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Wilhelm Dilthey (1833 - 1911)
Storicismo e relativismo
«Dinnanzi allo sguardo che s'estende sulla terra e su tutto il passato svanisce la validità assoluta di ogni singola forma di concezione della vita, di religione, di filosofia. Così la formazione della coscienza storica distrugge, ancor più radicalmente di uno sguardo complessivo sulla lotta dei sistemi, la fede nell'universale validità di ciascuna, quale che sia, delle filosofie che si sono dedicate ad esprimere la connessione del mondo, in modo convincente e con una connessione di concetti.»
(in Wilhelm Dilthey - Weltanschauung, Philosophie und Religion in Darstellung, Berlin, Reichel und. C, 1911)
Queste frasi riassumono in modo efficace il pensiero di Dilthey e non a caso furono selezionate da Husserl per presentare il pensiero di Dilthey nell'articolo La filosofia come scienza rigorosa. Presentarlo, per poi criticarlo severamente, e chiunque conosca Husserl, anche solo all'ingrosso, avrà compreso "al volo" le ragioni dell'attacco.
Per Dilthey, è dubbio che la filosofia possa essere scienza rigorosa, per Husserl "deve" sforzarsi di diventarlo, perché non lo è mai stata. Su questo punto, quantomeno, i due sembrano concordare. Nella premessa dell'articolo, Husserl aveva esordito: «Fin dal suo primo inizio la filosofia ha preteso di diventare scienza rigorosa, anzi di esser tale scienza da poter soddisfare alle più alte esigenze teoretiche e di render possibile, da un punto di vista etico-religioso, una vita guidata da norme razionali pure.» (Edmund Husserl - La filosofia come scienza rigorosa - Paravia 1975) Ma ciò non è accaduto. Ci riuscirà Husserl? E' una bella domanda, ma qui ci occuperemo di Dilthey e della sua resa al relativismo storico, cioè, secondo le stesse parole di Husserl, ad una perdita del valore assoluto di tutte le idee. "Non ci sarebbe affatto validità assolutamente 'in sé', la quale è quella che è anche se nessuno la realizza ed anche se mai nessuna umanità la realizzasse nella storia."
Dilthey fu una figura chiave dello "storicismo" tedesco, ovvero quella corrente della filosofia tedesca che vide emergere anche Georg Simmel, Max Weber, Oswald Spengler, Ernst Troeltsch e Friedrich Meinecke. Per questi autori, l'ambito preferenziale di esercizio della filosofia era la storia intesa come cultura e come vita, ma con profonde differenze l'uno dall'altro.
Così Franca D'Agostini: «In effetti lo storicismo tedesco muove dall'esigenza di rendere controllabile, rigoroso, scientificamente giustificato il lavoro delle scienze storico-sociali, distinguendole dalla metafisica e dalla scienza della natura, e culmina in varie forme di relativismo, di vitalismo e di recupero della metafisica. Ma occorre intendersi: il senso proprio del relativismo e della Lebenphilosophie che emergono nel percorso di questi autori (specie in Dilthey e in Simmel) non è dissolutivo.» (1)
Ciò significa che gli storicisti tedeschi si proponevano in generale di costruire precise determinazioni, un perimetro di significati non ambigui, intorno al senso del logos occidentale, volendo giungere ad un ripensamento chiarificante della razionalità nella storia dell'Occidente.
