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Paul K. Feyerabend
Ipotesi ad hoc? Perché no?! E non dimentichiamo che il cannone è "confutato"

di Silvana Poggi
Difficoltà iniziali causate dal mutamento sono eliminate per mezzo di ipotesi ad hoc , le quali risultano così occasionalmente avere una funzione positiva; esse concedono alle nuove teorie una pausa di riflessione, e indicano la direzione della futura ricerca.
Popper aveva già tuonato contro le spiegazioni ad hoc, suggerendo che esse sono tipiche di una spiegazione infantile, quindi mitica del tipo il mare è molto mosso perché il dio Nettuno è irato. La scienza moderna le rifugge; in un certo senso la loro assenza o la loro presenza demarca ciò che è scienza da ciò che non lo è. Feyerabend, sulla scia di Lakatos, afferma al contrario che esse hanno un ruolo fondamentale nella scoperta scientifica. E ne offre un esempio analizzando la vicenda di Galileo.
«Nel giovanile De motu Galileo discute i movimenti, nel centro dell'universo e al di fuori di esso, e descrive tali moti come naturali o violenti o né naturali né violenti. Egli ci dice però ben poco sul moto reale di tali sfere e ciò che ricaviamo in proposito dal suo testo è solo per implicazione. Viene posta per esempio la questione se una sfera omogenea, messa in moto al centro dell'universo, si muoverà per sempre o no. Leggiamo che "pare che dovrebbe muoversi perpetuamente", ma non si dà una risposta categorica. Di una sfera di marmo, sostenuta per un asse che passa per il suo centro e messa in moto, si dice che "ruoterà per molto tempo" nel trattato De motu; mentre nella redazione dialogica del De motu si dice si dice che "l'eternità del moto sembra molto lontana dalla natura della Terra, alla quale sembra più gradita la quiete del moto".» (1)
Alle origini della scoperta del principio di inerzia stava dunque una certa confusione impastata con l'aristotelismo. Galileo non manca di mostrare di essere ancora mentalmente in debito con la fisica aristotelica e di muoversi al suo interno. La Terra ha una "natura" pigra che preferisce la quiete al moto. . La rotazione del cielo è causata da "intelligenze". Non solo, Galileo si riconosce anche nella teoria dell'impetus, la quale attribuisce ogni moto ad una forza motrice interna "simile alla forza del suono che rimane in una campana per molto tempo dopo che è stata percossa". Ma, essendo convinto della validità-verità della teoria copernicana, è evidente che tali residuati non possono coesistere a lungo con le nuove idee. Feyerabend sottolinea l'aspetto emozionale e gratificante che trascina con sé l'inserimento di una nuova teoria. Galileo, in sostanza, si sentiva bene, cioè meglio di prima, in compagnia di Copernico. Si sentiva "libero", finalmente emancipato. Il che potrebbe essere vero. Ma, forse, proprio quella di Feyerabend è una spiegazione ad hoc che disturba molti filosofi della scienza consapevoli che il "sentirsi bene" in compagnia di una teoria non è un argomento razionale a favore di essa. Prima di leggere Feyerabend non mi era mai capitato di pensare che si sceglie una teoria perché guarisce l'emicrania o ci fa sentire in forma, a meno che non si tratti di una teoria che riguarda, per l'appunto, la salute e la dieta. Ma non sto facendo dell'ironia a buon mercato. Sto solo pensando che nel contesto delle credenze dell'umanità occidentale e cristiana dei tempi di Galileo la teoria copernicana era realmente rivoluzionaria non perché faceva sentir meglio gli intelletti, ma perché, abbattendo certezze teologiche e metafisiche quali quelle dell'universo "fatto" per l'uomo, quindi la centralità della Terra quale contesto ambientale privilegiato della centralità dell'uomo, non portava affatto a sentirsi "meglio". Le vere conseguenze della rivoluzione scientifica della modernità erano peggiorative e non migliorative. Esse toglievano certezze all'umanità, senza dare in cambio altro che l'incerta prospettiva di essere imbarcati su un gigantesco marchingegno impegnato a ruotare su se stesso e a rivoluzionarsi attorno al Sole. Così, a meno di voler fare di Galileo una presenza puramente demoniaca, come fece proprio la chiesa cattolica, si trattava di comprendere che il fondamento delle ragioni di Galileo era la ricerca di una verità più appagante di quella ufficiale sul piano di una spiegazione realistica e non metafisica di come il mondo è e diviene. Galileo non risultava così solo "scomodo", si trovava egli stesso in una situazione di assoluta scomodità intellettuale.
