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Le prospettive post-quineane di Donald Davidson
di Loris Basini
Donald Davidson fu allievo di Quine, ma risentì anche dell'influenza del tardo Withehead. Si laureò con una tesi sul Filebo di Platone. Durante il periodo del college coltivò soprattutto passioni letterarie e nutrì grande interesse per «la storia delle idee.» L'incontro con Quine, appena giunto dall'Europa, spostò il fuoco delle sue ricerche verso la logica e l'analisi del linguaggio. Un altro nome che ricorre spesso a proposito degli anni di formazione di Davidson è quello di Clarence I. Lewis, che aveva un interesse prioritario per la logica. Lewis, secondo Davidson, era riuscito nell'impresa di legare Kant e gli empiristi attraverso un approccio originale al pragmatismo americano. Davidson, tuttavia, si è sempre guardato dal considerarsi "pragmatista", a differenza dell'altro grande erede di Quine, Hilary Putnam. Se definirsi pragmatisti significa adottare un modo particolare di guardare con almeno un po' di sospetto a tutto ciò che è metafisica, indubbiamente, Davidson può considerarsi un compagno di strada del pragmatismo. Ma, i suoi obiettivi filosofici sono meno ambiziosi. Gran parte del suo lavoro filosofico, prevalentemente tecnico, può essere definito come il tentativo di inserire, nel quadro "percettivo" dell'empirismo, il tema dell'intersoggettività, intendendo questa nei suoi aspetti etici e linguistici. Come tutti i filosofi inclini ad usare le più affinate tecniche di analisi del linguaggio, Davidson non gode di grande popolarità e nemmeno può essere affrontato senza una preparazione specifica. Il saggio Verità e significato, pubblicato nel 1967, mostra un filosofo impegnato a tentare di armonizzare la divergenza tra linguaggi naturali e formalizzati con una teoria semantica e formalmente rigorosa dei linguaggi naturali, lavorando sulla teoria della verità di Tarski e le concezioni di Quine sulla traduzione radicale.
E' noto come Tarski dovette operare una distinzione tra linguaggio oggetto e metalinguaggio per evitare i paradossi tanto frequenti nelle lingue naturali. Un conto è il linguaggio di cui ci serviamo per dire che un enunciato è vero, un altro è quello in cui lo stesso enunciato è formulato. Il primo linguaggio, elevandosi sul contesto linguistico della formulazione, è metalinguaggio vero e proprio.
Questo ragionamento conduce Davidson alla conclusione che una possibile trascrizione della formula della verità di Tarski corrisponde alla teoria della traduzione radicale di Quine. Se così è, allora diventa centrale il problema dell'interpretazione, molto più di quello della traduzione.
Ma, in Quine, sostiene Davidson, come del resto in moltissimi altri empiristi, sopravvive un carattere «cartesiano», ovvero il credere che ciascuno di noi possa costruire un mondo a partire dalle percezioni. Riconoscendo cioè che la mente e il linguaggio «organizzano» le percezioni sensoriali secondo schemi determinati. Per Davidson, sia il linguaggio che la mente sono però sono parte di un unico schema concettuale intersoggettivo, nel quale è incluso anche il «mondo». Ciò significa che se disimpariamo a parlare una lingua, oppure non impariamo a parlarla, non manterremo e non svilupperemo una capacità di pensiero. Davidson riconosce a Quine di aver salvato la possibilità di una filosofia del linguaggio proprio confutando i due dogmi dell'empirismo, in particolare la distinzione tra enunciati analitici e sintetici. Tuttavia, a parere di Davidson, lo stesso Quine finì col riproporre un altro dogma, quello del solipsismo del soggetto conoscente.
