Cristo ed il cristianesimo La teologia dell'Apostolo Paolo
di Renzo Grassano
Paolo è ricordato giustamente come il principale
diffusore del cristianesimo in epoca apostolica.
Fu figura storica a tutti gli effetti e lasciò
alcuni scritti la cui autenticità è indubbia,
anche se non si possono escludere rimaneggiamenti
e "correzioni" operate a posteriori.
La Lettera agli Ebrei, di cui parlerò abbastanza diffusamente
per la sua importanza particolare, non fu
forse opera sua, ma ne rispecchia alcuni
modi di dire e le idee generali. Sicuramente
uscì, dunque, dall'indirizzo profondo che
egli aveva impresso alla prima chiesa.
Nato a Tarso, in Asia Minore, qualche anno
dopo la nascita di Gesù, da famiglia ebraica
ma di cittadinanza romana, fu educato a Gerusalemme
e frequentò la scuola farisaica di Gamaliele,
che a sua volta dovrebbe aver studiato con
Hillel. Venne cioè educato alla dottrina
farisaica dai migliori maestri di moderazione,
lo stesso ceppo di quelli che influenzarono
Gesù negli anni giovanili.
Sotto questo profilo, dunque, è per molti
aspetti inspiegabile il trovarlo tra i più
fanatici persecutori del cristianesimo.
Probabilmente non conobbe Gesù di persona,
anche se non si può escludere lo abbia ascoltato
quando insegnava nel Tempio di Gerusalemme.
Comunque non ebbe alcuna parte nella cattura,
nel processo e nell'esecuzione del nazareno.
Cominciò la sua attività pubblica qualche
anno dopo, e lo incontriamo per la prima
volta al processo contro Stefano ed alla
successiva lapidazione.
Gran parte della sua più realistica biografia
è documentata negli Atti degli Apostoli composti dall'evangelista Luca in appendice
al suo Evangelo.
Il resto si può facilmente ricavare dalle
stesse Lettere di San Paolo, che nel II° secolo d.C. vennero canonizzate,
cioè inserite nella Bibbia cristiana come
scritture sacre a tutti gli effetti.
La sua vera avventura cominciò con il famoso
episodio della caduta da cavallo sulla via
di Damasco. Recava con sé lettere del Sommo
Sacerdote di Gerusalemme che lo autorizzavano
a catturare i seguaci di Cristo per condurli
in catene a Gerusalemme.
Da allora, ricevute istruzioni direttamente
da Gesù, che gli parlava, ovviamente, "dall'altro
mondo" secondo la testimonianza dello
stesso Paolo, egli divenne instancabile ed
inarrestabile predicatore del cristianesimo.
Nessuno come lui andò così lontano nei viaggi
missionari. Nessuno come lui cercò un approfondimento
radicale e totale del mistero cristiano.
Nessuno come lui visse con altrettanto coraggio
e scarsissima considerazione di sé l'avventura
della predicazione.
Parlò sia agli umili che ai potenti, anzi
fu il primo a provare la grande impresa di
convertire re e governatori.
I suoi scritti sono ancor oggi alla base
della codificazione e della dottrina.
Il catechismo che abbiamo imparato da bambini
prima della cresima, e che non sarebbe male
ripassare nella sua ultima versione, si fonda
sulle sue più importanti acquisizioni teoriche.
Non si è autenticamente cristiani se non
si è "paolini". Ma Paolo fu anche
l'autore più contestato di tutta la storia
della Chiesa. Tutti i pensatori che in qualche
modo rifiutarono il cristianesimo fecero
puntello sugli aspetti più paradossali e
contraddittori delle affermazioni paoline.
Il solo Nietzsche se la prese direttamente
con il Cristo.
Persino io, che mi dichiaro cattolico (all'acqua
di rose) senza vergogna, ma anche senza entusiasmo,
visto l'andazzo attuale, trovo spesso imbarazzo
e difficoltà nell'interpretare il pensiero
ed il comportamento di San Paolo.
Del resto egli non fu mai accettato del tutto
nelle comunità cristiane. Fu criticato ed
osteggiato. Probabilmente fu frainteso, e
persino calunniato. Dovette più volte difendersi
e giustificarsi, contrattaccare.
Sotto un certo profilo, se si trova rispetto
ad ogni sua affermazione un punto di forza
relativo e contestualizzabile, egli ebbe
ed ha sempre ragione. Ovviamente per i credenti.
Ma questi punti vanno trovati e spesso non
è facile. Come scrisse Pietro, od un suo
successore immediato (forse un vescovo di
Roma), "le sue lettere sono un po' difficili
da capirsi."(1) Ammissione della rilevanza
dei tratti speculativi e della radicale complessità
dei ragionamenti.
