupparono in modo indipendente dalla teoria della selezione naturale, anche dopo Darwin. Salvo alcune eccezioni, portate recentemente alla luce da Corbellini. [Corbellini] Potremmo, anzi, agevolmente sostenere che alcune ricerche erano ispirate dall'idea di confutare la teoria darwiniana. Ciò non ha costituito affatto un "blocco" od un ostacolo all'incremento delle conoscenze.
Se prendiamo in considerazione le direzioni principali della ricerca, abbiamo che la teoria cellulare di Remak e Vierchow venne chiaramente elaborata in un contesto non-darwiniano, forse, anche non-evolutivo; gli importanti studi di fisiologia sperimentale in rapporto alla chimica, e poi quelli sviluppati da Claude Bernard in Francia non ebbero alcun rapporto con l'evoluzione; anche gli sviluppi della microbiologia, l'eziologia delle malattie infettive e gli esordi della chemioterapia risultarono del tutto indipendenti. Quanto agli sviluppi della chimica e della chimica organica, basta una semplice intuizione per comprendere che come Darwin non ebbe il tempo e le energie sufficienti per occuparsene in modo approfondito, anche chimici e biochimici finirono spesso con l'ignorare Darwin. E' solo accettando questa constatazione che lo scenario della storia della biologia, estremamente complicato, viene a presentarsi in modo più corretto e conforme alla realtà. Sicché, dobbiamo convenirne, i 'fondamenti' che la biologia dell'Ottocento consegnò in eredità a quella del Novecento furono plurali e problematici, vanno interpretati come il frutto di un concorso di meriti e di insufficienze, non come il risultato di rivoluzioni paradigmatiche kuhniane; insomma, come sviluppo di programmi di ricerca spesso miopi e testardi, indirizzati verso questioni particolari ritenute peraltro di importanza decisiva. L'unica vera rivoluzione fu quella darwiniana ma, centinaia, forse migliaia, di studiosi e ricercatori continuarono a fare della "scienza normale" all'ombra dei precedenti concetti della biologia funzionale e strutturale. Come vedremo più avanti, fu merito essenziale di Weismann se tutto questo germogliare di apporti pluralistici e interdisciplinari venne in qualche misura convogliato verso una concezione della biologia fondata sulla selezione naturale. Ma potremmo individuare un problema nel fatto che Weismann non fosse a conoscenza delle esperienze mendeliane. Forse, per evitare una distorsione nella percezione storica delle vicende, avrei dovuto intitolare quest'articolo: "Dopo Darwin e prima di Mendel", cioè prima della "riscoperta" di Mendel.

Quanto detto su Darwin, vale a maggior ragione per Mendel. Essendo stato il suo pensiero "segregato" fino agli inizi del '900, egli non esercitò alcuna influenza paradigmatica nel periodo che stiamo considerando. Tra i suoi studi statistici e la ricerca biologica mainstream dell'Ottocento non ci fu alcun rapporto. Semplicemente, la comunità scientifica dei biologi non era pronta, o sensibile, al tipo di ricerca avviato da Mendel, guidata da metodologie matematiche e statistiche. Uno dei responsabili della segregazione di Mendel fu von Nagëli, che non sentì il bisogno di far conoscere gli esperimenti del prelato moravo e valorizzarli. Qualche parola su Nagëli si deve spendere, sia per questo motivo che per altri non meno importanti. Nagëli fu il teorico della separazione del protoplasma in trofoplasma e idioplasma. Il primo svolge funzioni di nutrizione e accrescimento; il secondo, di dimensioni molto più ridotte, si incarica della funzione essenziale della riproduzione. Come scrive Jacob: «Esso, infatti, è il substrato dell'ereditarietà, contenuto nell'uovo, che ne dirige l'evoluzione e lo sviluppo e si diffonde in tutto l'organismo, formandovi una specie di trama direttrice. Se l'uovo di gallina è diverso dall'uovo di rana, è perché contiene un'idioplasma differente.» [Jacob 1970] L'idioplasma, secondo Nagëli, è una sostanza composta da un grandissimo numero di micelle. Un millemetro cubo di idioplasma ne può contenere 400 milioni. Ogni idioplasma si distingue da un altro per come sono ripartite le micelle. «Secondo questa interpretazione - continua Jacob - la riproduzione delle forme viventi nel succedersi delle generazioni, non è più dovuta alla presenza - nell'uovo - di particelle "rappresentanti" le varie parti del corpo, ma a una sostanza particolare che controlla e dirige lo sviluppo dell'organismo.» Se è vero quel che dice Mayr, per circa un ventennio, non ci fu nessuna seria pubblicazione che non contenesse qualche citazione dei lavori di Nagëli. Quindi, egli esercitò una grande influenza sulle ricerche biologiche dell'epoca. Tuttavia, per meglio comprendere da dove venisse l'ipotesi della distinzione tra trofoplasma e idioplasma, dobbiamo prestare attenzione a quanto scrive Mayr: «Questa distinzione era un'inferenza tratta dall'osservazione che, mentre di solito i contributi paterno e materno normalmente si equivalgono nel determinare la costituzione genetica della progenie, la massa dell'uovo può risultare più di mille volte superiore a quella dello spermatozoo. Ne consegue che solo una piccola frazione dell'uovo, di massa all'incirca pari a quella dello spermatozoo, può consistere di idioplasma. Si potrebbe pensare che una simile conclusione dovesse indurre Nagëli a postulare che l'idioplasma si restringesse al nucleo. Curiosamente le cose non stanno così: il suo idioplasma è fatto invece di lunghi filamenti che vanno da una cellula all'altra, e sono indipendenti dal nucleo.» [Mayr 1982] Eppure, i tempi erano maturi, e le conoscenze di cui poteva disporre non erano così lontane dall'incoraggiare un simile passo. Già nel 1841, Rudolf Kölliker, un botanico svizzero, aveva compreso ed evidenziato la natura cellulare degli spermatozoi. Successivamente, intorno al 1850, venne affermato che nel nucleo cellulare sono annidati i caratteri ereditari, che anche l'uovo femminile è una cellula.
