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L'eleatismo

di Renzo Grassano


L'occidente come Abendland, terra del tramonto, si oppone tradizionalmente all'oriente come espressione dell'albeggiare, il sorgere della luce che tutto illumina e porta a distinguere nettamente le cose, le differenze primarie.
Ma è solo al tramonto che si può fare un bilancio delle cose stesse, inaugurando un modo di pensare e considerare che proprio a partire dalla percezione dell'insieme delle cose, le trascende in uno sguardo unitario ed ultrametafisico.
Il grande contributo degli eleati (da Elea, città della Campania, colonia greca ed occidente della cultura greca) e di Parmenide allo sviluppo del pensiero filosofico consistette appunto nel pensare che l'essere delle cose non muta, nonostante l'apparenza ci attesti qualcosa di assai diverso, ovvero che tutto muta incessantemente.
Prima di avventurarmi in questa non facile operazione di chiarimento sui caratteri della filosofia degli eleati, mi sono fatto diverse domande, non ultima quella classica, banale ed insieme profonda: che cosa avrebbe voluto davvero significare Parmenide con quel suo dire perentorio: l'essere è, il non essere non è ?
Voleva, forse, ed in primo luogo negare la validità una qualsiasi apertura a qualsivoglia concetto evolutivo? C'era un evoluzionismo con cui polemizzare, una specie di Darwin greco che affermava la discendenza dell'uomo dalle scimmie?
Risposta semplice: no.
Escluso, dunque, che la visione parmenidea sia nata dall'esigenza di difendere la nobiltà e la dignità dell'uomo rispetto a così degradanti visioni scientiste, potrebbe darsi, e questo non si può escludere, che Parmenide si sia trovato nella necessità di difendere la dignità dell'uomo contro uguali visioni, non scientiste ma religiose del tipo l'uomo è polvere, fatto di fango, frutto di un capriccio degli dei che hanno giocato col fango e originato questa mostruosità.
Ecco che in questo senso la visione parmenidea sarebbe così giustificata da un'esigenza sia morale, che intellettuale, che politica.
E che l'essere dell'ente sarebbe una sorta di riaffermazione dell'esistenza dell'uomo come eterna, parimenti al riparo dalla sua esagerazione come essere divino, ma altrettanto al riparo dalla sue esagerazione in senso materialistico, null'altro che un impasto di polvere e fango.
In quest'ambito, la negazione del divenire e del mutamento, da considerarsi non differentemente da tante analoghe teorie indù sul velo di Maya e la danza cosmica, che non ha altro fine che ingannare l'uomo circa un futuro senza speranza, perchè tutto muta in apparenza, ma rimane uguale nella sostanza.
Questo mi sono chiesto, e devo confessare, infine, che in parte mi sono talmente persuaso della necessità storica di questo pensiero, in rapporto alla presunta superficialità di Eraclito, che ora mi sembra la chiave stessa per comprendere Parmenide.
In Parmenide, come del resto nella corrente fondamentale delle dottrine induiste, non può verificarsi nulla che non si sia già verificato, nulla che esca dai binari, nulla di veramente nuovo. L'inesistente non può venire ad esistere, l'esistente non può cessare di esistere e sparire nel nulla.
E' su questo piano di riflessione che la concezione dell'essere di Parmenide implica una concezione del tempo incompatibile con la speranza e la fede cristiana nel futuro escatologico e nella salvezza. Non c'è nulla da cui salvarsi, non c'è alcun bisogno di salvarsi, non ci saranno salvatori e messia, i profeti raccontano fregnacce, perchè l'essere delle cose non può cessare di esistere, neanche nelle catastrofi, e il non essere è impossibile che venga a manifestarsi.
D'accordo, è solo un'ipotesi. Bisognerebbe ammettere che non essere e impossibile siano la stessa cosa, e che nell'impossibile, ovvero quando diciamo impossibile, sia tolta di mezzo ogni contingenza. L'impossibile è assoluto, non legato a situazioni particolari.
Ma io credo che questo Parmenide lo abbia davvero pensato. Ed in questo stia la sua profondità e la sua necessità storica, non da tutti compresa.

In questa chiave, credo abbia ragione Daniele a dire che in Melisso di Samo vi è proprio il tramonto dell'eleatismo, ovvero il tramonto del tramonto, un'alba.
Affermando che l'essere è infinito, infatti, si è venuto ad affermare che l'impossibile non esiste.
Nell'essere secondo Melisso tutto è possibile, ma questa è una contraddizione insostenibile, una confutazione di Parmenide, per il quale nell'essere, e solo nell'essere, il possibile è, è attualmente, e non può uscire dai binari della necessità.

Ribadisco quanto ho già espresso in altra sede: questo pensiero della necessità non ha nulla a che fare con il pensiero greco autentico, che in tutti gli altri filosofi, da quelli ionici a quelli post-socratici si manifesta come pensiero della libertà umana, con l'eccezione di Democrito, che di Parmenide fu il successore più devoto e conseguente, e, forse, di Anassimandro, che comunque vide i limiti relativistici della libertà: comunque vada, comunque tu ti sappia amministrare, dovrai pagare il fio della tua separazione dall'infinito.
Ma Anassimandro fu corretto da Parmenide: l'infinito non esiste, se esistesse, saremmo in un bel guaio!
Dato che, quantomeno in potenza, esiste, la verità è che siamo davvero in un bel guaio, potenzialmente, ovvio.



Renzo Grassano - 29 agosto 2002