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La non verità è donna
Nietzsche, la scrittura, la différance, la decostruzione, il logocentrismo come etnocentrismo in Derrida
di Guido Marenco
«La Decisione collega e separa ... essa deve essere intesa qui nello stesso tempo come l'atto originario di un ordine, di un fiat, di un decreto, e come una lacerazione, una cesura, una separazione, una discessione» (J. Derrida - La scrittura e la differenza)
Che dopo Heidegger la filosofia non sia più quella di prima è convinzione diffusa. Ma anche gli scritti di Wittgenstein hanno lasciato un'impronta. Distinguendo tra filosofia discreta e filosofia continua, e condannando quest'ultima come chiacchiera interminabile, che finisce col bruciarsi prima di arrivare a destino, senza più l'energia sufficiente ad impadronirsene, essa muore, o meglio: muore il filosofo continuo. Perchè essa, la filosofia continua, resta, come un treno fermo al binario di arrivo, pronto e disponibile a ripartenze, ad altri viaggi, ad altri lunghi congedi dalla vita quotidiana alla ricerca del senso dell'essere. Bisogna essere persuasi, insomma, che il senso dell'essere non stia nel quotidiano, che qualcuno se lo sia preso, e lo abbia nascosto. Il mio amico Grassano continua a lamentare che i teologi ci prendono per scemi. Ma anche i filosofi continui non scherzano se credono di darcela a bere sulla necessità di una illuminazione da filosofo a discepolo. Orbene, questo tipo di filosofia ai limiti della pretesa gnostica mi interessa ancora, ma come forma di svago. Alla mia età non puoi più collezionare le figurine dei calciatori. Icone di filosofi, allora, se non riesci coi diamanti, o con più riguardo alla depanse, pardon, alla depense, coi cd di buona musica.
Gli analitici, cioè i discreti, dovrebbero avere vita più facile: affrontano problemi sensati concernenti la mente ed il mondo. E' solving problem, mi dicono. Non saprei. Spesso mi sono trovato come se avessi il singhiozzo. Analizzando in eccesso si perde il filo della continuità, ovvero a non saper più perché mi posi una certa domanda., e dove la sua soluzione avrebbe voluto condurmi. Dopo una tentazione analitica, ho preferito dedicarmi a ricerche storiche ed antropologiche, mondi nei quali il discreto ed il continuo convivono senza troppe complicazioni e singulti. Qui, a volte le domande trovano una risposta, altre no. Ma il gioco presenta il vantaggio di un'aderenza al concreto logicoe cronologico, ovvero alla convinzione razionale che la nostra storia si possa conoscere a fondo prima che salti fuori qualcuno ad interpretarla.
In quest'ottica ci sta anche la filosofia, quindi pure Derrida, quale parte di una vicenda e di una deriva intellettuale che ha coinvolto la mia generazione. Partimmo tutti da Marx, trovammo Sartre, Fromm, Marcuse, Heidegger, Eco, i francesi, in particolare Lacan e Foucault, Nietzsche, il Nietzsche dei francesi. Infine Blanchot, Bataille, il teatro di Artaud, gli attraversamenti cacciariani, le linee discendenti dello Steinhof, uomini postumi e postumi di uomo. Poi più nulla, buio pesto, dopo il ben noto colpo di pistola nella nebbia che mise fine ai tribolati giorni di Otto Weininger (quello convinto che la donna e l'ebreo fossero un attentato alla logica).
Rimane che Heidegger, con le sue lezioni ed i suoi testi, provocò un gigantesco movimento tellurico e nuovi assestamenti. Fu un filosofo continuo portato alla discrezione radicale. C'è chi approfittò per ricostruire su nuove fondamenta, con materiali flessibili, più leggeri, antisismici. E c'è chi continuò a decostruire la tradizione occidentale , pur non avendo la pretesa di provocare nuovi terremoti.
Uno di questi era Derrida, che si è conquistato un posto nei futuri manuali di storia del pensiero tramite un sottile gioco sviluppato attorno a parole quali scrittura, differanza, decostruzione, logocentrismo.