Inoltre, gli studi di Remak e Vierchow avevano evidenziato che parte essenziale delle cellule è il protoplasma, che è la suddivisione del protoplasma a costituire il momento decisivo della duplicazione, e che, infine tutte le cellule animali vengono dalla divisione cellulare.
La teoria di von Nagëli era evidentemente il frutto di una fantasia speculativa, costruita su intuizioni, anche se pretendeva di presentarsi come «teoria meccanica dell'evoluzione.» A commento dell'opera di von Nagëli, Mayr richiama il giudizio di uno studioso, A. Barthelmess, che nel 1952 osservava: «Oggi restiamo sgomenti davanti a un simile castello di carte, frutto di pura fantasia, e ci meravigliamo dell'autocertificazione dell'autore il quale dichiara che la sua sarebbe l'unica soluzione possibile del grande rebus dell'evoluzione organica.» Se interessa sapere perché von Nagëli snobbò gli studi mendeliani, Mayr fornisce una risposta plausibile: era interessato soprattutto allo studio degli ibridi di specie, nei quali la segregazione mendeliana dei caratteri è rara o inesistente. Sì, però non si capisce come di fronte a certe evidenze, non si provi il pur minimo interesse e una sollecitazione a far conoscere le importanti novità.

Il peso specifico di August Weismann nella storia delle ricerche biologiche fu immensamente superiore a quello di Nagëli, per quanto, a prima vista, i due possano venire associati dalla rassomiglianza delle rispettive teorie. Se ben guardiamo, non è così. E' vero che Weismann fu il teorico più agguerrito della divisione tra plasma somatico e plasma germinale e quindi sostenitore dell'"indipendenza" dei caratteri ereditari da quelli somatici. Ma c'era una grande differenza tra la nozione elaborata da Weismann e quella di Nagëli. Abbiamo a che fare - dice Weismann, innanzituttocon due tipi differenti di cellule. «La riproduzione - scrive Jacob - mette in movimento delle cellule di un tipo particolare, le cellule germinali, del tutto diverse dalle cellule costitutive del corpo, o cellule somatiche, per, struttura, funzione e ruolo nei processi evolutivi.» [Jacob 1970] Scrive infatti Weismann: «Le cellule germinali contengono una sostanza che, per la sua costituzione fisico-chimica (e, in particolare, per la sua natura molecolare) ha la capacità di diventare un nuovo individuo della medesima specie.» E' importante osservare quali conseguenze da questo principio. «Anzitutto - scrive Jacob - viene rovesciata - se così può dirsi - la proposizione secondo cui il figlio è soltanto un'escrescenza dei genitori. Per Weismann, mentre dalle cellule germinali possono avere origine entrambi i tipi di cellula, le cellule somatiche formano sempre e soltanto cellule somatiche. Le cellule germinali non possono, dunque, essere considerate come un prodotto dell'organismo; nel succedersi delle generazioni, esse si comportano come una stirpe di esseri unicellulari che si riproducono per scissione.» «Nella riproduzione degli esseri pluricellulari - queste son parole di Weismann - si ha lo stesso processo che caratterizza la riproduzione degli esseri unicellulari: una continua divisione della cellula germinale. La differenza consiste nel fatto che - negli esseri pluricellulari - la cellula germinale non costituisce, da sola, l'intero organismo, ma è circondata ... da miliardi di cellule somatiche, il cui insieme forma l'unità superiore dell'individuo.» Le germinali si riproducono per scissione e perpetuano la stessa radice ereditaria. Un' altra conseguenza è che se le cellule germinali derivano direttamente da quelle della generazione precedente, si trovano automaticamente protette da qualsivoglia contaminazione o influenza del corpo dei genitori, in particolare quello materno in qualunque circostanza, anche in caso di trasfusioni. «Tutti i cambiamenti dovuti a inflluenze esterne - scrive ancora Weismann - sono transitori e scompaiono insieme all'individuo.» Non riguardano la specie, non influiscono sulla selezione naturale. «L'organismo - scrive Jacob - non può acquisire alcun carattere, se non vi è predisposto ereditariamente, Nell'uovo è già determinato l'intero futuro di un individuo, le sue forme, le sue proprietà. Se resta ancora per le condizioni esterne un certo margine di manovra, si tratta di un margine "ristretto, che si identifica con una piccola regione mobile intorno ad un punto fisso, rappresentato dall'ereditarietà". La natura delle cellule germinali, mentre è costante all'interno di ciascuna specie, varia da una specie all'altra. Ciò che si trasforma e dà luogo all'apparizione di forme nuove non è l'individuo come tale, ma le "disposizioni ereditarie" contenute nelle cellule.» Afferma ancora Weismann: «La selezione naturale opera apparentemente sulle qualità dell'organismo adulto, ma in realtà agisce sulle disposizioni che si celano all'interno della cellula germinale.»

