| home | La filosofia del III millennio | Novecento | Einstein |
Einstein e Bohr: il dissidio
di Eric Amich
Niels Bohr aveva salde radici. Amava il proprio paese e si sentiva a casa solo in Danimarca. Einstein si descriveva come uno zingaro apolide. Visse in diversi luoghi senza mai conoscerli a fondo e senza identificarsi con essi. Ebreo, tedesco, svizzero, americano, venne anche in Italia e soggiornò a Milano come pure a Praga. Dato il suo impegno a favore del sionismo, gli fu offerto di diventare presidente dello stato d'Israele. Rifiutò, e preferì impegnarsi per la pace nel mondo e contro la proliferazione nucleare.
Bohr era attratto dalle arti figurative; Einstein suonava il violino. Bohr si deliziava della compagnia altrui; Einstein era un solitario, anche se sapeva rendersi amabile in presenza di altri. Bohr fece scuola; Einstein non ebbe mai allievi in senso classico. Non esiste una scuola einsteiniana di "devoti" della relatività. E forse è un bene. Tuttavia divenne una celebrità, lo scienziato più popolare di tutti i tempi, con vertici da pop-star, migliaia di lettere da ammiratori sparsi per il mondo, chissà quanti autografi rilasciati nei pochi bagni di folla che dovette sopportare. Bohr è conosciuto solo dagli specialisti e dagli acculturati.
Bohr ed Einstein furono sicuramente, con Dirac, i massimi fisici del secolo XX. Il confronto umano che ho tratteggiato può servire come introduzione, e a ricordare che dietro allo scienziato c'è sempre un uomo. E tra l'uomo e lo scienziato si installa a volte il filosofo. Entrambi lo furono, intendo filosofi, cioè portatori di una certa convinzione generale attorno alla natura dell'impresa scientifica.
Limiterò questo scritto al famoso confronto tra i due, un dissidio al quale non sono certamente estranee le rispettive filosofie, al punto che qualcuno ha persino parlato di un Einstein speculativo. Stringi-stringi, tuttavia, l'osso della disputa si riduceva ad una diversa concezione della teoria fisica possibile in assoluto e possibile in determinate circostanze. Ancora più in particolare, l'oggetto della contesa era uno solo: la critica di incompletezza rivolta da Einstein alla teoria quantistica. Per sgombrare il campo da un possibile equivoco: disputa non vuol dire né polemica né scontro ideologico o personale. I due si rispettavano profondamente. Mentalità scientifiche talmente superiori da risultare quasi impersonali, non avevano alcun problema nell'ammettere di aver preso abbagli. Se perseverarono sulla loro strada fu perché credevano di essere nel giusto. Non curavano le loro produzioni teoriche come fossero le opere d'arte di un talento "divino".
Il loro loro primo incontrò avvenne nell'aprile del 1920, quando Bohr si recò a Berlino per una conferenza. Einstein andò a sentirlo e ne rimase colpito. Poco dopo gli scrisse un bigliettino per ringraziarlo "del magnifico dono che veniva dalla Neutralia (la Danimarca), ove latte e miele ancora scorrono."
Bohr fu altrettanto amabile: "incontrarla e parlare con Lei è stata una delle più belle esperienze, e non so come esprimerle la mia gratitudine... Non può immaginare quale stimolo sia stato per me la possibilità, attesa da tempo, di ascoltare il suo punto di vista sulle questioni di cui mi occupo..."
C'è poi da sgombrare il campo da un altro possibile equivoco: non crediamo ad un Bohr ultramoderno contrapposto ad un Einstein diventato conservatore. Bohr apparteneva alla vecchia generazione dei fisici ed era poco attratto dal fascino del formalismo matematico. Da sempre, evidenziava che per venire al dunque rispetto alle difficoltà quantistiche, si dovesse mantenere una descrizione in termini classici. Scriveva: «La nostra interpretazione del materiale sperimentale si basa essenzialmente su concetti classici. » ("Nature"vol.121 1928)
Bohr approvava Einstein e la relatività. Fu Einstein ad avanzare riserve rispetto a quella che considerava una teoria incompleta.
La scoperta che una particella subatomica si potesse comportare tanto come un'onda quanto come una particella a seconda del dispositivo sperimentale con il quale veniva osservato il comportamento di quella "cosa", aveva indotto Bohr ad introdurre il concetto di complementarietà. Ne parlò in questi termini: «La natura stessa della teoria dei quanti (...) ci obbliga a considerare il comportamento corpuscolare e il comportamento ondulatorio, l'unione dei quali caratterizza le teorie classiche, come aspetti complementari ma mutuamente esclusivi della descrizione (...) Solo prese assieme, queste rappresentazioni complementari dei fenomeni offrono una generalizzazione naturale del modo classico di descrivere le cose.»
Qualche anno dopo, Bohr tornò sulla questione con maggiore precisione: «Certe espressioni che si incontrano spesso nella letteratura fisica, quali "disturbi del fenomeno in conseguenza dell'osservazione", o "creazione di attributi fisici negli oggetti mediante l'osservazione", e anche "attributo" e "misura", è ben poco compatibile con l'uso comune e le definizioni pratiche, e pertanto può ingenerare confusione. Possiamo pretendere, quale maniera più appropriata di esprimersi, una limitazione nell'uso della parola "fenomeno", che si deve riferire esclusivamente a osservazione ottenuta in circostanze opportunamente specificate, comprendenti una descrizione dell'intero esperimento.»