Dilthey, ancora secondo D'Agostini, fu «Filosofo della vita, teorico di un organicismo neoromantico e di una forma di relativismo quasi decadentistico» (2). Egli «ha indiscutibili tratti di affinità con un altro pensatore della sua epoca, nato undici anni dopo e morto undici anni prima di lui: Friedrich Nietzsche. Inoltre in entrambi gli autori si afferma una pratica filosofica apparentemente poco "tecnica": Dilthey e Nietzsche sono cioè (o meglio sono stati recepiti anzitutto) non tanto come filosofi ma per così dire psicologi dello spirito, e storici della cultura. Ma proprio su questo punto occorre fermarsi e riflettere. In entrambi, e dichiaratamente con Dilthey, il quale non condivide la discontinua ma fondamentale avversione di Nietzsche per la logica e per la scienza, la fondazione del discorso filosofico nell'ambito della cultura, dell'esperienza storica, della letteratura e dell'arte, è anche in un certo modo una "nobilitazione" filosofica di tutti questi ambiti. Non è tanto la filosofia ad essere ridotta a una forma di panculturalismo irrilevante e relativistico, ma anzi è la sfera della cultura (dell'arte, della retorica, della letteratura, dell'interpretazione testuale a ricevere una sorta di elevazione o riabilitazione logico-ontologica, ed è proprio questo aspetto a decidere la peculiare fortuna del pensiero diltheyano nel secolo XX, e la sua attualità.» (3)
Scienze della natura e scienze dello spirito: differenza rispetto a Windelband e Rickert
Si può dire che il punto di partenza per Dilthey fu la messa a fuoco della differenza tra scienze della natura e le cosiddette scienze dello spirito, in particolare la storia.
Su tale differenza avevano già insistito i neo-kantiani del Baden, Wilhelm Windelband e Heinrich Rickert ma, da un punto di vista meno radicale. Per Windelband, in particolare, la filosofia non avrebbe mai potuto "dissolversi" nella storia in quanto anche quest'ultima, come scienza idiografica dell'individuale e dell'avvenimento, doveva mantenere un carattere nomotetico, cioè universale ed orientato alla scoperta delle leggi. Una volta ammessa l'innegabile diversità tra "natura" e "spirito", diceva Windelband, non è lecito codificare due vie diverse di conoscenza a seconda che si cerchi di spiegare la natura o di "comprendere", anche su basi psicologiche, lo "spirito". Per Windelband, le norme del pensare rimangono fondamentalmente le stesse. Nemmeno la distinzione metodologica, innegabile, può farci dimenticare l'intreccio continuo tra un piano e l'altro.
Recensendo la prima edizione dei Preludi di Windelband, nel 1884, Dilthey prese invece decisamente posizione contro tale impostazione, considerando innanzitutto che non era propriamente kantiano separare la questione della "validità delle norme" (del pensiero) dal problema della loro origine. "Non è l'assunzione di un rigido a priori della nostra facoltà conoscitiva, ma solo la genesi che muove dalla totalità del nostro essere a poter rispondere alle domande che tutti noi dobbiamo rivolgere alla filosofia."
Il punto che segna il distacco di Dilthey dai neo-kantiani, e certamente anche da Kant, è il coinvolgimento "emotivo" del soggetto nel processo di conoscenza. L'a priori non è uno stoccafisso irrigidito, un soggetto senza sangue nelle vene, ma un io dinamico nel quale è presente il senso dell'appartenenza, lo stare in una parte della storia stessa. Ancora nel 1894, Dilthey rimproverava a Windelband di aver spezzato il circolo tra "vivere e conoscere", e di aver riportato la psicologia nel dominio delle scienze della natura. Non sono questi temi secondari dell'opera di Dilthey perché, come vedremo, è proprio in questo atteggiamento "vitalistico", anche se non propriamente irrazionale, che si aggruma il filo delle sue riflessioni.
Erlebnis: un nuovo concetto di esperienza
La differenza tra scienze della natura e sceinze dello spirito, per Dilthey, si esplica sia per metodi che per oggetti. Ne viene che mentre la scienza della natura pensa muovendo dalla datità degli oggetti e si propone l'individuazione di leggi generali, le scienze dello spirito si fanno determinare da un tipo di ricerca nella quale prevale una nuova idea di empiricità, attraverso un'espressione che in lingua tedesca si scrive Erlebnis, cioè vissuto d'esperienza, ma che in realtà significa qualcosa di più profondo, perché predica una sorta di comunione con la storia, un nuovo sapere che nasce dall'interno della storia stessa.
Si può verificare questo rivoluzionamento del concetto di esperienza, come annota D'Agostini, persino nelle carte giovanili di Dilthey, dove è stata trovata una frase la quale, riferendosi a Stuart Mill ed a tutto l'empirismo inglese, affermava: "Mill è un dogmatico per mancanza di erudizione storica". L'empirismo classico, per Dilthey, era ancora dogmatico in quanto faceva affermazioni di carattere generale ed universale, a-storiche, quando invece occorreva prendere atto del carattere individuale ed individuo (nel senso di non con-divisibile) del divenire storico.