Un inquadramento storico potrebbe affermare che Derrida si situò tra post-strutturalismo, post-ermeneutica, post-moderno, post-almarket. Rilesse radicalmente Nietzsche, anche oltre l'interpretazione data da Heidegger. Di quel modo derridiano di sfondare le porte della metafisica vi era traccia in un saggio di Cacciari e Maurizio Ciampa, pubblicato sul numero de Il Centauro nel lontano 1981. Qui le radici ebraiche del parricidio operato dalla scrittura erano evidenziate in modo emblematico: germogliata tra i frantumi della Tavola spezzata dal nostro Moses (incazzato nero con quelle baldracche ebree, ma anche con Dio che ti manda allo sbaraglio in un mondo di idioti che leccano il vitello d'oro invece del ragù), patatrac, ecco che la scrittura si scrive da sola, prende la mano, e zacchete ti esce il logos originario, la legge sic et simpliciter.
Contro questo logos, se ho ben capito Cacciari che, a volte, fa del suo meglio per non farsi capire, il primo e l'unico anticristo, il Nietzsche reinterpretato da Heidegger, come Ent-fernung, che Derrida interpreta, a sua volta, come l'allontanamento dall'allontanamento, ovvero l'allontanamento dal lontano.
Heidegger, zomma, non ha capito Nietzsche, o non ha avuto il coraggio di capirlo, sul piano del senso della scrittura. La forma e lo stile dell'aforisma erano più che adatti alla distruzione della metafisica. E sono riusciti laddove nemmeno Heidegger ha compreso di aver fallito.
Il punto era, per Derrida, che all'origine dell'Ent-fernung, ci stava la donna come la negazione della verità. In quanto Di-stanz ed Ent-fernung assieme, «Essa inghiotte [...] senza fine, senza fondo, ogni essenzialità, ogni identità, ogni proprietà...»
"Se vi è donna - commentavano Cacciari e Ciampa - e la sua seduzione la verità consiste in questo scarto abissale." «Donna è il nome di questa non verità della verità.» decretava Derrida.
Sicché hai già un'idea di che significa scrittura in Derrida (affondare la penna nella fessura, tra una lettera e l'altra, senza speranza di trovare il fondo) poi vedremo di approfondire...
Logocentrismo
Per logocentrismo, Derrida intende una forma di etnocentrismo, bianco, europeo, tuttalpiù semitico, ma fortemente compromesso con la grecità, nel quale la scrittura fonetico-alfabetica ha lentamente preso il sopravvento su tutte le altre (in particolare gli ideogrammi ed i geroglifici), dando così luogo ad una sorta di colonialismo culturale sotto il segno del segno. L'impero del segno significante strutturato in regole ortografiche e grammaticali domina il mondo occidentale, e secondo Derrida, ciò è strettamente connesso al gesto iniziale del filosofo, il "padre di tutte le filosofie" (quello vero e non quello presunto, il quale presunto si scrive Parmenide, si pronuncia Parmenide, significa Parmenide): dicesi Platone. Da Parmenide, Platone prese spunto, ma anche noi, comuni mortali a volte prendiamo spunto da errori grossolani. Perché non Platone?
Sicché Platone respinse la visione stazionaria dell'essere parmenideo, ma non del tutto, ammettendo che esiste un mondo di immutabili ed eterni: quello delle idee. Codesto è l'unico mondo dell'essere. Il nostro mondo non ha tale mitica stabilità, perché esso muta, in quanto imperfetto e caduco.
Abbiamo, allora, che se è vero che filosoficamente la metafisica nacque con Parmenide (nel mito e nella religione era già nata ben prima) e fu negata da Eraclìto, essa divenne adulta e ragionevole con Platone. Questo mondo delle idee, ovunque ubicato, anche solo nella nostra testa, ci ha fatto immensamente comodo, risparmiandoci fatiche prometeiche. Da quando ci sono idee, che comunque esistevano anche prima di Platone (non le ha inventate lui!) noi possiamo parlare di qualcosa anche se questa cosa è assente, e soprattutto, possiamo parlare di concetti astratti, di cose, universali, che in natura non esistono, ma che la nostra mentalità associativa ha posto secondo criteri da essa stessa trovati (vedi la lezione kantiana), nonché di sentimenti che si rivelano alla coscienza, quali amore, odio, simpatia, empatia, paura, coraggio.