Mayr dice di Weismann che c'è da rimanere sbalorditi «per la varietà dei problemi che analizzò e per l'efficace intuizione con cui, ripetutamente, ne suggerì la corretta interpretazione.» Il suo unico grande errore fu quello di respingere la teoria dell'attivazione, il cui significato chiariremo tra poco con le parole dello stesso Weismann. In realtà, Mayr ha, più di Jacob, storicizzato il suo pensiero e la sua importanza. In parte, le sue ipotesi sono diventate un pilastro del sapere biologico evolutivo del Novecento; in parte si è quasi subito compreso che il pilastro non era sufficientemente robusto. Secondo me, continua ad esser vero che i 'fondamenti' vanno cercato in avanti e non solo all'indietro e che la biologia assomiglia in modo straodinario all'oggetto dei suoi studi: è sempre in riparazione. Nessuna parte dell'organismo funziona mai perfettamente, ogni giorno si sottopone a piccole rettifiche e correzioni, ma nell'insieme tira avanti. Forse, è la stessa cosa che suggerisce Mayr, quando afferma: «Noi oggi sappiamo che l'idea basilare di Weismann ... era del tutto corretta. La sua intuizione nel postulare tale separazione era impeccabile. Tuttavia, fra due possibili vie per designarla, egli scelse la separazione delle cellule germinali dalle cellule somatiche, mentre ora sappiamo che la separazione cruciale è quella fra il programma racchiuso nel DNA del nucleo e le proteine nel citoplasma di ciascuna cellula.»
Esaminando più in dettaglio la genesi della teoria, veniamo a sapere che nel 1899 Weismann scriverà di essersi trovato alle prese con due spiegazioni diverse per la differenziazione ontogenetica. La prima puntava sull'ipotesi della separazione sistematica e progressiva del materiale ereditario contenuto nel germoplasma in gruppi sempre più piccoli. La seconda ipotizzava «che i determinanti di tutti i caratteri rimangano uniti in tutte le cellule dell'organismo in via di sviluppo, ma ciascuno di essi sia regolato per rispondere a uno stimolo specifico che attiva solo il carattere corrispondente. Io decisi in favore della prima, poiché sulla base dei fatti disponibili a quell'epoca sembrò la più probabile.» [Mayr 1982, che riporta Weismann 1899] In questo l'errore di Weismann. E' probabile che se Weismann fosse stato a conoscenza degli studi di Mendel, avrebbe prestato maggiore attenzione all'ipotesi dell'attivazione.
Infatti, in diversi passaggi dei suoi scritti, sfiorò più volte l'idea che lo sviluppo fosse regolato da un programma genetico. Essendo prima di tutto un fisiologo, affrontò il problema dell'eredità dal punto di vista della fisiologia dello sviluppo. Forte di alcune ricerche sviluppate sulla cellula e sui nuclei cellulari, in particolare da Flemming e da Miescher (lo scopritore della "nucleina"), Weismann tentò di spiegare che il materiale contenuto nel nucleo cellulare, che chiamava "cromatina" come suggerito da Flemming, era in grado di conferire una specifica caratterizzione alla cellula contenente quel nucleo. «Se si considera che le migliaia di cellule di cui un organismo è composto possiedono caratteri molto differenti, è evidente che la cromatina che le controlla non può essere la stessa in ogni cellula ma deve differire a seconda della natura della cellula.» [Mayr 1982, che riporta Weismann 1891] Secondo Weismann, dunque, devono esistere unità ereditarie, che regolano l'ontogenesi. Postula così l'esistenza del bioforo, aggregato di molecole in grado di crescere e replicarsi. Ciascun bioforo controlla una proprietà della cellula. Tutta la materia vivente è composta di biofori e il numero di questi è illimitato, grande quanto il numero delle possibili aggregazioni molecolari. Nucleo e citoplasma cellulari sono composti di biofori, ma le proprietà del citoplasma sono determinate dal nucleo. «Le cellule muscolari, le cellule sanguigne e le altre componenti del corpo sono controllate da specifici complessi di biofori che Weismann chiama determinanti e che rappresentano le unità immediatamente superiori per rango nella gerarchia delle particelle.» [Mayr 1982]
Mayr fa anche notare un'importante differenza tra la teoria di Weismann e quella da lui non conosciuta di Mendel. Weismann sostenne che una singola cellula, comprese i gameti, può contenere numerose repliche dello stesso determinante, mentre, secondo Mendel, ve ne sono solo due, uno per ciascun genitore. Ciò porta a due teorie dell'eredità del tutto diverse. Tanto più che, secondo Weismann, al di sopra dei determinanti stanno unità superiori, gli ids, che, come qualche volta Weismann lascia intendere, non sono altro che i cromosomi. Anche gli ids possono replicarsi nella loro interezza.