Per superare questa frattura tra l'occhio dello storico ed i soggetti della storia occorre, secondo Dilthey, uno sprofondamento nella storia che, come ha scritto Emanuele Severino, è incompatibile con qualsiasi forma di metafisica, "sia essa una metafisica della trascendenza o dell'immanenza" che pretenda di poter sottomettere il divenire storico ad un principio incondizionato, "assoluto ed unitario, contenente in modo definitivo il senso del mondo". (4)
Il concetto di spirito, in altre parole, viene a corrispondere ad una nuova idea di empiricità, cui non sono estranee le influenze dei maestri di Dilthey, dal filologo Boekch allo storico Droysen, dal geografo Ritter allo stesso Schleiermacher, senza dimenticare il filosofo non accademico Paul Yorck von Wartenberg, la cui teoria della storia venne ripresa dallo stesso Heidegger in Essere e tempo.
Dilthey ebbe dunque un momento di forte analogia con il pensiero hegeliano (lo spirito e la storia, la storia come storia dello spirito), ma se ne distanziò profondamente comprendendo che l'affermazione hegeliana della storicità della realtà è incompatibile con la metafisica hegeliana, che aveva inteso la storia come sviluppo razionale dello spirito assoluto. In Dilthey, semmai, sebbene in forme meno esplosive rispetto a Nietzsche ed a Marx, emerge lo stesso tema della "liberazione", la quale può essere raggiunta sciogliendo i vincoli di "ogni sistema filosofico o religioso". Per Dilthey «la vita si libera dalla conoscenza concettuale e lo spirito diventa sovrano dinanzi alle ragnatele del pensiero dogmatico» (5)
Per Dilthey, dunque, l'uomo è forza creativa: in questo anticipa Benedetto Croce e Giovanni Gentile ma, a differenza dei suoi eredi italiani, per i quali la coscienza non sarà finita e corruttibile, come lo sono le civiltà e gli imperi storici, la coscienza storica è anch'essa espressione di una finitudine, di una situazione relativa. Questo vuol dire che per Dilthey alla sommità del sapere non sta comunque una coscienza storica evoluta, sempre più prossima ad una comprensione generale, ma una coscienza finita ed immediata, l'Erleben, per l'appunto, il quale non ha bisogno di una giustificazione,o di un fondamento epistemico. Ogni asserzione su ciò che è immediatamente vissuto risulta oggettivamente vera, se essa risulta adeguata a ciò che è immediatamente vissuto.
L'uomo, come soprattutto il filosofo, non può non comprendere che le scienze dello spirito studiano un dominio di cui l'uomo è parte costitutiva, un dominio di cui il soggetto conoscente è anche parte in causa, a sua volta oggetto di studio. Ne viene una prima conseguenza: se occorre realizzare una connessione vivente tra lo studioso e lo studiato, su tale terreno, come afferma D'Agostini, non vale la logica ambivalente. Il che vorrebbe dire: non vale il principio di non-contraddizione. Esiste/non esiste; il principio spinoziano omnis determinatio est negatio, il se questo è vero, allora quest'altro è falso, perdono la loro assolutezza.
Le scienze dello spirito, in altre parole, non operano sul "momento" aristotelico, o sul'identità leibniziana, dove A non può essere Non-A, ma su una compenetrazione di momenti e di identità, di spostamenti temporali e spaziali non definibili, non misurabili da orologi e da calendari, da topografie e geografie. Tutto ciò che rimane è l'identificazione, il senso di appartenenza ad una data storia.
Il concetto di Erlebnis, "esperienza vissuta" prende così un diverso rilievo metodologico. Erlebnis è una parola relativamente nuova, per la lingua tedesca della fine dell'Ottocento. Il verbo erleben significa la presenza di un essere vivente-sperimentante all'interno di una situazione. Come sottolinea ancora D'Agostini, la riflessione su questa esperienza soggettiva, non appartiene al mondo oggettivo dei fatti, indagabile dalle scienze della natura, ma a quello soggettivo della coscienza: è un'esperienza interiore.