Oltre a ciò, la ricostruzione del percorso reale seguito da Galileo è sommaria e quindi scarsamente precisa. Feyerabend "si limita" a supporre che i moti neutri presentati negli scritti giovanili possano aver indotto Galileo al passo ulteriore, cioè a ipotizzare che possano durare in eterno. E che tali moti potrebbero essere anche "naturali", potendo fare a meno di un "motore" esterno o interno ai corpi in movimento. «Il primo assunto - dice Feyerabend - è necessario per rendere ragione del fenomeno diurno del sorgere e del tramontare degli astri. Il secondo assunto è necessario se vogliamo considerare il moto un fenomeno relativo, dipendente dalla scelta di un sistema di coordinate idoneo. Copernico, nelle sue brevi osservazioni sul problema fece il primo assunto, e forse anche il secondo. Galileo impiega molto tempo per pervenire ad una teoria comparabile. Egli formula la permanenza del moto lungo una linea orizzontale come un'ipotesi nei Discorsi e pare faccia entrambi gli assunti nel Massimi sistemi. E' mia impressione che un'idea chiara di un moto permanente, con o senza impetus, si sia sviluppata in Galileo solo parallelamente alla sua graduale accettazione della concezione copernicana. Galileo mutò poi opinione sui moti "neutri" - che rese permanenti e "naturali" - allo scopo di renderli compatibili con la rotazione della Terra e di evitare la difficoltà dell'argomento della torre. Le sue nuove idee su tali moti sono perciò almeno in parte ad hoc.» (2) L'impetus scompare, secondo Feyerabend, sia per l'incoerenza, vagamente avvertita, con l'idea di relatività di tutti i moti, sia per ragioni metodologiche. Allora, se siamo nel vero supponendo che Galileo formulò la teoria mediante un'ipotesi ad hoc, evviva Galileo, evviva il suo agire scientificamente irrazionale, ma contrassegnato dall'acume. «E' chiaro - scrive Feyerabend - che una Terra in movimento richiede una nuova dinamica. Uno dei test della vecchia dinamica consiste nel tentativo di dimostrare il moto della Terra. Tentare di dimostrare il moto della Terra è come tentare di trovare un caso che confuti la vecchia dinamica. Il moto della Terra è perciò in contraddizione con l'esperimento della torre, se questo esperimento viene interpretato in accordo con la vecchia dinamica. Interpretare l'esperimento della torre in accordo con la vecchia dinamica significa, perciò, cercare di salvare la vecchia dinamica in un modo ad hoc. Se si vuole evitare ciò, si deve trovare un'interpretazione diversa per i fenomeni della caduta libera. Quale interpretazione si dovrebbe scegliere? Ciò di cui c'è bisogno è un'interpretazione che trasformi il moto della Terra in un dato che confuti la vecchia dinamica, senza concedere un sostegno ad hoc al moto della Terra stessa. Il primo passo verso una tale interpretazione consiste nello stabilire un contatto, per quanto vago, con i "fenomeni", ossia col sasso in caduta libera, e di stabilirlo in modo tale che il moto della Terra non ne risulti chiaramente contraddetto. Il punto di partenza in questo passo sta nell'ideare un'ipotesi ad hoc rispetto alla rotazione della Terra. Il passo successivo consisterebbe nell'elaborare l'ipotesi, in modo da rendere possibili altre predizioni. Copernico e Galileo fanno il primo passo, quello più primitivo. Il loro modo di procedere appare criticabile solo se si dimentica che l'obiettivo è quello di sottoporre a prova le vecchie concezioni, non quello di dimostrare le nuove, e se si dimentica anche che lo sviluppo di una buona teoria è un processo complesso, che deve prendere l'avvio in modo modesto e che richiede tempo.» (3) Feyerabend conclude così che pare quasi inevitabile che una nuova teoria non possa che nascere ad hoc, venire coccolata e protetta come un infante, difesa contro ogni aggressione esterna. Ma questa è un'idea assai prossima a Lakatos.

Non è finita.