Le idee di Weismann ebbero però anche un'altra conseguenza. Venivano a confutare uno dei "pezzi" della teoria lamarckiana che erano in parte confluiti nella teoria di Darwin, quello dell'ereditarietà dei caratteri acquisiti, definita da Mayr, più correttamente, come eredità debole. Se le cellule germinali non possono venire modificate dall'ambiente e dal comportamento nemmeno durante la fase di gestazione, quando la madre è collegata al nascituro dal cordone ombelicale, semplicemente non esiste quel tipo di ereditarietà. Weismann, da buon darwiniano, aveva creduto nell'ereditarietà dei caratteri acquisiti fino agli anni '70. «Non è chiaro - scrive Mayr - che cosa abbia provocato la sua conversione definitiva. Né è chiaro se Weismann prima si sia convinto della non-validità della teoria dell'ereditarietà dei caratteri acquisiti e, dopo, abbia adottato la teoria dell'impronta germinale o viceversa. Fatto sta che già nel suo contributo del 1883 cita tanti argomenti contro l'eredità debole, che si può agevolmente supporre che questa convinzione generale precedesse la proposta di un meccanismo specifico.» Comunque sia, si sa che Weismann provò a confutare l'ereditarietà debole anche con esperimenti, a mio avviso superficiali, se non superflui. Da migliaia di anni i bambini ebrei vengono sottoposti a circoncisione, eppure non è mai successo che nascano bambini privi di prepuzio in virtù della trasmissione di questo carattere acquisito. Non aveva quindi alcun senso, o poco senso, tagliare le code ai topi per vedere se i discendenti dei topi mutilati sarebbero nati privi di coda. Eppure Weismann perse tempo in un simile trastullo crudele. Dall'altro lato, poteva essere evidente che gli esperimenti non confutavano realmente l'ipotesi di Lamarck, in quanto egli aveva teorizzato lenti, graduali e irreversibili mutamenti indotti dall'insorgenza di un bisogno relativo, indotto a sua volta dalle modificazioni climatiche e ambientali. Ciò non aveva nulla a che fare con mutilazioni, cicatrici, fratture o altro perché non c'è alcun bisogno di questo. L'ereditarietà debole, o soffice, come è stata definita in modo pittoresco più tardi, è uno dei concetti più difficili da esplicare perché può essere facilmente frainteso e/o distorto. Se devo essere sincera fino alle estreme conseguenze, anch'io ho faticato a metterlo a fuoco con precisione e ho sempre invidiato i colleghi, e prima ancora i compagni di università, che ne parlavano con baldanzosa sicurezza, spesso richiamando infuocate citazioni di Weismann come quella che, pressappoco, recita: come è possibile che un individuo molto muscoloso possa alterare il suo sperma per far sì che i suoi figli si somiglino dal momento che le cellule sessuali non hanno muscoli? Accettare l'eredità debole equivarrebbe ad «immaginare che un telegramma in lingua inglese inviato in Cina potesse essere ricevuto dal destinatario in cinese.» Al di là di queste colorite espressioni, resta che gli studi di Weismann anticiparono di poco le scoperte di Van Beneden, Boveri e O. Hertwig sulla meiosi. Questi studi, effettuati sul verme intestinale Ascaris, portarono alla certezza sperimentale che le cellule sessuali si riproducono separatamente e diversamente da quelle somatiche. In particolare, nel 1902, W. Sutton fornirà la prova che le coppie di cromosomi omologhi che si appaiano durante la prima divisione meiotica sono uno di origine paterna e l'altro di provenienza materna.

Da quanto fin qui esposto, appare evidente che la teoria cellulare era diventata, nel corso dell'Ottocento, uno dei punti caldi degli studi biologici. Da dove si era partiti? Da osservazioni al microscopio, ovviamente. Il primo a parlare di "cellula" fu il fisico Robert Hooke, contemporaneo di Newton, che aveva indirizzato una «grossa lente piano convessa» su «un bel pezzo di sughero chiaro». Malpighi, successivamente, parlerà di "vescicole" e "utricoli". Ma non dobbiamo credere che le prime scoperte microscopiche abbiano portato molto avanti nelle conoscenze. Per Hooke, le cellule erano scatolette piene di liquido nutritivo. Swammerdamm e Leeuwenhoeck furono più che altro degli spettatori degli animalculi spermatici e dei globuli rossi del sangue. Per molto tempo ancora l'attenzione cadde sui tessuti più che sulle cellule, e questi sembravano composti di fibre. Sia Bichat che Brisseu-Mirbel, in Francia, avevano compreso l'importanza di studiare i tessuti. Ma Bichat non usava il microscopio e non arrivò quindi a vedere ciò che il botanico Brisseu-Mirbel era riuscito a scorgere, che cioè l'organizzazione vegetale è formata da un solo tessuto membranoso che forma una specie di reticolo nel quale le sostanze nutritive possono circolare. Bichat, tuttavia, facendo un elenco di ventuno tessuti che, secondo lui, componevano l'organismo, vi incluse un tessuto cellulare accanto ai molti altri, ossia osseo, cartilagineo, nervoso, ecc.
Nelle piante le pareti cellulari sono più spesse e quindi più visibili. Brisseu-Mirbel era quindi partito con un doppio vantaggio su Bichat, uso del microscopio e cellule con pareti più spesse, eppure le sue conclusioni non furono entusiasmanti perché spingevano a considerare la continuità dei tessuti invece che la cellula come unità funzionale. Furono alcuni naturalisti tedeschi, Rudolphi, Link e Treviranus a imboccare con più convinzione una linea alternativa. Il tessuto non era affatto continuo. Le ricerche del medico Dutrochet, pubblicate nel 1824, confermarono che aveva avuto ragione Link nel contestare sperimentalmente la continuità dei tessuti. Questi aveva semplicemente preso un pezzo di tessuto e lo aveva fatto bollire, osservando che le cellule si erano separate. Ripetendo l'esperimento, ma facendo bollire un pezzo di midollo in acido citrico, Dutrochet concluse che «ovunque due cellule si tocchino, la parete che le separa offre una doppia membrana.» Sarebbe interessante seguire tutte le intricate e intriganti vicende che portarono lentamente ad una compiuta teoria cellulare ma, qui dobbiamo schiacciare il pedale dell'acceleratore ed arrivare, in breve ad un passaggio cruciale. Va solo ricordato, per correttezza, che Brisseu-Mirbel fece autocritica e nel 1839 riconobbe la separazione e la relativa autonomia delle cellule.