Ciò non porta però ad un protagorismo di seconda categoria, ad un relativismo estremo e rinunciatario, ma ad un vivere e pensare secondo la totalità, ad un esperire sé stessi come "parte della storia".
Emanuele Severino ha scritto che questo è una specie di coltello, "il coltello del relativismo storico" che "abbatte tutto ciò che la metafisica riteneva stabile".
La rivisitazione della storia, secondo l'ottica di Dilthey, fa nascere il dubbio assoluto, diverso da quello cartesiano, ma "produce anche la guarigione e la liberazione", perché se ogni visione del mondo che presume valere come stabile ed immutabile, altera ed irrigidisce la la libertà del divenire e della vita, riconducendolo a un principio incondizionato e unilaterale, d'altra parte ogni visione del mondo esprime pur sempre un "lato" del mondo. Quindi ogni visione, secondo Dilthey, è vera, anche se unilaterale.
Non è possibile unificare le diverse visioni, come riteneva Hegel, ma ci si può assicurare che la verità sia presente in ognuna di esse.
Questo non lascia l'uomo nella disperazione perché in ogni visione, sia pure come "raggio variamente rifratto" "la pura luce della verità giunge ai nostri occhi".
Severino commenta: «In questo modo, però, Dilthey sembra regredire a una concezione realistica, preidealistica della verità, che intende la verità come qualcosa di trascendente lo spirito umano. Se si tralascia questo aspetto consolatorio del pensiero di Dilthey, la liberazione dell'uomo dalla tirannia delle visioni del mondo si traduce nell'angoscia di fronte al vuoto della coscienza e alla finitezza dell'uomo. Una configurazione concettuale, questa, che anticipa l'atteggiamento di fondo dell'esistenzialismo e che presenta forti analogie col "nichilismo" in cui si trova l'uomo, secondo Nietzsche, quando ancora non riesce ad imboccare la strada che porta oltre l'uomo.» (6)
Ermeneutica come rivivere
Dopo un periodo di relativo oscuramento, il pensiero di Dilthey ha riacquistato una certa influenza nel corso del Novecento, e ciò è dovuto alla riscoperta di due sue opere fondamentali, Origini dell'ermeneutica (del 1900) e Essenza della filosofia (1907). «Nel breve saggio sulle Origini dell'ermeneutica Dilthey precisa il carattere eminentemente linguistico della comprensione. L'oggettività della conoscenza dell'Erlebnis è garantita dal fatto che essa si basa su "segni che ci sono dati sensibilmente dall'esterno". "Noi chiamiamo comprendere il processo in cui noi, sulla base di segni sensibili che ne sono la manifestazione, conosciamo qualcosa di psichico." Dunque l'Erlebnis si esprime nei segni del linguaggio: dai balbettii infantili alla comprensione dell'Amleto o a quella della Critica della ragion pura, ci troviamo uniformemente di fronte a esperienze vissute diventati segni, che si tratta di interpretare. Qui dunque l'ermeneutica, la teoria o l'arte dell'interpretazione, ci è di aiuto, e Dilthey ricostruisce brevemente la storia della disciplina dalle origini dell'antichità a Schleiermacher, quindi espone la teoria ermeneutica applicata alle nozioni della sua filosofia.» (7)
In Dilthey diviene ancora più chiaro che il problema dell'ermeneutica è il rivivere, superando la difficoltà centrale di ogni esegetica, ovvero il problema dato dal circolo ermeneutico. Esso viene tematizzato come rapporto di reciproco rimando tra parte e tutto, insopprimibile elemento di ogni concezione organicistica della totalità storica.