Il problema è dato dal fatto che tra significante primordiale, la parola, ed il significato, la cosa, o il contenuto del concetto, ci sarebbe uno scarto irriducibile.
La coppia significante-significato altro non è, per Derrida, che la replica del dualismo tra sensibile ed intellegibile, tra mondo del percepito e mondo delle idee, che essendo stabile ed immutabile, vero mondo dell'essere, e quindi non ingannevole, è appunto l'unico mondo in cui si possa afferrare il concetto della cosa come dovrebbe essere e quindi farsi una cultura.
Ma all'origine della contestazione del logos c'è un punto da afferrare: è come se fosse che la parola stabile ed immutabile non potesse mai rendere l'idea di un significato mobile, contestuale e transeunte.
Domanda: chi si muove per primo? Chi cambia? Significante o significato?
Risposta? Un muto segnale. (Benjamin) Ma Derrida ignora Benjamin, peccato.
E, come osservò Heidegger, che c'entra molto in questa vicenda (compresa la rimozione di Benjamin), anche se lo abbiamo temporaneamente abbandonato, la concezione del segno è solidale con la onto-teo-logia. Ne parlò in Identità e differenza, identificandola con la struttura fondamentale della metafisica, la quale sarebbe indagine di ogni ente in quanto ente, ricerca su ciò che è comune ad ogni ente, postulato di esistenza dell'Ente Sommo.
La conclusione di Derrida è che quando linguisti, semiologi ed altri scienziati e cultori del segno (ad esempio i critici letterari o musicali o figurativi) accolgono la differanza tra significante e significato, di fatto, e forse inconsapevolmente, accettano la dualizzazione sensibile-intellegibile, perché, ovviamente, il segno è colto dalla sensibilità, ma il significato è colto dall'intelligenza.
A suggello di tale finezza Derrida impiegò parole di peso, del tipo di quelle che non passeranno: «Il segno e la divinità hanno lo stesso luogo e tempo di nascita. L'epoca del segno è essenzialmente teologica. Essa forse non finirà mai. La sua chiusura storica è tuttavia segnata.»
Come giunse Derrida a simile profezia?
Ricapitolando massimamente potremmo dire: in primis la storia del logocentrismo si può solo scrivere parlando dell'imporsi della filosofia (che in questo caso si pronuncia metafisica e significa metafisica) ed essa è l'ultima maschera della storia della verità. Che tradotto in linguaggio corrente significa: la storia di chi si è affannato e dannato per rendere la sostanza e la struttura delle cose e del mondo, cercando soluzioni razionali.
Dopo di che, abbiamo che una storia della verità ed una storia della verità della verità (notare anche qui, come semplicemente raddoppiando il segno, si evochi uno scenario molto suggestivo, che però dice niente) , e l'abbiamo solo perché al logos è stato assegnata l'origine della verità in generale.
Se s'intende il logos come comunicazione, non c'è dubbio che Derrida abbia ragione. La verità esiste nel discorso descrittivo e nel pensiero sul discorso. Senza discorsi descrittivi, non c'è nemmeno bisogno di distinguere il vero dal falso. Il concetto di falso nasce da una descrizione non rispondente alla realtà. Impariamo a mentire a noi stessi, cioè a toccare il fondo dell'esistenza, solo dopo un lungo periodo di addestramento etico-linguistico con gli altri, preferibilmente a scuola e nelle aule universitarie, poi parlando con gli amici, infine imparando dal lavoro e dalle sue dure, spietatissime regole, se pure riusciamo a trovarne uno.
Ma è dubbio che Derrida l'abbia intesa così: nel suo mirino passano la grandi immagini della verità della metafisica, la quale non ha verità. Essa non descrive la realtà, ma una realtà molto improbabile, un'ipotesi fantasiosa sull'essere vero.
