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Einstein e i quanti di luce
di Eric Amich
Dirò prima in poche parole quale fu il contributo di Einstein alla nascita della teoria quantistica e poi cercherò di tratteggiare la vicenda nei suoi termini storici.
Orbene, in una situazione nella quale era ormai prevalente e comunemente accettata la concezione della luce come fenomeno ondulatorio (vecchia tesi di Christian Huygens), Einstein resuscitò la teoria newtoniana del carattere corpuscolare della luce. In determinate situazioni, pensare che l'energia luminosa che percorre lo spazio sia "fatta" di quanti di luce diventa decisivo per spiegare le cause di alcuni fenomeni quali la radiazione del corpo nero, la fluorescenza e così via. Su questa base, quando un raggio di luce incontra la materia, ad esempio, un metallo, i quanti di luce, poi detti fotoni, si comportano come particelle ed interagiscono con i singoli elettroni costituenti gli atomi. Ciò avviene in presenza di una frequenza di soglia, quindi non sempre. Un elettrone, per venire, per così dire, "estratto" dalla composizione atomica, necessita di una certa quantità di energia.
E' provato che i metalli alcalini (litio, sodio e potassio) emettono elettroni quando sono illuminati da una luce azzurra visibile, mentre la maggioranza degli altri elementi rilascia elettroni solo se sottoposta a a radiazioni di frequenza più alta. L'energia cinetica dell'elettrone corrisponde alla differenza tra l'energia del fotone incidente e quella utilizzata nel lavoro di estrazione.

La storia
Quando il giovane Einstein lesse la memoria di Max Planck, fu certamente impressionato dal nuovo approccio al problema chiamato radiazione del corpo nero. «Un ragionamento logicamente coerente con i principi della fisica classica - scrive Amir D. Aczel - aveva portato a concludere che la radiazione emessa emessa da un corpo caldo dovesse essere molto luminosa, all'estremità blu o violetta dello spettro. Così un ciocco posto in un falò, divenendo rosso incandescente, avrebbe finito per emettere raggi ultravioletti, nonché raggi x e raggi gamma. Il fenomeno, tecnicamente noto come "catastrofe ultravioletta", in natura di fatto non accade.» (1)
Tale problema era stato affrontato da Kirkhoff e Stefan alla metà dell'Ottocento con un esperimento tipico: riscaldare un contenitore parzialmente svuotato a una temperatura t. Le molecole che compongono il recipiente cominciano a vibrare e viene emessa una radiazione elettromagnetica. Essa rimbalza sulle pareti del recipiente, poi si realizza un equilibrio. Tale radiazione è caratterizzata da varie frequenze. Kirkhoff provò che lo spettro in questione è indipendente dal materiale di cui sono fatte le pareti. Secondo Kirkhoff, il fenomeno possedeva un carattere "assoluto". Questa sottolineatura attrasse l'interesse di Max Planck e Wilhelm Wien. Quest'ultimo trovò un'espressione matematica che sembrava conformarsi ai risultati degli esperimenti. Planck si mise al lavoro per dimostrare la validità dell'ipotesi di Wien e nel 1899 pensò di inviare un articolo agli "Annalen der Physik". Ma, proprio mentre rivedeva le bozze, veniva avvisato che erano emersi nuovi dati sperimentali che smentivano le teorie di Wien. Fu costretto ad osservare che la distribuzione spettrale di Wien non sembrava valida riguardo all'estremo dello spettro corrispondente a lunghezze d'onda più ampie.
Dai e dai, Planck non mancava certo di testardaggine (in questo somigliava ad Einstein), il nostro arrivò ad ipotizzare che proprio le pareti del contenitore potessero cambiare la propria energia, sia quando emettevano radiazione,sia quando ne assorbivano dalla cavità del recipiente, solo in unità quantizzate.
Ciò significa, per dirla nuovamente con le parole di Aczel, che «l'energia non cresce o diminuisce in modo continuo; ma sempre per multipli di un quanto di base, una quantità che Planck definì come il prodotto hv dove v è la frequenza caratteristica del sistema preso in considerazione e h una costante fondamentale, nota oggi come costante di Planck (il valore della costante è 6,6262 x 10-34 joule-secondi).» (2)
Planck trovò una formula nella quale descriveva i livelli di energia di un oscillatore basata sulla sua costante h
E = 0, hv, 2hv, 3hv ... in generale nhv, dove n è un numero intero non negativo.