Uno dei problemi che, ovviamente, si pose (e si ripropose) nel nuovo quadro delineato dalla teoria della separazione cellulare era quello riguardante l'origine delle cellule. Bernardino Fantini parla di tre modelli distinti. [Fantini 1988] Il primo era un modello esogeno e prevedeva la formazione di nuove cellule al di fuori delle cellule esistenti. Treviranus ipotizzò la formazione di nuove cellule mediante lo sviluppo di granuli presenti nel fluido che occasionalmente precipitano e poi si ingrandiscono. Il secondo modello di spiegazione era endogeno. Prevedeva cioè che ogni cellula contenesse dei rudimenti capaci di ingrandirsi. Questa ipotesi fu sostenuta dai francesi Raspail e Turpin. Infine, alcuni studiosi, tra cui Trembley e van Mohl, condussero ad individuare l'ipotesi più corretta, ovvero la riproduzione di strutture già organizzate. «I primi citologi - scrive Fantini - elaborarono varie ipotesi sulla moltiplicazione cellulare che sembrano simili in molti punti essenziali alla teoria cellulare moderna. Queste prime ipotesi si concentravano tuttavia esclusivamente sulla parete cellulare, che veniva fatta coincidere con lo stesso concetto di cellula.» In sostanza quella che noi chiamiamo mitosi, veniva essenzialmente descritta come una suddivisione intracellulare determinata dalla costruzione di una parete divisoria.
Ci fu una svolta quando l'attenzione passò al "contenuto" della cellula, il protoplasma. Presto si comprese che bisognava rovesciare il ragionamento: non era la parete a dividere in due una cellula, ma la cellula a costruire la parete. Fu il botanico scozzese Robert Brown - quello del moto molecolare detto browniano - a scoprire che in tutte le cellule delle orchidee si trova un oggetto non meglio identificato: il nucleo.
Proprio a partire da studi sul nucleo, Mathias Schleiden, inizialmente convinto della spiegazione endogena, cercò di aggiustare il tiro, precisando in che senso la cellula nasce all'interno della cellula. Egli cominciò così a parlare di "citoblasto", appunto il nucleo, riconoscendo il ruolo centrale che questo giocava all'interno della cellula. Secondo Mayr, «Schleiden apparteneva alla generazione di quei giovani biologi tedeschi che, nel reagire con forza alla Naturphilosophie, invertirono la rotta, tentando di spiegare tutto in un quadro di riduzionismo fisico-chimico. Per lui era inconcepibile che alla domanda "Come si originano nuove cellule?" si rispondesse: "Da cellule preesistenti". Una risposta del genere avrebbe avuto un tono troppo preformista, e il preformismo era una teoria ormai largamente screditata.» Qui, mi accorgo che bisognerebbe spiegare che significa preformismo. Per comodità di scrittura e, suppongo, di lettura, rinvio alla nota (1) a piè di pagina.
Fatto sta, che le ricerche di Schleiden coinvolsero una singolare figura di studioso e di mistico: Theodor Schwann. Le due cose non sembrano incompatibili in linea generale, ma una vera contraddizione si potrebbe rilevare tra misticismo, normalmente olistico, e l'opzione riduzionista. A differenza di Schleiden, però, Schwann seppe immediatamente collegare lo studio delle cellule al metabolismo e all'assimilazione dei composti chimici nei tessuti. «La trasformazione della materia extracellulare non differenziata (blastema) avviene per mezzo del "potere metabolico" delle cellule esistenti, con un processo analogo alla formazione dei cristalli in una soluzione sovrassatura. Schwann introdusse il termine "metabolico" (dal greco tò metabolikòn, disposto al cambiamento), per indicare appunto le trasformazioni chimiche dei costituenti cellulari e del materiale circostante. La cellula deve essere considerata la sede ultima delle attività metaboliche ed in particolare la respirazione deve essere basata interamente sui "fenomeni metabolici delle cellule".» [Fantini 1988]
Negli stessi anni di Schleiden e Schwann, altri ricercatori come Purkinje, Valentin e Henle portarono a confermare l'esistenza generalizzata e l'importanza del nucleo. Nel 1839, Schwann introdusse il termine «teoria cellulare» motivandolo così: «Si può includere nel nome di teoria cellulare, nel senso più vasto, l'enunciato che esiste un principio generale di costruzione per tutti i prodotti organici, e che questo principio di costruzione è la formazione delle cellule.» Schleiden, d'altro canto, seguendo una linea epigenetica opposta al preformismo, già nel 1838, aveva avanzato una teoria detta della «libera formazione della cellula», che descriveva, nel primo stadio del processo, la formazione del nucleo mediante cristallizzazione del materiale granulare contenuto all'interno della cellula. Col senno di poi, ovviamente, siamo in grado di dire che la teoria cellure Schleiden-Schwann era sbagliata ma, come dice Mayr, i loro studi ebbero il merito di avviare una fase «parossistica» di ricerche, volte a trovare diversi tipi di spiegazione. Gli approcci e i modelli furono diversi. Alla fine prevalse un programma di ricerca che non si limitava a considerare la cellula sul piano strutturale, come prevalentemente avevano fatto Schleiden e Schwann, bensì, sviluppando peraltro anche le osservazioni di Schwann sul metabolismo, puntava a sottolineare il ruolo fisiologico della cellula.
Nel 1852, Robert Remak dimostrò che l'uovo di rana è una cellula che dà origine a cellule nuove mediante divisione di quelle esistenti. Anche queste osservazioni gli consentirono di respingere la teoria della «libera formazione della cellula», arrivando poi a dimostrare, che nei tessuti animali e umani, le cellule si formassero esclusivamente per divisione di una cellula preesistente. In accordo con Remak, il patologo Rudolf Virchow affermò un principio generale per il quale «nessun genere di sviluppo inizia de novo». Si deve respingere l'idea della generazione spontanea delle singole parti dell'organismo e per l'organismo nella sua interezza.