Infine, abbiamo la scienza e qui troviamo che la logica, cioè il logos, è "il cuore stesso della filosofia", essendo poi la filosofia nientaltro che la fonetizzazione universale in formato discorso razionale. Da sempre essa decide che cosa è scienza e cosa non lo è. Non lo decidono gli uomini in generale, persuasi che medicina di uomo bianco è superiore a pratica sciamanica e streganze di vario tipo. Decide la filosofia... gulp, senza contare la multinazionale del farmaco o un ministro della sanità tipo Sirchia (noto esperto di razze canine pericolose.)
Ma, a sua volta, la pratica scientifica non ha mai smesso di contrastare l'imperialismo del logos (quello filosofico? O quello tout court?), opponendovi un altro tipo di linguaggio. Ma quale? Non è che tra il linguaggio dei numeri, oggi totalmente alfabetizzato nelle formule, e quello della metafisica, ci sia un legame inscindibile?
Non è che il significante delle formule si riferisca sempre e comunque ad un significato?
Chi abbia presente il lavoro svolto da Peirce sul rapporto e la differenza (con la "e") tra significante, significato ed interpretante, potrebbe giustamente osservare che Derrida rimase al di qua. Ovvero non considerò troppo Peirce, l'interpretante, e questo, per me, è un peccato, anche se non gravissimo. Diventa gravissimo se l'interpretante post-perceiano non coglie la discontinuità, ad esempio, la discrezione tra Newton e Sadi Carnot, cioè tra la scienza di prima e la scienza di poi. Sono queste le cose che dovrebbero interessare il filosofo: la differanza tra la meccanica a mano e quella animata dalla combustione, l'equivalenza tra calore ed energia. Lo studio di quel miracolo che fu la macchina a vapore. Ma sento già gli strepiti: tu vuoi fare del filosofo uno scienziato! Anzi, un meccanico! Orrore!
Différance
C'è però chi ha visto nel nostro un merito non indifferente: l'aver chiarito che cosa mancava allo strutturalismo, e quindi a De Saussurre, temi come la storicità e la temporalità. Sausurre concentrò tutti i suoi sforzi sul sistema linguaggio, sulla sincronia delle parole. Derrida scoprì la dimensione diacronica, la distanza, la decontestualizzazione del testo, il suo differirsi nello scorrere del tempo.
Così abbiamo occasione di chiarire che la différance fu, secondo la D'Agostini, un analogo dello Zeitenabstand di Gadamer, ovvero la differenza temporale che ci separa dalle opere (scritte) del passato.
Sicché, ecco il punto tipicamente derridiano, la scrittura non è il segno infedele, come avrebbe voluto Nietzsche, ma l'esperienza dell'essere-linguaggio.
La scrittura sottrae il testo al suo contesto di origine e lo rende disponibile al di là del suo tempo, lo differisce.
Derrida dice différance, per simboleggiare lo scarto tra parola scritta e detta. In francese si scrive différence ma la pronuncia è simile.
Differanza ha un doppio significato: 1) tra il segno che dice ed il detto c'è uno scarto incolmabile. Il segno, e dunque qualsiasi testo scritto, lascia tracce, ma non la cosa, per così dire il contenuto. Ciò di cui si parla non è l'idea, ma la cosa, il suo essere. 2) différance è anche differire, cioè rinviare, spedire nel futuro, affidare il messaggio a qualche bottiglia, dopo aver tracannato o sorseggiato il suo contenuto, ovviamente.
Ma, questo differimento equivale a rinunciare al primato della presenza che, secondo Derrida, avrebbe caratterizzato il logocentrismo. Realizzandosi nella scrittura, la metafisica finisce così col negarsi, nascondersi. L'evento non è la presenza di Socrate che parla, ma la scoperta di un nuovo racconto su Socrate, o, udite, udite, la scoperta di uno scritto di Socrate, opera della sua propria mano. Platone detta, Socrate scrive (che è poi quello che accadde realmente).
In ogni caso il differimento opera ormai autonomamente. Accade, in senso heideggeriano, come evento impersonale.
Ciò pone un nuovo problema.