In realtà la formula funzionava a meraviglia; ma essa sapeva solo descrivere in termini fisico-matematici l'evento e non spiegava il perché. Ovvero, come mai l'energia si distribuiva per "pacchetti" e non in modo continuo. Fu la domanda che assillò intere generazioni di fisici e filosofi dopo Planck, a partire dalla stesso Einstein.

Albert Einstein giunse sulla scena del corpo nero, pochissimo tempo dopo le scoperte di Planck, ufficialmente nel 1905, con l'articolo Un punto di vista euristico relativo alla generazione e trasformazione della luce. In realtà studiava il problema già da qualche anno. Al tempo era ancora uno sconosciuto, con pochi o nulli contatti intimi con i grandi fisici che ammirava. Ma questo isolamento aveva un potenziale creativo altissimo. Arrovellandosi come nessun altro, il giovane impiegato di seconda classe all'Uffico federale dei brevetti di Berna, riuscì ad andare oltre Planck proponendosi , paradossalmente, obiettivi meno ambiziosi. Dove Planck cercava un "perché" molto profondo negli abissi della materia e dell'energia, Einstein si limitò, almeno inizialmente (poi è un'altra storia), a ragionare su questioni meglio delimitate. Di fronte aveva una situazione molto imbrogliata.
«Un confronto tra le leggi di Wien, di Planck e di Rayleigh - commenta Enrico Bellone - provocava una situazione irta di ostacoli. Il problema generale della radiazione, infatti, trovava soluzione diverse a seconda che si partisse da considerazioni termodinamiche o elettromagnetiche. Qual era il significato fisico di una situazione che coinvolgeva la teoria di campo, la termodinamica e la strana ipotesi di Planck? Qual era il significato effettivo della nuova costante universale h ?» (3)
Di fronte alle difficoltà, Einstein fece un passo indietro. Riprese a ragionare sulla "profonda distinzione formale" tra i concetti teorici che spiegavano i comportamenti dei gas e di "altri corpi ponderabili" e "la teoria maxwelliana dei processi elettromagnetici". Colse che l'elemento distintivo risiedeva nel fatto che lo stato di un corpo era determinato dalla conoscenza della posizione e della velocità di un numero finito di particelle, per quanto grande potesse essere, mentre lo stato elettromagnetico richiedeva la conoscenza di un continuo di quantità. In sostanza: mentre l'energia, nella teoria di Maxwell, era una funzione continua, l'energia "reale" di un corpo "era rappresentata da una somma estesa agli atomi ed agli elettroni".
«La congettura rivoluzionaria introdotta da Einstein - scrive Bellone - per chiarire la situazione dovuta a quella distinzione formale affermava che "l'energia della luce è distribuita nello spazio con discontinuità." Una ipotesi del genere poteva spiegare un gruppo di fenomeni che comprendeva la radiazione del corpo nero, la fluorescenza, la produzione di raggi catodici mediante la luce ultravioletta e "altri fenomeni collegati con l'emissione e le trasformazioni della luce" Ciò che usualmente era designato con l'espressione "raggio di luce" diventava in tal modo un insieme formato da un numero finito di quanti localizzati nello spazio e tali da poter essere assorbiti o emessi come "unità complete".» (4)
Per dirla con Jeremy Bernstein (5), il raggio di luce di Einstein assume così un carattere "schizofrenico". Da un lato ha natura ondulatoria, dall'altro corpuscolare: «... la generazione e la trasformazione della luce - scriveva lo stesso Einstein - appaiono più comprensibili nell'ipotesi di una distribuzione spaziale discontinua dell'energia luminosa.»