Non riesco a concepire un'ereditarietà non-genetica, che cioè prescinda dal corredo cromosomico che un individuo riceve al momento del concepimento, sarebbe meglio accantonare il problema, come suggerisce Dawkins, perché non suscettibile di verifiche empiriche e confutazioni. [Dawkins 1986] Vorrei solo spiegare perché. Le mie ragioni sono in parte diverse da quelle di Dawkins. Quando si parla di "caratteri", bisognerebbe specificare "quali". Già qui regna un sovrano disordine; ritengo sia impossibile trovare tre genetisti che la vedono allo stesso modo almeno su un qualche punto decisivo, per non parlare di tre biologi di diversa formazione. Se vogliamo restringere la discussione esclusivamente ad elementi oggettivi, dobbiamo almeno accordarci e parlare solo, per esempio, muovendo dalla omologia cui abbiamo fatto cenno in apertura. Questo sarebbe un punto fermo. Avremmo così un carattere come lo "stomaco" di cui parlare, un chiaro risultato della selezione naturale. Confrontando lo stomaco di un criceto, di un bovino, di un carnivoro e di un primate, potremmo scoprire differenze fondamentali sia in ordine all'ampiezza che rispetto alla struttura, non alla funzione. La funzione è la stessa, anche se utilizza materiali differenti come l'erba, il germoglio di bambù, il pesce o la carne. Lo stomaco deve digerire e si è ovviamente specializzato nel farlo, tant'è vero che lo stomaco di un bue è diventato strutturalmente diverso da quello di un primate onnivoro. Ciò, tuttavia, ha portato all'affermazione, che ritengo sconcertante, che qualsivoglia tentativo di definire i caratteri su base funzionale sarebbe fallace, perché si possono ereditare strutture, o anche misure quali l'ampiezza, ma non funzioni! Non esisterebbero le basi genetiche per le funzioni, ma solo le basi genetiche di organi orientati, e quindi impiegabili, (liberamente e creativamente impiegabili?) per determinate funzioni. Come dire, poeticamente, che potremmo usare il cuore per sentire, le orecchie per vedere, gli occhi per pompare il sangue, e magari l'utero per pensare, come ultimamente mi è capitato di leggere su un volantino che invitava a partecipare ad un costosissimo seminario per liberare la mente femminile dalle scorie della razionalità maschiocentrica! Questo non vuol dire che io mi oppongo all'idea di exapatation come è stata introdotta da Gould e Vrba. Infatti, con questo concetto si evidenzia come un post-adattamento possa realizzarsi in modo multi funzionale. In realtà, tutti gli adattamenti, alla luce della selezione naturale, sono post-adattamenti nel senso che prima si è prodotto l'organo e successivamente si è realizzato l'adattamento dell'individuo. Ma l'exaptation evidenzia qualcosa in più, cioè un uso non convenzionale e canonizzato dell'organo, cioè anche come un organo o parte anatomica, possa essere usato creativamente dall'intelligenza animale ben oltre la sua normale funzionalità. L'uomo usa il naso e le orecchie anche per appoggiarvi gli occhiali, o per appendervi ornamenti, l'airone nero africano usa le ali per realizzare nell'acqua una zona d'ombra che è molto apprezzata dai pesci, forse più della mollica che appendiamo agli ami noi pescatrici della domenica. Con l'ombra, l'airone nero attira i pesci, che poi trafigge. [Eldredge 2002] Quello di exaptation è pertanto un concetto fecondo. Ciò a cui mi oppongo è un uso improprio e completamente sterile dell'analisi. Sarà vero, insomma che in senso stretto non si ereditano "funzioni", ma è soprattutto vero che se non si tiene stretto il rapporto tra organo e sua "funzione" primaria, non si capisce nemmeno più perché quel modello sia risultato vincente nella selezione naturale e altri modelli siano stati sconfitti ed eliminati.

Ho compiuto questa lieve digressione perché ho sempre più la sensazione che in questo momento occorra fare un po' meno filosofia e un po' più biologia. E siccome la biologia è soprattutto una scienza di concetti, oltre che di osservazioni ed esperimenti utili e non inutili, diventa quantomeno necessario un lavoro di pulizia degli arnesi che stiamo impiegando e di selezione dei concetti veramente importanti. Ma sbaglieremmo nel credere che questo sia un problema esclusivo del nostro tempo. Già immediatamente durante e dopo Weismann, vennero alla luce concetti nuovi e sottili distinguo, non del tutto rispondenti a vere necessità del pensiero biologico. Mi riferisco, ad esempio, al concetto di ologenesi introdotto da Daniele Rosa, un biologo che ebbe il singolare destino di fare una corrente di pensiero del tutto a se stante, da considerarsi sia anti-darwiniana che anti-lamarckiana. Rosa, non diversamente da Weismann, si basò su studi di citologia, per poi venire a sostenere una teoria dell'evoluzione ramificata, in nessun modo influenzata da cause esterne, di cui gli unici responsabili sarebbero stati fattori interni. Alcuni concetti potrebbero venire riportati a Lamarck, visto che Rosa definiva la mutazione "irreversibile" e "necessariamente progressiva" ma, sicuramente, non era né darwiniano né lamarckiano il concetto di un punto di saturazione dell'evoluzione di una singola specie per cui, raggiunto un determinato livello di maturazione, il massimo potremmo dire, una specie si deve necessariamente scindere e ramificare, come si trattasse di un organismo unicellulare. Anzi, il processo, per Rosa, sarebbe stato analogo «agli sdoppiamenti che portano dalla cellula uovo a un organismo pluricellulare.» [Barsanti 2005] Ecco, quindi, un concetto del tutto inutile e confuso come quello di ologenesi, che non ha alcun senso in biologia e deriva da un'ipotesi metafisica e non da una realistica ipotesi scientifica. Ma, a volte, sono i distinguo più sottili a generare confusioni semantiche scarsamente desiderabili.