Nella scrittura avviene uno spossesamento del soggetto (lo scrivente) perché, nel fare scrittura, non sempre è chiaro che essa tradisce e supera, o riduce, le intenzioni del proprio autore.
Lo scrivente, più di ogni altro, è esposto al furto, alla contraffazione, alla deformazione. Un testo intenzionato a dimostrare A, può essere impiegato per un uso antitetico. Ma questo è proprio il gioco proprio della filosofia. O no? Sarebbe originale se il nostro Massimo Mila non avesse già detto qualcosa del genere a proposito della composizione musicale: il genio non si rende conto del capolavoro prodotto.
Leggendo un testo, non sperate di trovarvi l'essere. Niente più che tracce, simulacri, ombre.
Ma cosa fa testo?
Saggio filosofico o, anche poesia, romanzo, critica letteraria, pagina di storia, articolo di giornale, cronaca, elzeviro, lettera pubblicitaria, ricorso giudiziario?
Ovunque ci sia un'insegna, un logo, una freccia, c'è testo: Trattoria del camionista, Sannazzaro de' Burgundi, London Calling, Praha, Urania Strasse, Prater, bomboloni, British Museum, dentifricio Colgate, panettone Motta, toilette, Rete 4, la faccia di Emilio Fede, che è un sillabario.
Ma l'origine del testo è filosofica e metafisica.
E qui ebbe buon gioco Carlo Sini a decostruire Derrida: « [Derrida] non esce mai all'aperto a prendersi una boccata d'aria. Barricato dentro l'edificio e intento a smontarlo dall'interno, è come uno che, arrivato col treno in stazione, entra nella metropolitana e non ne esce più. in pratica è come se non fosse mai uscito dalla stazione: dove sarà mai la città? Legge i cartelli e le indicazioni: piazza Castello, piazza della Repubblica, via dei Giardini, corso Garibaldi... dove sono queste "cose"? Non vi è altra traccia se non quella dei loro lugubri significanti. La città è un'allucinazione.
Derrida non confida mai nell'ingenuità (in tutti i sensi) dell'esperienza. Avendo criticato, con solidi argomenti, l'appello fenomenolgico alle "cose stesse", perché inficiato da presupposto del logos e della voce platonici, ha lasciato cadere anche il senso anti-intellettualistico dell'appello stesso. Dice che l'importanza di Nietzsche consiste nel suo appello alle "operazioni", ma poi trascura di guardare le proprie, accontendandosi di presentarle come una reazione e una contromossa (peraltro disperata) alle operazioni della metafisica. Come se le categorie della metafisica fossero l'unico modo possibile di pensare la vita (ma dove e come questo è stato stabilito?), sicché la dimostrazione della loro incapacità sarebbe la dimostrazione della impensabilità della vita stessa.
E così egli crede che l'esperienza del significare, del significato e del segno (quell'esperienza che facciamo di continuo) sia unicamente determinabile entro la sua differenza tra significante e significato, e che di questa differenza non ci sia altro da fare se non mostrarla impensabile ed impossibile. La sola idea di tornare a guardare l'esperienza, il suo significare, le sue e le nostre operazioni, la sola idea di uscire una buona volta dalla metropolitana, gli sembrerebbe probabilmente e a dir poco bizzarra: per andar dove, se non c'è più terra alcuna? Ma forse la terra non è stata informata di quanto le è successo; e la città ignora di essersi completamente risolta nei segni della metropolitana.» (1)
Ma questo è solo un aspetto del problema. Chiunque abbia confidenza con testi letterari, e qui non fa ancora differenza lo stile o la capacità autorale di raccontare una totalità, un'epoca, ma solo una parte di essa, potrebbe provare una sorta di riserva: nel testo l'essere c'è, o meglio c'è sempre molto più di una traccia. A volte è sintetizzato, altre espanso. A volte è pregiudicato, altre lasciato libero di giudizio. E' solo chi cerca solo tracce che trova solo tracce. Ma, senza scendere tra le righe, senza scavare tra il bianco lasciato dal nero del segno, e senza cercare il non detto, trovi l'immediato di un racconto di umanità varia, una psicologia, una descrizionedi stati, personaggi, uno sviluppo di vicende emblematiche che riportano all'essere quale condizione esistenziale. Tutto ciò si ritrova anche nei testi filosofici, ma in forma diversa, astratta, problematizzata, ridotta a casi forse troppo generali, asciugati dall'umidità del sudore e delle lacrime particolari. Ed è su questo piano che io non capisco Derrida: è come se non avesse mai letto un romanzo, come ignorasse i suoi Dumas, Hugo, Zola, Balzac, Bernanos, Camus, perfino Sartre. Perché, ripeto, perché, in questi testi non vi sarebbero che simulacri dell'essere, e non semplicemente l'essere raccontato, la condizione umana analizzata e descritta?