Proprio alla luce della "socialità" della conoscenza valida, Davidson afferma che il significato di un enunciato consiste nell'offrire un contesto necessario e sufficiente nel quale esso possa essere vero. C'è da notare, tuttavia che Davidson non definisce la "verità" e nemmeno il termine "vero". Il che porta alla sgradevole sensazione di essere sempre in bilico tra certezza ed incertezza circa il trovarsi davvero su qualche strada sicura., anche se un preciso supporto viene offerto dall'osservazione del mondo. Se la teoria della verità non è altro che un contesto di assiomi e circostanze che delimita le condizioni entro le quali un enunciato può pretendere di essere vero, non possiamo aspettarci granché circa le "certezze", visto che il mondo cambia vistosamente e presenta sempre circostanze diverse. Formalmente tale contesto è definito da una circostanza definita dalla logica come bicondizionale. Un qualsiasi enunciato ha senso e verità se e solo se "a" e "b", ovvero se "b" è. Il bicondizionale è vero quando sia "a" che "b" sono veri, oppure sono entrambi falsi. Non si può ammettere che un solo componente del rapporto sia falso. Comunque sia, la verità di un enunciato è decisa dal mondo e non dal linguaggio. Non basta la correttezza formale, occorre anche il requisito della controllabilità empirica.
Davidson, tuttavia, ritiene necessario anche liberare il ragionamento dall'ipoteca dell'intensione, cioè dal peso di concetti ritenuti oscuri e non perspicui come quello di "significato". In ciò, in pieno accordo con Quine.
«La paura di trovarci impelagati nell'intensionale - scrive Davidson - deriva dall'aver usato le parole "significa che" come riempitivo tra la descrizione dell'enunciato e l'enunciato, può darsi però che la riuscita della nostra impresa non dipenda dal riempitivo, ma da ciò che esso riempie. La teoria avrà fatto il suo dovere se, per ogni enunciato e del linguaggio in esame, fornirà un enunciato corrispondente (per rimpiazzare p) che "dia il significato di e (in senso ancora da specificare). Un candidato ovvio per tale enunciato corrispondente è proprio e, se il linguaggio oggetto è contenuto nel metalinguaggio; altrimenti una traduzione di e nel metalinguaggio. Come ultimo, audace passo, vogliamo cercare di trattare estensionalmente la posizione occupata da p, per ottenere ciò, eliminiamo l'oscuro "significa che", dotiamo l'enunciato che rimpiazza p di un opportuno connettivo enunciativo, e dotiamo a descrizione che rimpiazza e del suo proprio predicato. Il risultato plausibile è questo:
(V)s è V se e solo se p. » (1)
Nella teoria tarskiana della verità, V è la convenzione di considerare la formula "p è vero se e solo se p", cioè "la neve è bianca se e solo se la neve è bianca". Essa è esplicativa del concetto di verità nelle lingue formalizzate. Qualche filosofo, dice Davidson, ha fatto notare che il concetto di verità sarebbe un concetto banale. Ma questo è un errore. Forse Frank Ramsey, il giovane interlocutore di Wittgenstein, per primo, ha evidenziato che solo per alcuni contesti l'impiego di V-enunciati rappresenta un'alternativa rispetto al parlare di "verità". «I V-enunciati non servono a niente se vogliamo ottenere un equivalente di "Tutti gli enunciati proferiti da Aristotele erano falsi" o di "Quel che hai detto martedì scorso era vero".