Un altro momento centrale della storia della biologia nel secolo di Darwin e di Mendel


C'è un assurdo nella situazione intellettuale e scientifica del periodo che stiamo considerando, ed esso trae la sua consistenza sia in rapporto alle tendenze scientifiche del tempo, sia in relazione ai dettami imperanti nella fase attuale dell'epistemologia post-popperiana. Facciamo attenzione al fatto che secondo diversi autori, una teoria come quella lamarckiana dei caratteri acquisiti ereditabili potrebbe risultare falsificabile, almeno per certi aspetti, mentre l'insieme della teoria darwiniana non lo sarebbe. Questo non è vero perché, una volta scomposta in più teorie, qualcuna di esse si presta alla falsificazione. Lord Kelvin cercò di falsificare il gradualismo asserendo che la Terra era troppo giovane rispetto ai tempi richiesti da Darwin per l'evoluzione. Come sappiamo, fu invece Kelvin ad essere falsificato dalla scoperta della radioattività. Se qualcuno ha gridato alla vittoria della biologia sulla fisica, ha completamente sbagliato direzione. E' la fisica che ha confutato la fisica, confermando così un'ipotesi biologica molto consistente. Ma l'idea di una più schietta falsificabilità di Lamarck sembra resistere e per un certo periodo fu oggetto di ripetuti esperimenti. Weismann si propose di demolire la teoria di Lamarck e approntò alcuni esperimenti che sembravano pertinenti, ma non lo erano. Anzi, erano del tutto superflui.
L'atteggiamento di Weismann si spiega solo con una mancata o distorta comprensione della teoria di Lamarck, la quale non diceva affatto che tutti i caratteri acquisiti si trasmettono, ma che le mutazioni sorgono in base ad un bisogno. La percezione del bisogno non è cosciente, non è la coscienza animale o vegetale (?) a determinare la mutazione, ma l'incosciente reazione dell'organismo all'ambiente, che origina abitudini e comportamenti. Il collo delle giraffe si allunga anche perché le giraffe cercano di allungarlo con un certo tipo di comportamento ma, sarebbe discutibile affermare che sono coscienti del bisogno di un collo lungo.
Sono alta 1,60 e ho sempre desiderato crescere almeno di 10 cm. Da giovane cercai di allungarmi il più possibile camminando eretta e tirata, stirandomi in continuazione. Purtroppo non sono cresciuta. Se i miei due figli sono più alti è perché il loro padre veterinario è più alto. Può darsi che alle giraffe riesca di allungarsi il collo. (!) Il loro comportamento esprime, probabilmente, un desiderio ma, secondo Lamarck, è solo il fatto che l'organismo nel suo insieme avverta il bisogno, che esso ha luogo, in modo lentissimo, graduale e irreversibile. Poiché è evidente che non vi è alcun bisogno della circoncisione, come non vi è alcun bisogno dei topini di privarsi della coda, gli esperimenti di Weismann erano simili a quelli di una carica di Don Quixote contro i mulini a vento. Ma vennero presi sul serio, almeno da alcuni scienziati.
Questa polemica a distanza, Saccone v/s Weismann, non vuol dire che io consideri l'illustre scienziato uno stupido, tutt'altro. Nemmeno, che sostengo l'ereditarietà dei caratteri acquisiti. Voglio solo dire che anche una mente eccelsa può prendere cantonate e procedere su strade senza senso; non dovrebbe vergognarsene se i suoi scritti e le sue dichiarazioni fossero ispirati dal rigore e dalla prudenza darwiniana invece che dalla tendenza a enfatizzare i lati più spettacolari. Forse, uno scettico suggerirebbe di verificare se è vero che i figli maschi di un ebreo vengono realmente circoncisi, o non si tratti semplicemente di una leggenda. E' per questo che gli scettici di tal genere a volte mi infastidiscono. Però, in tale atteggiamento, potrebbe stare la giustificazione delle verifiche di Weismann: era più comodo, e molto più "umano", mozzare la coda ai topolini che circoncidere bambini.


Secondo Montalenti, Haeckel fece più danni di un nemico dichiarato della selezione naturale. Il primo fatto è che Haeckel «infiammato di polemico ardore e ispirato da una fede cieca nella validità delle teorie scientifiche unita ad una fantasia da romanziere, s'illuse di poter tracciare le più ardite e complete genealogie, dalla "monera" all'uomo, superando le lacune e le difficoltà con arditi voli, inventando addirittura nuovi organismi, come appunto le "monere", là dove non esistevano le forme che gli avrebbero fatto comodo.» [Montalenti 1965] Anche Haeckel non era uno stupido, intendiamoci. La sua teoria della ricapitolazione, nella quale la cellula fecondata ripercorre l'evoluzione della vita sviluppandosi e diversificandosi, non è affatto stupida, anche se pone problemi non indifferenti. Essa infatti, potrebbe indurre a credere in un progresso lineare, in una strada maestra dell'evoluzione inevitabilmente prefissata, mentre è solo la ricapitolazione particolare di una sola linea filetica.