Ancor oggi Paolo è un mistero, una sfida
per la ragione e persino per la fede, se
si crede che ogni buona fede non possa che riposare su un primo passo
ragionevole del tipo: "quello che mi
racconti ha dell'incredibile, ma sarebbe
sciocco rifiutarlo a priori." E' la
ragione che mi consiglia di credere.
Troviamo la teologia dell'Apostolo Paolo esposta in forma epistolare
alle diverse comunità cristiane, non in modo
organico e sistematico ma, a volte seguendo
linee apparentemente estemporanee di approfondimento
dottrinale, ed altre muovendo da semplici
spunti polemici nei confronti di affermazioni
di altri predicatori cristiani. Per essere
correttamente intesa andrebbe ricostruita
passo a passo, impresa che richiederebbe
un lavoro ed un'attenzione enormi, e che
al momento non sono in grado di produrre.
Mi limito quindi ad alcune linee molto generali,
centrando l'attenzione su sei punti fondamentali:
1) la cosiddetta "follia della predicazione"
2) la dottrina del Cristo come nuovo Adamo
( e Sommo Sacerdote che immola sé stesso)
3) il primato assoluto della fede (non c'è
altra giustificazione davanti a Dio che la
fede in Cristo Gesù)
4) la dottrina della salvezza per "grazia"
5) il dualismo carne-spirito (e la realtà
contraddittoria delle cose)
6)La dottrina politico-sociale di Paolo
La follia della predicazione
Nella parte introduttiva alla sua Storia della filosofia medioevale, Etienne Gilson riconosce in Paolo un'influenza
stoica. «... Paolo ha certamente ascoltato
le "diatribe" stoiche di cui ha
conservato il tono violento di alcune espressioni:
ma anche qui troviamo qualcosa di ben diverso
dai residui di metafisiche precedenti; due
o tre idee semplici, quasi brutali, ad ogni
modo forti, e che sono altrettanti punti
di partenza. Innanzi tutto un certo concetto
della Sapienza cristiana. Paolo conosce l'esistenza
della sapienza dei filosofi greci, ma la
condanna in nome di una nuova sapienza che
è follia per la ragione: la fede in Cristo....»
Segue la citazione di I Corinzi I 22-25,
che riportiamo pari pari:
"Gli Ebrei cercano i miracoli e i Greci
cercano la sapienza; noi predichiamo un Cristo
crocefisso, scandalo per gli Ebrei e follia
per i Gentili, ma per i chiamati, Ebrei o
Greci, potenza di Dio e sapienza di Dio.
Perchè la follia di Dio è più sapiente della
sapienza degli uomini, e la debolezza di
Dio è più forte della forza degli uomini."
Gilson commenta in modo da affermare il carattere
di doppia sfida di quest' affermazione, "che avrà lunga
eco nel Medioevo"perchè si rivolge a
filosofi, cioè a uomini che ragionano. Gilson
parla di follia della predicazione, qualcosa
che gli individui ragionevoli, cioè i filosofi
stoici (e scettici ed epicurei) del tempo
di Paolo consideravano probabilmente come
una forma di stravaganza, se non di stoltezza.
I seguaci dei filosofi, dunque, più dei filosofi
stessi (del resto non sembra che al tempo
di Paolo esistessero personalità filosofiche
di rilievo, se si escludono il giudaico Filone
di Alessandria, che morì nel 40 d.C., e Seneca),
vennero in vario modo sfidati a cogliere
la predicazione cristiana come sapienza diversa,
vera sapienza. Che tuttavia era anche follia di Dio, o come tale appariva. Purtroppo
Gilson si ferma qui e, come molti altri commentatori,
non da conto di come si possa osare di parlare di una follia di Dio.
Problema che mi sono posto ancor prima da
credente che da filosofo. La mia impressione è che,
parlando di follia di Dio, Paolo intendesse riferirsi ad una follia per Dio che è tipica di ogni predicatore di qualsiasi
religione. Essa non è sapienza razionale,
ma la sfida e la oltrepassa, non già in quanto
credenza superstiziosa, ma in quanto sapienza
fondata in una oscura regione dell'anima
e dello spirito che solo in Cristo trova
finalmente una luce, la sua luce.
E per l'Ebreo Paolo la luce non può che essere
la comprensione, finalmente, del senso delle
scritture profetiche. Esse sono realizzate
nella figura di Cristo Gesù.
La follia di Dio è la predicazione della realizzazione completa,
il compimento della Legge e dei profeti.