Scrittura
Posti questi limiti, la scrittura non è però un esecrabile da condannare, ma una rivincita sulla parola detta e pronunciata nella presenza del discorso fatto da persona viva. Una volta superata la sciocca e limitante opposizione duale tra oralità e scrittura, che sarebbe tipica di una dualità incisa nella genetica della metafisica occidentale (materia-spirito, oggetto-soggetto ecc...) si avrà che è da ingenui dogmatici riproporre una vittoria dell'uno sull'altro, concludere che esiste una gerarchia, un primato, una vittoria definitiva. Per stare al mondo, bisogna saper parlare, saper leggere e saper scrivere. E questo s'impara poi, dopo molti faticosi pensierini. Su questo Derrida avrebbe ragione, se... se Platone non avesse fatto, nel Fedro, la stessa operazione di Derrida, quella confutazione della scrittura che apriva la via non già al dualismo, ma alla messa in questione critica di una pratica che ormai aveva preso piede, alla faccia di Socrate e del primato del dialogico. Il problema, per Platone, non era se scrivere o no. Ma su cosa scrivere, come scrivere. Dopo aver conosciuto Socrate, decise di non scrivere più poemi elegiaci ed inni dionisiaci alla sensualità ed alla vita, ma rimase ben fermo nella determinazione di scrivere e descrivere la ricerca razionale come dialogo tra chi cerca in comune una verità, una soluzione ai problemi. E decise di opporsi radicalmente a chi della dialettica fa un uso sofistico, volto a confondere ed ingannare. Ma questa fu una scelta che riguardò il solo Platone, o la sola filosofia? Pare di no. A prescindere dalla scrittura religiosa, che proprio dalla filosofia apprese a cambiare il suo stile, passando dal racconto mitico alla riflessione sul senso del mito (quantomeno con Paolo, Pietro, Giovanni e Giacomo), abbiamo che la scrittura diventa un veicolo per la trasmissione e uno strumento per approfondire, per superare il limite del dialogo e la relativa superficialità dei dialoganti, i quali, con le loro interruzioni, possono sviare dal tema.
La scrittura è quantomeno pari alla parola detta. Anche se nel mondo la percentuale di quelli che sanno scrivere (e non solo compilare un modulo o fare la lista della spesa è ancora bassissima). Leggendo Derrida, si ha l'impressione che non abbia davvero esplorato a fondo il senso, la sostanza, la pratica della scrittura. Non un gesto naturale, ma una disciplina da imparare, a volte con fatica, un disciplinarsi nella forma data, a priori, anteriormente e storicamente. Il segno non si inventa, si copia, si imita. La sintassi non si crea, si riproduce, si perpetua, si sviluppa. Stilisticamente, per dare enfasi a certe sfumature, possiamo decidere di anteporre un avverbio, di mettere il verbo davanti, di volgere il soggetto in forma passiva, possiamo un mucchio di cose giocando con principali e subordinate, ma la sintassi rimane unica, libera fino ad un certo punto, oltre il quale non c'è più un'espressione chiara e distinta, ma solo la confusione incomprensibile. Il logos, volenti e nolenti domina la scrittura, come del resto l'oralità, perchè non ha alternative. Se non c'è logos, c'è niente, solo il balbettio, la sconnessione, la frase logicamente senza senso. Per contestare il logos occorre avere il logos, o comunque una sua contraffazione, una sua parvenza.
