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Benedetto Croce: la filosofia della pratica
«A differenza del conoscere che, a dispetto di ciò che insegnano le filosofie pragmatistiche, vuole il rasseneramento delle passioni e l'autonomia degli interessi immediati della vita, il volere è il momento dello spirito in cui si agitano gli appetiti, i desideri, fermentano le passioni, erompono le cupidità, che trovano espressione nell'azione. Agire è sempre prendere partito, entrare nella mischia, contrapporre passione a passione, forza a forza, volontà a volontà. Nell'azione trova radicamento mondano la realtà dello spirito, ed è da essa che questo trae il proprio nutrimento vitale; senza di essa sarebbe destinato a svanire nel nulla. E' l'azione a creare sempre nuova vita, nuove realtà.» (1) La sfera dell'attività pratica è dunque delineata come volontà e come azione, l'una non è immaginabile senza l'altra. Sarebbe astratto velleitarismo il volere e non potere o sapere agire, per l'appunto, al fine di realizzare la volontà. Ma tra scopo dell'azione e accadimento c'è uno scarto, peraltro già evidenziato da Blondel. Il risultato di ogni nostra azione non è, del tutto, e nemmeno troppo, opera della volontà, ma dell'insieme delle volontà individuali, meglio ancora, dello Spirito universale che, mediante le volontà nel loro insieme, si realizza.
L'attività pratica investe due distinti, il primo è quello dell'economia, cioè dell'utile, il secondo quello della morale. Croce rivendica l'autonomia dell'economico dalla morale e contesta che possa essere tacciata di immoralità quando è semplicemente "amorale" o "premorale". «La scienza economica - scrive - è nient'altro che una matematica applicata al concetto di volizione o azione.» (2) Dall'altro lato egli arriva anche a sostenere che la stessa azione morale non si oppone frontalmente all'interesse economico, ma lo include, perché il bene morale non sarebbe tale se non risultasse anche utile. Per Croce il concetto delle azioni disinteressate è insostenibile: «... azioni disinteressate sarebbero azioni stolte, ossia arbitri, capricci, non-azioni. Ogni azione è e deve essere interessata, e quanto più profondamente è interessata, tanto è migliore... La moralità richiede che l'individuo faccia suo interesse individuale quello dell'universale; ... ma non può non voler mai l'abolizione dell'interesse, perché tanto varrebbe tendere all'abolizione di sé medesima.» (3) Era una posizione decisamente anti-kantiana, ma il punto di vista di Croce si potrebbe spiegare col fatto che egli non credeva si potesse fissare un principio etico assoluto in modo formale. L'imperativo categorico è sempre troppo generico rispetto ai casi concreti della vita. Ed anche un principio etico che imponga di salvaguardare sempre la vita umana risulta sempre molto meno generale di quanto potrebbe apparire a prima vista, non appena si entri in un orizzonte di cause determinate e di circostanze ineludibili rispetto alle quali occorre una decisione. Il principio formale indica solo le caratteristiche che dovrebbe avere un'azione morale, cioè universalità ed autonomia, ma non arriva a dire cosa bisogna fare. Le strutture formali dell'imperativo categorico sono troppe vaghe per non adattarsi a troppi contenuti. Eppure, dice Croce, l'atteggiamento morale rispecchia senz'altro la dimensione universale della volontà. Essa non vuole una cosa perché fa comodo, ma perché ritenuta universalmente buona. Tuttavia, lo scopo che il singolo concreto vuole è sempre individualizzato, rispecchia quindi un fine specifico. la conclusione è che non esiste un fine morale uguale per tutti, ma solo finalità che vengono volute, e decise, in una forma universale. Pertanto, la vita morale non è una vocazione evidente intorno a cui è facile organizzare l'unanimità. La vita morale è essa stessa conflittuale e credere di poter realizzare l'universalità con un atto di pensiero per mettere tutti d'accordo è un'illusione. Coloro, che come Kant, hanno sognato azioni compiute solo per dovere, al di là di ogni utile personale, non hanno evidentemente visto che noi siamo buoni ed onesti o perché crediamo di accumulare tesori nel regno dei cieli, o perché proviamo sempre soddisfazione o piacere terreni, anche solo la pubblica approvazione. Il piacere non è mai totalmente in contrasto col dovere, "non può perché quei due termini coincidono, ... perché l'azione buona, in quanto tale, reca sempre soddisfazione e piacere."
Politica e diritto appartengono alla sfera dell'economia. «Il diritto, in quanto sistema di leggi, assolve la funzione, essenzialmente utilitaria, di garantire lo svolgimento ordinato della vita civile. Esso, attraverso le leggi di cui si sostanzia, riconduce a schemi generali - similmente a quanto, attraverso gli pseudo-concetti, fanno nel loro dominio le scienze naturali - le concrete volizioni umane, di per sé inconfondibile e sempre nuove, e le subordina al proprio comando.» (4)
Ma l'uomo conserva una sua irriducibile autonomia di fronte alla legge, perché «ha la memoria piena di leggi foggiate da lui e da lui accolte, pervenuto al punto dell'operare, fa una grande riverenza alle signore leggi, e si conduce di suo capo.» (5)
Eppure, la legislazione, lo stato, sono indispensabili, e non solo per motivi d'ordine. Essi infatti insegnano all'individuo a prepararsi all'agire e persino al volere. Infatti «per volere ed eseguire l'atto singolo giova di solito cominciar dal rivolgersi al generico, di cui quel singolo è caso singolo: rivolgersi, cioè, alla classe cui quel singolo è componente.» (6) Se questa è la funzione del diritto, quella della politica è forse più inquietante, perché Croce, in questo primo approccio, sulla scia di una tradizione che fa capo a Machiavelli e passa per Vico, ne offre una visione di crudo realismo: ecco quel Centauro mezzo uomo e mezzo bestia che dice: "Bisogna a uno principe sapere usare l'una e l'altra natura; e l'una sanza l'altra non è durabile". (Machiavelli, Il principe, XVIII) Croce riconosce nella forza e nella volontà di potenza le molle della storia, e si schiera decisamente contro il giusnaturalismo. La logica della politica è di natura premorale, e come tale va accettata. Gli stati sono le istituzioni in cui si esprime al più alto livello la politicità, e sono potenze perpetuamente in lotta tra loro per la sopravvivenza, cioè per prevalere l'uno sull'altro.
(1) Giovanni Fornero / Salvatore Tassinari - Le filosofie del Novecento - Bruno Mondadori 2002
(2) B. Croce - Filosofia della pratica. Economia ed etica - Laterza 1923
(3) idem
(4) Giovanni Fornero / Salvatore Tassinari - Le filosofie del Novecento - Bruno Mondadori 2002
(5) B. Croce - Filosofia della pratica. Economia ed etica - Laterza 1923
(6) idem
moses - 21 dicembre 2005