I V-enunciati, dunque, non ci mostrano come fare a meno di un predicato di verità, ma, presi insieme, ci dicono che effetto farebbe averne uno.» (2)
Secondo Davidson, i filosofi hanno mancato di condiderare un punto decisivo; Convenzione V e V-enunciati costituiscono l'unico legame tra le verità intuitivamente ovvie intorno alla verità e la semantica formale. Senza la Convenzione V non avremmo alcun motivo per credere che la verità sia quella analizzata da Tarski. «Il merito principale della Convenzione V - scrive Davidson - è quello di sostituire un problema importante ma oscuro con un compito che un obiettivo chiaro. Dopo la sostituzione, si può capire meglio che cosa si desiderasse in partenza e si ottiene una migliore comprensione dell'eziologia del fraintendimento. La domanda originaria non è frutto di un fraintendimento, è soltanto vaga. Si tratta di questo: in che cosa consiste l'essere vero di un enunciato (o proferimento o asserzione)? Il fraintendimento incombe quando la domanda è riformulata così: che cosa rende vero un enunciato? Ma il problema serio sorge quando ciò, a sua volta, viene inteso come se suggerisse che la verità vada spiegata nei termini di una relazione tra un enunciato, preso nel suo complesso, e una entità, magari un fatto o uno stato di cose. La Convenzione V ci fa vedere come si può porre la domanda originaria senza incoraggiare queste riformulazioni. La forma dei V-enunciati indica già che una teoria può caratterizzare la proprietà della verità senza dover trovare delle entità a cui corrispondano differenzialmente gli enunciati che godono della proprietà.» (3)
Per Davidson, la filosofia del linguaggio svolge la missione di comprendere le lingue naturali. Per «lingua» si intende un sistema di segni che siano in uso corrente o che siano stati impiegati in passato. Una teoria semantica rispettabile deve potersi formulare come teoria di una lingua naturale in una lingua naturale, persino la stessa lingua. Ciò, tuttavia, conduce a paradossi, come evidenziato da Tarski. Davidson ricorre ad una citazione dello stesso Tarski per evidenziare il problema: «Un contrassegno caratteristico del linguaggio corrente - scriveva Tarski - ... è il suo universalismo: sarebbe incompatibile con lo spirito di questo linguaggio se occorressero, in un qualsiasi altro linguaggio, parole o espressioni che non si potessero tradurre nel linguaggio corrente; "se si può parlare sensatamente di qualcosa, allora se ne può parlare anche nel linguaggio corrente". Seguendo questa tendenza universalistica del linguaggio corrente nei confronti delle ricerche semantiche, dobbiamo conseguentemente ammettere nel linguaggio, accanto ai suoi enunciati ed espressioni qualsivoglia siano, anche i nomi di questi enunciati e di queste espressioni, ed inoltre gli enunciati che contengono questi nomi, come pure le espressioni semantiche quali "enunciato vero".» (4) E' evidente, dice Davidson, che se si accoglie questa prospettiva nella lingua naturale corrente, non possono non saltar fuori antinomie semantiche. Quello proposto da Tarski è un obiettivo irraggiungibile seguendo "metodi tarskiani". Come avanzare, comunque, almeno un po'? Secondo Davidson, si tratta di limitare al massimo le rinunce volontarie. Le teorie ammesse dalla Convenzione V sono le migliori in quanto possono «conferire a un predicato di verità le proprietà richieste senza far assegnamento su risorse che non si trovino già nella lingua a cui il predicato si applica. E' solo il predicato di verità stesso (nonché il predicato di soddisfacimento) che non può trovarsi nel linguaggio oggetto. E' essenziale, qui, non chiedere niente di più che una teoria della verità. Andare oltre, esigendo una definizione esplicita, non fa che aumentare la distanza fra le risorse del linguaggio oggetto e quelle del metalinguaggio.» (5)
Occorre, dunque, una semantica delle lingue naturali. In genere non si è compreso che una teoria della verità «offre una risposta precisa, profonda e verificabile al quesito su come possa una quantità finita di risorse bastare a spiegare le infinite capacità semantiche della lingua...» Le difficoltà che si presentano alla costruzione di una teoria formale della verità per una lingua naturale sono state esagerate. Il tentativo può essere fatto e risulterà «istruttivo» perché, producendo una simile teoria, «veniamo a vedere la lingua naturale come un sistema formale».
Resta da chiedersi se il tentativo operato da Davidson sia stato in grado di apportare qualche chiarimento importante. C'è subito da osservare che una delle critiche più dure è venuta da Hilary Putnam, mentre Richard Rorty, ad esempio, si è più volte speso per elogiare il lavoro di Davidson. Putnam, nel saggio Una critica della teoria semantica di Davidson ha evidenziato che il tentativo di realizzare un «interessante possibilità di modellare una teoria di una lingua naturale su quella che i logici matematici chiamano una definizione di verità per un linguaggio formalizzato» si è rivelata irta di difficoltà. (6)
Per Putnam, il tentativo presuppone l'adozione di un gruppo di regole: in primo luogo a quali condizioni ogni parola è vera di qualcosa, e in secondo luogo, a quali condizioni è vero un enunciato più lungo di una sola parola. Il tentativo di Davidson, secondo Putnam, è possibile solo se si considera uno stock finito di enunciati tipo, che siano brevi, e abbiano senso compiuto. Altrimenti occorrebbe un numero infinito di regole, e con ciò cesserebbe lo scopo.