Facendosi davvero avvocato del diavolo, cioè dell'inquisizione, Feyerabend afferma che Galileo: «cambia anche sensazioni che sembrano danneggiare Copernico. Egli ammette che sensazioni del genere esistano, elogia Copernico per averle trascurate, sostiene di averle eliminate con l'aiuto del cannocchiale. Non offre però alcuna ragione teorica per cui ci si dovrebbe attendere che il cannocchiale ci dia un'immagine fedele del cielo.» (4)
L'affermazione sul cannocchiale è in effetti sia vera che paradossale. Ma in alcuni casi il paradossale è anche ridicolo, ed è sicuramente ridicolo arrampicarsi sugli specchi per affermare che il cannocchiale non doveva essere giudicato attendibile in quanto non esisteva una teoria ottica. Mostrava forse immagini false ai capitani di ventura che lo puntavano per spiare il nemico? Mostrava forse immagini false ai navigatori che lo puntavano sulle coste? No. Mostrava immagini ingrandite. L'efficacia del cannocchiale stava nel suo uso. Dunque, se ingrandiva correttamente oggetti terrestri, perché mai avrebbe dovuto ingannare circa le cose che stanno in cielo? Certo, la questione cruciale di tutta la vicenda galileana (e copernicana) è il riconoscimento che i sensi possono ingannare. Ma è questione di proporzioni, cioè di cose troppo grandi o troppo piccole, di distanze, e Galileo, introducendo il principio della relatività dei moti, in fondo non faceva che rimarcarlo: se siamo impegnati ad osservare insetti in movimento non percepiamo il moto della nave su cui siamo imbarcati. A maggior ragione, come faremmo a percepire il moto di quella immensa astronave su cui siamo imbarcati, dato il rapporto tra la nostra statura e la dimensione della Terra?
Bisogna riconoscere, tuttavia, che Feyerabend mise il dito su almeno due piaghe reali. La prima si può identificare nel modo seguente: se gli oggetti del cielo sono di natura differente da quelli terrestri, sono, cioè incorruttibili, può esser vero che il risultato dell'interazione della luce con oggetti terrestri possa essere estesa anche agli oggetti celesti? E, in secondo luogo, non è forse vero che se i nostri sensi sono abituati a percepire solo gli oggetti sublunari, essi non sono addestrati a percepire quelli stellari? Scrive Feyerabend che in questo caso non ci possiamo servire della memoria per compiere delle reali distinzioni tra ciò che dovrebbe essere in realtà e ciò che viene dal telescopio. Tutto ciò che aiuta la percezione delle cose terrestri, come lo "sfondo", la "sovrapposizione", la conoscenza delle "grandezze reali", viene a mancare osservando il cielo.
Un secondo problema, strettamente connesso a questo, viene dal fatto che il cannocchiale non viene percepito come uno strumento capace di rendere una qualunque osservazione visibile anche inoppugnabile. Accadde a Galileo quello che oggi accade ad un onesto giornalista sportivo che si appelli all'uso della moviola per stabilire la verità circa qualche episodio nell'ambito di una partita. Non riesce ad avere comunque ragione all'unanimità perché interpreta diversamente ciò che è visto, ed alla fine si può anche dubitare che si siano viste le medesime documentazioni.
Nel decimo capitolo di Contro il metodo Feyerabend riporta alcuni avvenimenti a volte trascurati nella ricostruzione dell'impresa scientifica di Galileo. Uno di questi fu la frustrante esperienza dell'aprile 1610, quando Galileo portò il cannocchiale a casa del suo oppositore Giovanni Antonio Magini, a Bologna, per dare una spettacolare dimostrazione delle funzionalità del "cannone" di fronte a ventiquattro professori dell'accademia bolognese. Fu un fiasco colossale. Tra gli altri, era presente anche Horky, ex allievo di Keplero. Lo stesso Keplero, avvisato della vicenda, prese carta e penna per chiedere a Galileo di indicare dei testimoni in grado di confermare le sue osservazioni. Il problema di Keplero era che soffriva di poliopia. Pertanto non riusciva a vedere un singolo oggetto a grande distanza, lo vedeva sempre raddoppiato, triplicato ecc. Ovviamente, Galileo rispose, ma era una risposta che ammetteva una grandissima difficoltà: anche chi aveva visto, era reticente ad ammettere.