Seguendo D'Agostini, possiamo concludere: «Qui tutta la teoria diltheyana dello spirito si compie: l'autoapparteneza genera riflessività, e la riflessività si esprime gnoseologicamente come circolarità, e la circolarità non dà luogo a una comprensione totale e piena, ma lascia sempre un residuo di incompiuto, inconcluso, non compreso.» (8)
Essenza della filosofia e fallimento della metafisica
In Essenza della filosofia il tema dell'incompiutezza, in pratica dell'impotenza a comprendere tutto, viene ripreso sotto il segno del vano sforzo dell'umanità filosofica di realizzare l'impresa metafisica. Concetti complessi come "filosofia", "arte", "religione", "diritto", "economia" vengono esaminati (e riportati alla loro origine genetica). Dilthey ammette il loro essere "unità effettive", ma non riconosce loro un'essenza "particolarmente chiara", analizzabile sotto il profilo concettuale... «... piuttosto - scrive D'Agostini - la loro unità è "finale", ossia derivano il loro essere essenziale, o le loro note distintive, dal fine a cui i processi che li compongono sono orientati. Ora il metodo o la "logica" che sta alla base di un processo definitorio di entità di questo tipo è presentata in base a una nuova versione del circolo ermeneutico.» (9)
Abbiamo così che per portare alla luce il "che cosa è" di un complesso storico dovremmo già sapere il "che cosa è" prima di saperlo. Siamo all'impossibile, a quell'esercitazione platonica in cui gli avversari di Socrate sostenevano che l'ignorante non può imparare ciò che il sapiente sa già, e poi l'esatto contrario. Solo che Dilthey, proprio perché sostanzialmente antimetafisico, finisce con l'accettare solo un corno del problema, rifiutandosi di vedere che esiste una comprensione per gradi, un'approssimazione sempre migliore, e che è proprio nel corso delle approssimazioni che si ridefiniscono e si affinano i caratteri costitutivi delle scienze, non ultima la storia. C'era "un mondo là fuori", anche ai tempi di Socrate, e questo mondo produceva sofisti ed architetti di diabolici esperimenti della ragione, di "giochi linguistici" violentemente contraddittori. Ma, dando per scontato che la metafisica non è mai arrivata alla validità universale, ad un coglimento unico, ma solo a un susseguirsi di visioni, l'una differente dall'altra a seconda del tempo storico, anche solo per "sfumature", non resta che prender atto che l'impresa metafisica non è che un susseguirsi di sforzi fallimentari. La riflessione storica sulla metafisica, scrive D'Agostini, «giunge a capire che la sua stessa pretesa è infondata, che il ricorrere delle molte metafisiche non è che il segno dell'errore che le ispira. Dilthey non arriva qui a dire che questa (la sua) in definitiva è l'ultima metafisica della storia del pensiero, e che è costituita da una peculiare versione negativa di un idealismo della libertà. Egli afferma soltanto, nel descrivere il "diminuito potere della metafisica": "resta dell'instancabile lavoro dello spirito metafisico la coscienza storica che in sé lo ricapitola e sperimenta in esso l'inesauribile profondità del mondo."» (10)
Ma perché la metafisica è fallimentare? Lo spiega con grande chiarezza Nicola Abbagnano. Ci sono per Dilthey tre tipi fondamentali di metafisica: il primo è quello naturalistico materialista, o positivistico, che ha avuto in Democrito, Lucrezio, Epicuro, Hobbes, gli enciclopedisti e Comte tra i protagonisti. «Questa intuizione del mondo si fonda sul concetto di causa, quindi della natura come un insieme di fatti che costituiscono un ordine necessario. Nella natura così intesa non c'è posto per i ocncetti di valore o e di scopo e la vita spirituale deve apparire come "una interpolazione nel testo del mondo fisico."» (11)
L'idealismo oggettivo di Eraclìto, stoici, Spinoza, Leibniz, Goethe, Schelling ed Hegel è dominata dal senso del valore e del significato del mondo. «... l'intera realtà appare come l'espressione di un principio interiore e perciò viene compresa come la scoperta di una connessione spirituale che agisce consapevolmente o inconsapevolmente. Questo punto di vista conduce a vedere nei fenomeni del mondo manifestazioni di una divinità immanente (Panenteismo o Panteismo). » (12)