Eppure, nonostante tali limitazioni normative e disciplinari, la scrittura ha una potenza (leggi potenziale) pressoché infinito. Non ho mai capito lo scagliarsi heideggeriano contro i limiti del linguaggio, come se le parole esistenti fossero una galera, e le regole grammaticali bricks in the wall, no more. L'uso e l'abuso le hanno consumate, d'accordo. Ma quando diciamo: "vado a casa", e quando gli yankees dicono e cantano "goin' home", abbiamo dei dubbi? Percepiamo forse in forma distorta "Mary, I'm tired, I'm comin' home" (vedi come la canta Eric Andersen, dopo averla scritta e magari capisci).
La scrittura, come del resto la parola orale, ha un'espressività. Sia Heidegger che Derrida ne hanno fatto larghissimo uso. Non si possono intendere (ed apprezzare) prescindendo dal loro stile. Ma per essi la parola scritta è come se non avesse un'intonazione, una vibrazione, un leit motiv wagneriano, un modo di esporre le cose, un pathos. Se invece di scrivere 'essere', scrivi essere, o lo barri, cosa veramente vuoi significare? Il problema è in quale contesto lo scrivi. Ma contesto che vuol dire?
Nel discorso, o nell'ambiente in cui si sviluppa il discorso?
Era questo il vero punto da approfondire? Temo di sì.
Decostruzione
Il compito del filosofo, per Derrida, consiste nel decostruire i testi , smontandoli e contraddicendoli.
Mi ha convinto questo passaggio di Diego Fusaro perché cattura la filosofia derridiana, e lo riporto per intero: « Decostruire un discorso, glossarlo, scrivere nei suoi margini un commento che lo demolisce, farne la "parodia", è mettere in crisi la sua pretesa di essere luogo della verità e nello stesso tempo smascherare chi usa questo testo per il suo potere: questo è per Derrida fare filosofia. In questo modo si capisce che il vero modo in cui si aderisce alla verità è quello del colpo di dadi ; quello in cui a caso scegli la tua opinione, decidi che in quel testo c'è l'essere (la verità): ma così facendo conferisci a quel testo un valore di verità che esso non ha. Il colpo di dadi, la decisione senza motivo, avviene perché non si è perfettamente coscienti che la verità è nello "spazio vuoto" che è in mezzo a "indecidibili opposti". E' così o cosà? Dentro o fuori? Prima o dopo? La risposta è né l'uno né l'altro, ma lo spazio che è tra l'uno e l'altro, la "sbarra" che divide l'opposizione (quando scrivo dentro/fuori metto tra la parola "dentro" e la parola "fuori" una "sbarra" trasversale: la risposta è in "quella sbarra"), l'interlinea, l'indecidibile, il qualcosa che non sopporta la decisione. Derrida cerca una via media tra nichilismo e ontologia, fra strutturalismo e metafisica della presenza e lo fa nella direzione della decostruzione del discorso basato sul testo scritto. E' in fondo una forma di apofantismo , posizione per cui la verità non può essere detta. Forse la verità si coglie ma non si può dire (già Gorgia ipotizzava che se anche l'essere potesse essere colto, non sarebbe comunicabile). E' una forma di scetticismo, seppure molto raffinato. In sintesi, dunque, per Derrida, questa strada è percorribile non costruendo nuove teorie, incentrate sulla violenza del logos che pretende di essere cogente e definitivo, ma adottando una diversa strategia di lettura dei testi, che egli chiama decostruzione e che ha avuto notevole influenza anche sulla critica letteraria...» (2)
Tutto terribilmente esatto, ma che è la verità, per Derrida e per troppi filosofi ancora?
Per me, occorre smetterla di dire che la verità non esiste. Chi lo fa avvelena anche te, digli di andare a fan... e di essere più preciso, analitico, massì, analitico ...
note:
1) Carlo Sini - Etica della scrittura - Il Saggiatore/Mondadori 1992
2) Diego Fusaro -www.filosofico.net/derrida
gm - 16 ottobre 2004