In proposito Feyerabend commenta: «Oggi comprendiamo un po' meglio perché il ricorso diretto alla visione telescopica dovesse dare esiti deludenti, specialmente nelle fasi iniziali. La ragione principale, che era già stata prevista da Aristotele, era che i sensi, applicati in condizioni anormali, sono soggetti a dare una risposta anormale. Alcuni tra gli storici del passato ebbero una sia pur vaga idea della situazione, ma si espressero in termini negativi, cercarono di spiegare l'assenza di resoconti d'osservazione soddisfacenti, la povertà di ciò che si vede al telescopio. Gli storici non si rendono conto della possibilità che gli osservatori possano essere stati disturbati anche da forti illusioni positive. Della misura di tali illusioni non si prese coscienza fino a poco tempo fa, quando esse furono indicate soprattutto da Ronchi e dalla sua scuola. Qui le massime variazioni riguardano la posizione dell'immagine telescopica e, corrispondentemente, l'ingrandimento osservato. Alcuni osservatori situano l'immagine all'interno del telescopio, facendole mutare la posizione laterale con la posizione laterale dell'occhio, esattamente come avverrebbe nel caso di un'immagine consecutiva o di un riflesso all'interno del telescopio: un'eccellente dimostrazionr del fatto che deve trattarsi di un'"illusione". Altri collocano l'immagine in un modo che non dà alcun ingrandimento, anche in casi in cui può essere stato promesso un ingrandimento lineare di più di trenta volte. Anche uno sdoppiamento di immagini può essere spiegato come la conseguenza di una messa a fuoco appropriata. Se a queste difficoltà di carattere psicologico si aggiungono le molte imperfezioni dei telescopi dell'epoca, ben si comprende la scarsità di resoconti soddisfacenti e si rimane sorpresi per la rapidità con cui la realtà dei nuovi fenomeni fu accettata e, com'era costume, pubblicamente riconosciuta.» (4)

Feyerabend, inoltre, osserva che nessuno dei disegni del paesaggio lunare realizzati da Galileo può essere sicuramente identificato con qualche elemento noto del paesaggio lunare visto successivamente. Quelle di Galileo, pertanto erano impressioni soggettive, per quanto storicamente possibili con quel tipo di mezzo. E' interessante notare che Feyerabend rifiuta di condividere l'esasperata considerazione di R. Wolf, secondo il quale, «Galileo non fu un grande osservatore astronomico; oppure che l'eccitazione delle numerose scoperte astronomiche fatte da lui a quell'epoca aveva temporaneamente offuscato la sua abilità o il suo senso critico.» (5) "Osservazioni tipiche di un principiante". Commento di Feyerabend: «Ora, quest'asserzione potrebbe anche essere vera (anche se io ne dubito, tenendo conto delle straordinarie capacità di osservazione che Galileo manifestò in altre occasioni). Essa è però povera di contenuto e, secondo me, non molto interessante. Non ne emerge alcun suggerimento per ulteriori ricerche e la possibilità di verificarla è alquanto remota. Ci sono però, altre ipotesi, le quali conducono a nuovi suggerimenti e ci dimostrano quanto fosse complessa la situazione al tempo di Galileo. Consideriamo le due ipotesi seguenti.
Ipotesi 1. Galileo registrò fedelmente ciò che vedeva e in tal modo ci lasciò una documentazione dei limiti dei primi telescopi oltre che delle peculiarità della visione telescopica dell'epoca. Interpretati in questa luce, i disegni di Galileo sono resoconti esattamente dello stesso genere di quelli risultanti dagli esperimenti di Stratton, Ehrismann e Kohler, con la differenza che bisogna tener conto anche delle caratteristiche delle apparecchiature fisiche e dell'estraneità degli oggetti visti. Bisogna tener conto anche delle molte opinioni contrastanti esistenti. Anche all'epoca di Galileo, sulla superficie della Luna, le quali potrebbero aver influito su ciò che gli osservatori vedevano. Per poter gettare più luce sulla questione bisognerebbe avere una collezione empirica di tutti i disegni della Luna fatti dai primi osservatori che ebbero a disposizione un telescopio ....» (6)
La seconda ipotesi ventilata da Feyerabend si può così riassumere: l'osservazione telescopica e la nuova familiarità con le immagini ingrandite del cielo modificarono non solo quello che si vedeva nel telescopio, ma anche ciò che si vedeva ad occhio nudo. Quella che Feyerabend presenta come un'ipotesi è in realtà un dato storico (e psicologico) veritiero. Dopo aver visto più o meno nitidamente i contorni di qualcosa situato lontano con un cannocchiale, non una volta sola, ma in diverse circostanze ripetute, la nostra percezione ad occhio nudo non è più la stessa di prima. Ma non è possibile considerarla migliore o più veritiera. Come non è possibile pensare di poterla usare per confutare le immagini prodotte dal cannocchiale. Eppure è questo che sostiene Feyerabend.