Analogamente, quando si accenna alla debolezza
di Dio, si deve pensare ad una debolezza per Dio che ci dovrebbe rendere più forti degli uomini forti. Siamo deboli per timore
di Dio. Siamo ancora più deboli perchè lo
amiamo.
Ma poichè il passo è ambiguo, una volta giunti
a questa possibile e plausibile chiarificazione,
il dubbio ritorna. Per Paolo c'era propriamente
una follia di Dio da intendersi letteralmente? Mi chiedo:
ma è possibile che un credente in Dio possa
anche solo lontanamente dubitare della razionalità
e della giustizia di Dio? Del suo Logos?
La dottrina del Cristo come nuovo Adamo (e Sommo Sacerdote che immola sé stesso)
Dobbiamo andare a quello che mi sembra lo
zoccolo duro della dottrina paolina per vedere
un altro aspetto della vicenda.
Il vero centro dell'annuncio (il kerigma) paolino, sta nella proclamazione forte
del sacrificio di Gesù quale riscatto dell'intera
umanità. Egli è il nuovo Adamo, e nell'Epistola agli Ebrei, diventerà il Sommo Sacerdote che immola
sé stesso quale prezzo da versare per la
nuova Alleanza tra Dio e gli uomini. Con
l'offerta del suo sangue Cristo Gesù diventa
il vero ed unico mediatore tra uomo e Dio,
colui che riscatta l'uomo dal peccato.
Nel subconscio di Paolo, comunque infarinato
di greca filosofia, questa necessità del
sacrificio assume indubbiamente il carattere
di una follia divina. Ed essa gli esplode nella bocca
e gli scoppia tra le mani che vergano le
pergamene. Com'è possibile che un Dio di
bene e d'amore per gli uomini, si abbassi fino a questo punto? Come è possibile che,
come una qualsiasi deità pagana, Dio si plachi
solo con un olocausto?
Più avanti negli anni e persino nei secoli
troveranno soluzione a questo interrogativo
alcuni padri della Chiesa. La doppia natura
del Figlio, insieme divina ed umana, ci consente
di affermare che Cristo soffrì come uomo,
nella carne, e come uomo versò il suo sangue
di uomo. Ma come Dio egli venne al mondo,
ed è solo come Dio che il sacrificio ebbe
un valore presso Dio. Non ci sono sacrifici
di uomini che possano tanto. L'Agnello ha
da essere puro e santo, Unico nel suo genere.
Di qui l'esigenza di affermare il trinitarismo,
che all'inizio fu indubbiamente una cristologia,
cioè un dualismo Padre-Figlio, un unico Dio,
ma composto da due persone distinte, con
il Figlio nella singolare posizione di "generato,
non creato". Assurdità che la ragione,
anche quella più forte ed addestrata alle
sottigliezze, faticherà sempre a comprendere.
E tanto vale, allora, parlare di mistero della Trinità. Perchè effettivamente c'è solo da perdere
la testa a confrontarsi con un simile problema.
Non capisco ma mi adeguo, aggiungendo che
non mi ritengo affatto toccato dallo Spirito
Santo e che le mie sono solo opinioni maturate
dopo studi e riflessioni. Pensieri di un
uomo in carne ed ossa.
Epperò, in Paolo la questione fu solo accennata
e mai sviluppata, almeno nelle Lettere. Egli si limitò a disegnare, ad abbozzare
un orizzonte, ma non riuscì ad approfondirlo,
a curarne i dettagli, a giustificarlo con
una dottrina non dogmatica.
Infatti, Paolo interpretò Cristo Gesù come
il prezzo del riscatto offerto per l'affrancamento
della colpa di Adamo. Non si trova, là dove
si dovrebbe trovare, ovvero tra le righe
di Romani, alcun accenno alla divinità di Cristo.
Egli fu solo "il primogenito" di una moltitudine di redenti. (Rm
8,29)
Bisogna abbandonare Romani ed andare a Colossesi per trovare un punto più alto ed elaborato,
un punto in cui si afferma: «In Lui abbiamo il riscatto, la remissione
delle colpe: Egli è l'immagine di Dio, l'invisibile,
primogenito della universa creazione, poichè
in Lui tutte le cose furono costituite, così
nel cielo come sulla terra, le invisibili
e le visibili, i troni e le signorie, i principi
ed i poteri, tutto attraverso Lui e per Lui
fu creato: ed Egli è prima di ogni cosa e
tutto si regge in Lui. Egli testa del corpo
che è la Chiesa». (Col 1,15)
Ulteriore chiarificazione in Filippesi.