Un terzo tipi è dato dall'idealismo della libertà (Platone, Cicerone, speculazione cristiana, Kant, Fichte, Maine de Biran). «Esso interpreta il mondo in termini di volontà, quindi afferma l'indipendenza dello spirito dalla natura cioè la sua trascendenza. Dalla proiezione dello spirito sull'universo si originano i concetti della personalità divina, della creazione, della sovranità della personalità sul corso del mondo.» (13)
Secondo Abbagnano, ognuna di queste visioni di fondo ha una sua forza, ed esprime una relazione tra l'uomo ed il mondo. Ognuna di esse è tuttavia, per così dire, incommensurabile all'altra, dunque non è possibile una relazione totale che risulti dall'insieme delle tre categorie fondamentali di ogni scuola: la causa, il valore, lo scopo. Per questo la metafisica è impossibile: «essa dovrà infatti o tentare illusoriamente di connettere insieme quelle categorie o mutilare il nostro vivente rapporto col mondo costringendolo in una sola di esse. Essa è impossibile anche nell'ambito di uno dei tipi fondamentali; giacché non è possibile determinare l'unità ultima dell'ordine causale (positivismo) né il valore incondizionato (idealismo oggettivo) né il fine assoluto (idealismo soggettivo). Tuttavia, l'ultima parola non è la relatività delle intuizioni del mondo ma la sovranità dello spirito nei confronti di ciascuna di esse e insieme la coscienza positiva che nella diversità dei loro tipi si esprime la pluralità del mondo e che proprio questa coscienza costituisce la realtà unica del mondo stesso.» (14)
Per concludere si dovrebbe parlare della "fortuna" e della riscoperta del pensiero di Dilthey nel corso del Novecento. Lo stesso Husserl, come ricorda D'Agostini, in un inedito degli anni Venti, poi tradotto anche in italiano (Psicologia fenomenologica - La Palma 1988), venne a riconoscere che la psicologia diltheyana era in parte un precorrimento della fenomenologia. Ortega y Gasset ha proclamato Dilthey come "il più grande pensatore del secondo Ottocento". Gianni Vattimo lo ha recentemente citato come "il suo maestro".
Tuttavia, ancora secondo D'Agostini, rimangono nella conoscenza di Dilthey zone d'ombra ancora da esplorare. «La conclusione del discorso diltheyano non è del tutto chiara. Non è chiaro se egli aderisca a una "filosofia della vita" che è essa stessa in parte una "metafisica", oppure pratichi una "filosofia della filosofia" il cui strumento fondamentale è una forma di psicologia della cultura. Ma l'ultima considerazione di Dilthey come un relativista è riduttiva: Dilthey non sembra essere propriamente un relativista, ma se mai qualcosa di più, ossia un pensatore che del relativismo coglie il potenziale profondamente filosofico, la capacità di creare pensiero e teoria. Dunque di rivolgersi in ultimo contro sé stesso.» (15) Il che potrebbe anche essere.
Opere di Dilthey
Introduzione alle scienze dello spirito (1883) - La Nuova Italia 1974
L'analisi dell'uomo e l'intuizione della natura dal Rinascimento al secolo XVIII - La Nuova Italia 1974
L'etica di Schleiermacher - Guida 1974
Critica della ragione storica - Einaudi 1982
per approfondire:
Maurizio Ferraris - Storia dell'ermeneutica - Bompiani 1988
Pietro Rossi - Lo storicismo tedesco contemporaneo - Einaudi 1979
F. Bianco - Dilthey e la crisi della ragione storica - Marzorati 1971
C. Vicentini - Studio su Dilthey - Mursia 1974
note:
(1) Franca D'Agostini - Breve storia della filosofia nel Novecento - Einaudi 1999
(2) idem
(3) idem
(4) E. Severino - La filosofia contemporanea - Rizzoli 1996
(5) citato in: E. Severino - La filosofia contemporanea - Rizzoli 1996
(6) idem
(7) Franca D'Agostini - Breve storia della filosofia nel Novecento - Einaudi 1999
(8) idem
(9) idem
(10) idem
(11) Nicola Abbagnano - Storia della filosofia - vol.VI -TEA 1995
(12) idem
(13) idem
(14) idem
(15) Franca D'Agostini - Breve storia della filosofia nel Novecento - Einaudi 1999
moses - 3 luglio 2005