Einstein, dal canto suo, era troppo persuaso che il compito dei fisici fosse di stabilire con certezza cosa accade e perché, per arrendersi all'idea che i fisici stessi potessero diventare allibratori che scommettevano sulla possibilità. Per questo si impegnò a provare che la meccanica quantistica non diceva l'ultima parola sulle leggi arcane e profonde che regolano il funzionamento del microcosmo. Nel corso degli anni produsse diverse sfide allo scopo di dimostrare alcune lacune concettuali. Nel 1927 al V congresso Solvay, asserì che malgrado una funzione d'onda possa apparire secondo una scala di probabilità, ogniqualvolta cerchiamo di stabilire dove si trovi, finiamo di scoprirla in una posizione definita. Einstein si chiedeva se non dipendesse dal fatto che una funzione d'onda è solo un surrogato temporaneo di una descrizione migliore, anche se ancora sconosciuta.
La seconda sfida di Einstein venne lanciata al congresso Solvay del 1930. Qui egli ricorse alla descrizione di un ipotetico apparecchio che combinava una bilancia, un orologio ed un otturatore del tipo di quelli delle macchine fotografiche.
Grazie a questo congegno, Einstein pareva sicuro si potesse dimostrare che una particella, prima di essere misurata, dovesse contenere quelle caratteristiche ben definite che la nuova teoria smentiva.
Quando Bohr venne a sapere della cosa, restò senza parole. Poteva essere la soluzione. Ma di lì a qualche giorno, proprio seguendo Einstein sulla teoria della relatività generale, scoprì una falla: la distorsione del tempo ad opera della gravità, ovvero che un orologio ticchetta a una velocità che dipende dal campo gravitazionale in cui è inserito. Ciò vanificava la speranza di Einstein, ed anch'egli non ebbe difficoltà di riconoscerlo. Tuttavia, il nostro non demordeva.
Nel 1935 uscì un lavoro firmato Einstein-Podolsky-Rosen intitolato significativamente Can Quantum-Mechanical Description of Physical Reality be considered Completed? e passato alla storia con l'acronimo EPR. «Se, -scriveva EPR - senza perturbare in alcun modo un sistema, si può prevedere con certezza (cioè con probabilità uguale a uno) il valore di una grandezza fisica, allora esiste un elemento di realtà corrispondente a questa grandezza fisica.» Questo era parlar chiaro. Se un fotone esiste al momento di una ipotetica misurazione senza interferenze, esso doveva esistere già prima. "La luna esiste anche quando non la vediamo" aveva detto Einstein con una certa enfasi. E' evidente che un fotone esiste anche quando non lo rileviamo. E' parte costituente di un sistema fisico.
Bohr reagì scrivendo: «Ma un ragionamento del genere non può dirsi capace di intaccare la validità della descrizione meccanico-quantistica, basata su un formalismo matematico coerente, che copre automaticamente qualsiasi procedimento di misurazione come quello indicato L'apparente contraddizione, in realtà dimostra solo una sostanziale inadeguatezza del punto di vista tradizionale della filosofia naturale a comprendere una spiegazione razionale dei fenomeni fisici del tipo considerato nella meccanica quantistica. Infatti, la interazione finita fra oggetto e strumenti di misura, condizionato dall'esistenza stessa del quanto d'azione, implica -per l'impossibilità di controllare la reazione dell'oggetto sugli strumenti, se questi debbono essere usati secondo il loro scopo - la necessità di una rinuncia definitiva dell'ideale classico di causalità e una revisone radicale del nostro modo di considerare il problema della realtà fisica. Infatti, come vedremo, un criterio di realtà come quello proposto dagli autorii citati, per quanto cauta possa sembrare la sua formulazione, contiene un'ambiguità sostanziale quando viene applicato ai problemi concreti che stiamo considerando.»
Oggi, siamo tutti generalmente convinti che Einstein avesse torto e Bohr assolutamente ragione. Tuttavia, quando ad avere torto è il "grande"Einstein, rimane un residuo, rimane cioè che le proposizioni di Einstein non suonano mai come "vacue" osservazioni di filosofetti da salotto, ma hanno comunque un fortissimo significato euristico.
Sicché, ad esempio, nessuno potè escludere l'esistenza di variabili nascoste (cioè, sostanzialmente, dati dei sistemi fisici quantistici che ignoriamo perché non li percepiamo) fino a quando Bell, nel 1964 non portò sul terreno sperimentale il tema di ipotetici completamenti deterministici della meccanica quantistica.
L'esistenza o la non esistenza di determinate "cose", anche se impossibili da misurare o da valutare, può avere conseguenze rilevabili sperimentalmente. Ad esempio, se Einstein avesse avuto ragione, i dati ottenuti da due apparecchi lontani fra loro in grado di misurare lo spin di particelle su più assi scelti a caso, avrebbero dovuto concordare in più del 50% dei casi. Ma, al tempo in cui Bell formulò l'ipotesi, cioè negli anni '60, non esistevano apparecchiature idonee a questo tipo di esperimenti.
Finalmente, nel 1981, Alain Aspect fu in grado di realizzare il primo di una serie esperimenti di alta qualità.
Partendo dal fatto empirico che ogni atomo di calcio, quando ritorna allo stato normale, cioè di minore energia, emette due fotoni che si allontanano fra loro in modo simmetrico, con spin perfettamente correlati, Aspect esaminò i dati raccolti dalle numerose ripetizioni dell'esperimento, e notò che questi non concordavano in più del 50% dei casi. In pratica, l'esperimento dimostrava che Einstein aveva avuto torto nel suggerire l'idea di variabili nascoste.
ea - 17 aprile 2005