«Ed Egli che pure era nella forma di
Dio, non fu geloso della sua somiglianza
con Dio, ma si annullò fino ad assumere la
forma di schiavo fattosi simile agli uomini.
Ed apparso in fattezze umane, si umiliò,
obbedendo fino alla morte, alla morte ignominiosa
della croce. Per questo Dio lo esaltò e gli
conferì un nome superiore ad ogni nome, affinchè
a tal nome ogni ginocchio si pieghi.»(Fil 2,6)
Lettera dopo lettera, passo dopo passo, predicazione
dopo predicazione, dunque, Paolo venne precisando
il suo pensiero. E tuttavia non riuscì mai
a riassumersi in una formula semplice, sintetica
e lineare. Come Mosè riuscì a guidare il
popolo alla Terra Promessa, ma morì prima
di entrarvi, perchè Dio volle che a completare
l'opera fossero i suoi discendenti (come
a dire che il merito era di Dio e che mai
nessun uomo riuscirà a completare del tutto
disegni divini da lui iniziati), così Paolo
seminò germi di dottrina, ma non li vide
germogliare nemmeno nella sua consapevolezza
finale. Stando a quello che troviamo scritto.
Del resto, una volta affermato che Cristo
fu il nuovo Adamo, il nuovo capo di una nuova
umanità redenta dalla colpa, si devono fare
i conti con evidenti e naturali obiezioni.
Basta dire che Gesù fu obbediente, ed in
questo si distinse da Adamo, il disobbediente?
Chiaro che no. La storia sacra pullula di
uomini obbedienti. Ognuno di essi, da Mosè
ai profeti, obbedì ed anche Abramo obbedì,
pur non essendo un profeta. Il criterio dell'obbedienza
non ha dunque una sufficienza di per sé.
Sarebbe bastato Noè a salvare l'umanità dal
peccato perchè egli obbedì a Dio nel momento
cruciale. Tutti gli altri erano morti. Noè
non salvò che pochi esemplari della specie
umana. Ma anch'essi, secondo Paolo, non furono
redenti. Sarà lo stesso Paolo ad affermare
che l'obbedienza alla Legge non giustifica.
Eppure, proprio a Noè, Dio diede un cospicuo
anticipo di quella che sarà la futura legge:
«Certamente del sangue vostro, ossia
della vita vostra, io domanderò conto: ne
domanderò conto ad ogni animale; della vita
dell'uomo io domanderò conto alla mano dell'uomo,
alla mano d'ogni suo fratello!
Chi sparge il sangue dell'uomo,
per mezzo di un uomo il suo sangue sarà sparso;
perchè quale immagine di Dio
ha fatto egli l'uomo» (Gn 9,5 - 9,6)
Dunque da quel preciso istante, secondo un'ovvia
logica cronologica, la Parola di Dio è operante in modo che
gli uomini sopravvissuti al diluvio abbiano
ad intenderla.
E' già operante ben prima della Legge.
Eppure, stranamente, in Ebrei non si trova alcun riferimento al valore
immenso di questo precetto che fu consegnato
al nuovo Adamo, l'Adamo intermedio tra il
primo ed il terzo, ovvero Noè.
No, l'abisso scavato tra Dio e l'uomo richiedeva
ora molto di più. Occorreva che Dio morisse per Dio e per la salvezza degli
uomini.
Forse era questo il pensiero inseguito da
Paolo e spesso afferrato per i capelli, ma
subito sfuggito, subito di nuovo inafferrabile.
Dev'essere stato duro vivere in questa perenne
tensione, in questa ansiosa ricerca. Ma era
inevitabile, proprio alla luce della sua
stessa dottrina, che l'angoscia di afferrare
la verità di Dio naufragasse a pochi metri
dalla spiaggia, sempre a pochi metri, persino
a pochi pollici.
In altre parole: ho il sospetto che Cristo
Gesù per Paolo rimase "altro" da
Dio fino alla fine della sua grama esistenza.
Vicinissimo alla soluzione, ma mai alla soluzione.
E questo, sempre che si prenda per buona
la dottrina del Sommo Sacerdote che immola sé stesso.
Ma è una buona dottrina? Era veramente necessaria
una simile formulazione?
Per gli Ebrei, forse sì. Per noi che siamo
del tutto estranei a quella forma mentis
ed a tematiche di Alleanze che si fondano
sul sangue, credo proprio di no. Probabilmente,
noi preferiamo consolarci con un'immagine
del Cristo sofferente, torturato, umiliato,
messo in croce da una masnada di delinquenti.
E ci ripugna l'idea del kamikaze imbottito
d'amore anzichè di tritolo.