Si potrebbe osservare che in realtà i disegni di Galileo hanno molto in comune con la Luna scrutata attualmente da telescopi molto più potenti del cannocchiale di Galileo. In particolare, uno dei crateri, l'attuale Albatenius, visibile nelle figure disegnate da Galileo, risulta notevolmente sovradimensionato rispetto alle misure reali. Ma ciò non significa che non esisteva e non esiste. Anche in questo caso, Feyerabend esagera sensibilmente alcune considerazioni veritiere per portare "acqua al suo mulino", in barba alle considerazioni storiche sullo stato della scienza necessarie ad "inquadrare" il percorso reale di Galileo. Così, egli dà per scontato ciò che scontato non è. Ad esempio, la teoria ottica elaborato da Keplero sarebbe stata la sola fonte di supporto scientifico all'uso del cannocchiale, ma una banalissima verifica possibile a chi solo dispone di una lente d'ingrandimento dimostra che la teoria ottica di Keplero era erronea. (7) Ciò, secondo Feyerabend sarebbe stato un argomento sufficiente a mettere seriamente in dubbio la legittimità del ricorso al cannocchiale. Feyerabend vuole così dire che Galileo violò una regola metodologica. Noi preferiamo dire che Galileo instaurò al contrario una nuova regola metodologica. Essa teneva conto sia del fatto che i sensi possono ingannare, sia del fatto che i sensi possono aiutare a raggiungere una conferma, se opportunamente si riesce a dare un senso a ciò che viene percepito per mezzo del "discorso", cioè del ragionamento.
I fatti osservati non possono essere smentiti da una qualsivoglia teoria, scritta in qualsivoglia autorevole libro. E' significativo un passo del Saggiatore in cui Galileo contesta un avversario, il gesuita Orazio Grassi, accusandolo di fidare maggiormente nelle dottrine elaborate da "qualche celebre autore" che non nelle risultanze dell'esperienza concreta. La filosofia, dice Galileo, non sta nei libri di fantasia (leggi metafisica), ma la si trova scritta «in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico) l'universo, ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi veramente in un oscuro labirinto.»
E' evidente che in tutta l'interpretazione di Feyerabend si gioca su un aspetto metodologico "popperiano", che egli vuole demolire. Se Galileo si fosse attenuto al metodo delle congetture e confutazioni, cioè della falsificazione della teoria, non si sarebbe speso a quel modo per sostenere Copernico. Non aveva ragioni sufficienti per farlo. E' molto probabile che vi sia un elemento di validità in questa tesi, nel senso che far rientrare i processi intellettivi di Galileo in uno schema popperiano non sembra molto sensato, in quanto Popper impose restrizioni metodologiche troppo severe e "limitate". Ma, dovremmo chiederci, infine se Feyerabend rese davvero un buon servizio alla filosofia della scienza facendo coincidere Popper con la razionalità tout court, e quindi definendo irrazionale tutto ciò che non rientra negli schemi popperiani. E non sarà, infine, proprio questa la vera questione che sorge dalla lettura di Contro il metodo?


(1) P. K. Feyerabend - Contro il metodo - Feltrinelli 1979
(2) idem
(3) idem
(4) idem / tra i testi di V. Ronchi citati da Feyerabend L'ottica, scienza della visione - Zanichelli 1955 e Storia della luce - Zanichelli 1951
(5) citato da Feyerabend: R. Wolf - Geschichte der Astronomie
(6) P. K. Feyerabend - Contro il metodo - Feltrinelli 1979
(7) La teoria ottica di Keplero è descritta sommariamente da Feyerabend così: «... il luogo dell'immagine di un oggetto puntiforme si trova dapprima tracciando il percorso dei raggi emergenti dall'oggetto secondo le leggi della (riflessione e della) rifrazione fino all'occhio, e poi usando il principio (che viene insegnato ancor oggi) che "il vero luogo dell'immagine è quel punto in cui convergono i raggi visuali prodotti da ciascun occhio" o, nel caso della visione monoculare, dai due lati della pupilla. [...] » L'atto della visione è in parte empirico e in parte geometrico; l'immagine è collocata su un triangolo "distanziometrico" e la mente usa questo triangolo per valutare la distanza tra osservatore e osservato. Per Feyerabend, questa teoria è un chiaro progresso rispetto alle teorie ottiche precedenti, peccato che sia altrettanto erronea: «prendiamo una lente d'ingrandimento, determiniamone il fuoco e guardiamo un oggetto in prossimità di essa. Il triangolo distanziometrico va ora al di là dell'oggetto verso l'infinito. Una leggera variazione di distanza porta l'immagine kepleriana dall'infinito vicino all'osservatore e di nuovo all'infinito.»
SP - 1 marzo 2007