Il punto da capire è che Einstein studiò l'effetto dell'interazione della luce con la materia, chiedendosi: cosa succede quando un raggio di luce colpisce il metallo? Avviene che il metallo emette elettroni. Questi elettroni possono essere rilevati, individuati, la loro energia misurata. Ciò era già stato esposto nel 1902 da Phillip Lenard (6), ilquale aveva evidenziato che l'energia degli elettroni emessi da una superficie metallica investita da una radiazione luminosa era del tutto indipendente dalla densità della radiazione stessa. Invece, era apparso che energia dell'elettrone e frequenza della radiazione erano in rapporto di proporzionalità.
Aczel descrive così la situazione: «La teoria classica della luce non era in grado di spiegare il fenomeno appena descritto. Perché l'intensità della luce non aumentava l'energia dei fotoelettroni? Perché la frequenza della luce ne influenzava invece l'energia? Perché non venivano rilasciati fotoelettroni quando la frequenza della luce era inferiore a quella di soglia? Ciò che fece Einstein, nelle ricerche che culminarono nell'articolo del 1905, fu assumere che la luce consistesse di particelle -più tardi chiamati appunto fotoni e applicare l'idea del quanto di Planck a questi fotoni.
Einstein considerava i fotoni come piccoli pacchetti discreti di energia capaci di "volare" nello spazio. La loro energia era determinata dalla formula detta poi di Einstein: E = hv (dove h è la costante di Planck e v la frequenza della luce.)» (7)
Nel dettaglio, Bernstein così descrive l'approccio di Einstein: «... cominciò con l'accettare la legge di Wien (che per le lunghezze d'onda meno ampie, ossia più tendenti al violetto, era essenzialmente identica alla formula di Planck) come un dato di fatto sperimentale; e si chiese poi quali fossero le sue implicazioni relativamente alla radiazione nel vuoto... Utilizzando le proprie nozioni di meccanica statistica, Einstein riuscì a dimostrare, a partire dalla legge di Wien, che la radiazione all'interno del contenitore obbediva agli stessi principi matematici che avrebbe seguito se fosse stata costituita di quanti. In altre parole, per usare l'esempio di Einstein, non solo la birra proveniente dal barile veniva comprata e venduta a in pinte, ma già dentro il barile era suddivisa esclusivamente in pinte. Non c'era possibilità di sfuggire a questa conclusione sperimentale di Wien (o analogamente, per le lunghezze d'onda più corte, alla legge di Planck) se si applicava la stessa linea di ragionamento che funzionava perfettamente per la meccanica statistica dei gas e dei liquidi, ovvero lo stesso tipo di ragionamento che Einstein aveva usato per la teoria del moto browniano. » (8)
note:
(1) Amir D. Aczel - Entanglement / Il più grande mistero della fisica - Raffaello Cortina Editore 2004
(2) idem
(3) Enrico Bellone - Il corpo nero - sta in Storia della scienza moderna e contemporanea a cura di Paolo Rossi, vol. III, tomo primo, UTET 1988
(4) Enrico Bellone - Albert Einstein - sta in Storia della scienza moderna e contemporanea a cura di Paolo Rossi, vol. III, tomo primo, UTET 1988
(5) Jeremy Bernstein - Einstein - Il Mulino 2004
(6) Lenard era un fisico sperimentale. Nel 1905 vinse un Nobel. Poi divenne un nazista fanatico, grande inquisitore della "fisica giudaica". Nel 1933, questa intelligenza degenerata giunse a scrivere: "L'esempio più importante dell'influenza pericolosa di circoli ebraici sullo studio della natura fu dato dal signor Einstein con le sue teorie matematicamente raffazzonate, costituite da nozioni preesistenti e da aggiunte arbitrarie. Anche scienziati che hanno da parte loro compiuto opere solide non possono evitare il rimprovero di aver permesso che la teoria della relatività prendesse piede in Germania, poichè essi non videro o non vollero vedere quanto sia errato, anche all'infuori del campo della scienza, considerare questo ebreo come un buon tedesco." (citato in Alfred A. Knopf in Einstein, la sua vita e il suo tempo - Garzanti 1949)
(7) Amir D. Aczel - Entanglement / Il più grande mistero della fisica - Raffaello Cortina Editore 2004
(8) Jeremy Bernstein - Einstein - Il Mulino 2004