La prima difficoltà, tuttavia, non riguarda gli enunciati, ma le stesse parole. Una parola come acqua potrebbe essere trattata così: "acqua" è vero di X se e solo se X è H2O. Ma se poniamo che una certa quantità di parlanti non sappia che "acqua" è H2O, la formula non ci direbbe proprio niente sul significato di acqua. Il che significa che in una comunità pre-scientifica "acqua" non potrebbe mai venire tradotta (cioè sostituita) con H2O.
In realtà, dice Putnam, l'espressione «non ci dice proprio niente sul significato di "acqua".» Vale solo come estensione del termine acqua; purtroppo Davidson «ci aveva promesso qualcosa di più.» Ben consapevole di questo tipo di difficoltà, Davidson ha ripiegato sulla necessità di una teoria della traduzione. «Relativizzata a una teoria del genere (relativizzata a una cosa che, è vero, ancora non abbiamo), la teoria si risolve in questo: vogliamo un sistema di definizioni di verità che sia al tempo stesso un sistema di traduzioni (di traduzioni approssimative, se non è possibile ottenerne una perfetta). Se disponessimo di una teoria che specificasse che cosa si deve intendere per una buona traduzione, potremmo scartare come priva di interesse la definizione di verità precedentemente data per "acqua", per la ragione che X è H2O non è una traduzione accettabile e neppure approssimativa di X è acqua (in una comunità prescientifica), anche se si dà il caso che è vero che l'acqua è H2O.»
Come spesso accade nella tradizione analitica, siamo sicuramente a questioni di "lana caprina" che, tuttavia, a mio parere, non sono né inutili, né noiose se alla fine siamo realisticamente in possesso della difficoltà della traduzione di un testo di una lingua ricca ed evoluta come quella dei chimici in una lingua povera come quella di chi non conosce la chimica.
Rorty, dal canto suo, non ha mancato di evidenziare il dissidio tra Davidson da un lato, e Putnam e Michael Dummett dall'altro. Divergenza, si badi, che sorprendentemente muove da una fonte comune: il rifiuto dell'atomismo logico propugnato da Russell, e da C. I. Lewis e quindi la tesi che «ogni enunciato vero debba contenere tanto il nostro contributo (sotto forma del significato dei termini componenti), tanto quello del mondo (sotto forma dei fatti sensibili).» (7) Rorty sottolinea che solo Davidson ha saputo battere la strada di una concezione «purificata e de-epistemologizzata» (purified and de-epistemologized) della filosofia del linguaggio. L'abbandono del terzo dogma dell'empirismo, cioè il dualismo di schema e contenuto, ovvero «di sistema che organizza e qualcosa che aspetta di essere organizzato», è il risultato. Davidson rimprovera Russell, Carnap e Quine di di aver ancora mischiato una teoria pura del significato con impure considerazioni epistemologiche e anche, in diversi momenti, con forme di operazionismo, verificazionismo, behaviorismo, convenzionalismo e riduzionismo. Rorty, pertanto, elogia Davidson per aver mostrato che il linguaggio funziona indipendentemente da come funziona la conoscenza. Ci sono molte buone ragioni per pensarla diversamente. Ne riparleremo.
(1) in D. Davidson - Verità e significato - Il Mulino 1994
(2) idem
(3) idem
(4) citato in Verità e significato
(5) D. Davidson, cit.
(6) Il saggio è contenuto in Mente, linguaggio e realtà - Adelphi 1987
(7) R. Rorty - La filosofia e lo specchio della natura - Bompiani 2004
LB - 1 febbraio 2007