L'aspetto veramente importante delle vicende che interessano gli ultimi trent'anni dell'Ottocento è che il quadro delle ricerche che riguardavano a vario titolo la biologia risultava piuttosto complicato. Non come oggi, naturalmente, ma non per questo meno impegnativo. Se per il ricercatore tedesco Rudolf Vierchow, solo da una cellula può generarsi una cellula, e per Darwin solo da un antico progenitore viene l'intera discendenza delle specie, per l'accademico francese Pouchet la vita può ancora generarsi spontaneamente da materia inorganica. Cioè, alcuni batteri possono prodursi semplicemente lasciando macerare certi intrugli: non hanno genitori. Pasteur riuscì a confutare, si dice, definitivamente, questa teoria molto antica, condivisa anche da Aristotele, Buffon e Lamarck, venendo così, in un certo senso, e suo malgrado, incontro a Darwin, ma anche Pasteur incontrò resistenza, e qualcuno è giunto a suggerire che se egli avesse onestamente rifatto gli stessi esperimenti di Pouchet, utilizzando il fieno invece di farne altri sul lievito, avrebbe ottenuto i risultati di Pouchet. Un dato sorprendente è che Pasteur non era evoluzionista ma un devoto credente nella creazione. L'altro è che non sono mai riuscita a 'creare' un organismo vivente centrifugando fieno, brodo di rospo e sangue di mestruo!
I fermenti erano grandi anche nel mondo della fisica e della chimica, e soprattutto quest'ultima rivestiva sempre più importanza per la ricerca biologica. Non meno interessanti erano i settori di ricerca che riguardavano l'embriologia, l'anatomia, la fisiologia, il sistema nervoso.
Un discorso sui 'fondamenti' a partire dal complesso di queste vicende sarebbe alquanto difficile da sviluppare e, alla fine, retorico, se non superfluo. Potremmo parlare di un'estensione dei fondamenti ed anche di una selezione degli stessi. Tutte le scienze, e nella fattispecie, tutte le ricerche, concorrono ad elaborare quella conoscenza di fondo e di sfondo che determina il flusso di informazioni. Alcune di queste informazioni possono risultare non coerenti con le teorie correnti, o con quelle che i fisici chiamano leggi. Ciò non determina crolli e catastrofi ma, semplicemente induce a nuove ricerche, verifiche, falsificazioni nel caso una teoria sia falsificabile. Quindi accantonamenti e liquidazioni di teorie non più sostenibili..
Anche rispetto alla distinzione di cui abbiamo parlato nel primo articolo, quella tra atteggiamento riduzionista ed emergentismo, ci troveremmo in imbarazzo di fronte alla singolarissima posizione del chimico tedesco von Liebig, una sorta di sintesi, o forse un ibrido definibile come vitalismo riduzionistico.
Von Liebig portò un immenso contributo all'applicazione della chimica organica allo studio del vivente ed è giustamente noto come commensale sempre presente alla nostra tavola, essendo l'ideatore dell'estratto di carne, insomma, del dado per fare il brodo. Per von Liebig, l'applicazione della chimica alla fisiologia era fortemente limitata ad una teoria energetica del bilancio 'ingresso-uscita' atta a valutare i processi fisiologici di base. Pensava gli organismi animali come 'stufe ambulanti', scatole nere regolate da quello che ingeriscono e dal calore che si produce. Questo sarebbe meccanicismo puro. Epperò, egli stesso mise in guardia contro tale pericolo e finì col teorizzare che se non si poteva spiegare un fenomeno intendendolo come reazione chimica, si poteva fare ricorso ad una spiegazione vitalistica, cioè ad un principio estraneo o superiore, anche se da considerarsi di origine completamente naturale. Per questa sua ambiguità, presunta o reale che fosse, von Liebig fu attaccato sia dai riduzionisti che dai vitalisti. Pochi compresero che egli intendeva sostenere che la forza vitale non sostituisce le forze chimiche, che vanno comunque sempre prese come riferimento primario, ma interviene sui risultati delle reazioni.

note:
(1) preformismo. Tutto inizia con la scoperta da parte dell'olandese De Graaf, vissuto tra il 1641 e il 1673, che le ovaie delle coniglie, dopo il coito, si trasformano in corpi lutei. Cinque anni dopo van Leeuwenhoeck vedeva nel microscopio che lo sperma maschile è popolato di animalculi spermatici. Queste osservazioni anzichè produrre una corretta teoria della generazione, diedero vita a dispute. Soprattutto rispetto al tema della fecondazione, si originarono tre dottrine contrapposte: a) ovismo; b) animalculismo; c) ovovermismo. Come si può facilmente intuire, quest'ultima corrente tentava di mediare tra i due estremismi, i quali proclamavano a gran voce che il ruolo attivo e determinante nella generazione stava in un solo sesso. Gli ovisti, come Malpighi, Ray, Fontenelle ed il filosofo Malebranche, sostenevano che tutto il 'lavoro' era svolto dall'uovo. Gli animalculisti, come Boerhaave, ritenevano che tutto ciò che dà essenzialmente luogo all'embrione si trovi negli animalculi maschili. In realtà, sia gli ovisti che gli animalculisti erano uniti, per così dire, da una credenza comune: il preformismo. Per entrambe le correnti, infatti era scontato che l'embrione si trovasse già preformato o da una parte o dall'altra, e che lo sviluppo consistesse in una specie di ingrandimento progressivo e non di una formazione.
Barsanti G. [2005] - Una lunga pazienza cieca - Einaudi 2005
Dawkins R. [1986] - L'orologiaio cieco - Mondadori 2003
Eldredge N. [2002]- La vita sulla Terra - Codice edizioni 2004
Jacob F. [1970] - La logica del vivente - Einaudi 1971
Mayr E. [1982] - Storia del pensiero biologico - Bollati Boringhieri - 1990