Il primato assoluto della fede (non c'è altra
giustificazione davanti a Dio che la fede
in Cristo Gesù)
Anche nell'esposizione delle virtù cristiane
per eccellenza, fede, speranza e carità, Paolo cadde in una sorta di imprecisione.
Conoscendo un po' meglio la storia del cristianesimo
si troverebbe facilmente, almeno oggi, la
correzione dell'errore nella lettera di Barnaba,
o pseudo Barnaba che sia. Essa non era di
molto posteriore a quelle di Paolo, pochi
decenni e forse meno. Le tre virtù per Barnaba
erano fede, giustiziae carità. Guardando all'etimo delle parole
non si sfugge all'impressione che il ritmo
triadico cercato da Paolo quale simbolo di
una perfezione pitagorica di origine squisitamente
greca, che la parola giustizia non sia stata
trovata non per negligenza ma, per ancora
reconditi pensieri che non riuscivano a venire
alla coscienza, se non a spezzoni. La speranza
è qualcosa che è già compresa nella parola
fede. Non proprio una tautologia, non proprio
una vuota ed inutile ripetizione, ma certamente
un accessorio. Chi ha fede non può non avere
speranza, ed a volte si incontrano anche
speranze senza fede. No, la seconda virtù
cristiana, posto che la più grande sia la
carità, insegnata da Gesù con la parabola
del samaritano, è la giustizia. Lo disse
Barnaba, propagandista cristiano che fu a
lungo con Paolo prima di litigare furiosamente
con lui. Il tutto si trova rendicontato negli
Atti.
Il problema è che per Paolo il termine era
troppo impegnativo. C'è una sola giustizia,
quella di Dio. Agli uomini non è concesso
di essere giusti, nemmeno dopo Cristo.
Adamo fu cacciato dal Paradiso terrestre
perchè volle avere scienza del bene e del
male, cioè un senso autonomo della giustizia. Ma con Paolo, nemmeno dopo
Cristo si poteva pretendere di avere in sé
la giustizia. Essa è eteronoma, come ovviamente anche in Gesù, ma di per
sé nemmeno l'osservanza dei precetti divini
porta giustificazione.
Dura da capire. Eppure è così. Guai a chi
si ritiene giusto in virtù delle opere! La
Legge non ha giustificato Israele, tuonò
Paolo ancora in Romani. E non perchè, in
verità, Israele non seguì mai la Legge e
la Parola di Dio, ma perchè essa, la Legge,
di per sé era ed è insufficiente. Nemmeno
la giustizia, dunque è sufficiente.
E perchè?
Beh, questo è il punto. Da un lato è troppo
stretta e dall'altro troppo larga. L'uomo
è peccatore di natura. Sbaglia facilmente.
"Persino io mi sbaglio, voglio il bene
e faccio il male che non voglio". Quindi
chi si ritiene giustificato dalla giustizia
del suo fare è solo un presuntuoso. Il che,
rispetto a quel punto relativo che dovremmo
sempre cercare, è certamente vero. Ma il
passo di Romani in cui si annunciano queste cose non è di
chiarezza cristallina, anzi devo dire che
ho capito qualcosa solo attraverso una lunga
meditazione.
Dopo un'introduzione nutrita di corrette
citazioni (i profeti Osea ed Isaia), Paolo
arriva al nocciolo del suo pensiero affermando
in modo davvero brutale:
«Che diremo dunque? Che i pagani che
non perseguivano la giustificazione si sono
impadroniti della giustificazione, della
giustificazione che deriva dalla fede. Israele,
invece, che ha perseguito una legge di giustificazione,
non è arrivato alla legge. Perchè mai? Perchè
non l'hanno cercata dalla fede, ma dalle
opere. Inciamparono nella pietra di scandalo
come sta scritto: Ecco, pongo in Sion
una pietra d'inciampo
ed un sasso di scandalo,
e chi crederà in esso
non rimarrà svergognato. Fratelli, il desiderio del mio cuore e la
preghiera a Dio per essi tendono alla loro
salvezza. Do infatti loro atto che hanno
zelo per Dio, ma non secondo una retta conoscenza.
Non volendo infatti riconoscere la giustizia
di Dio e cercando di far sussistere la propria,
non si sono sottomessi alla giustizia di
Dio. Infatti il compimento della legge è
Cristo per portare la giustificazione ad
ognuno che crede. Mosè infatti scrive riguardo
alla giustizia quale proviene dalla legge:
l'uomo che la metterà in pratica vivrà in
essa. La giustizia che viene dalla fede dice così: Non dire in cuor tuo: Chi salirà al cielo?
nel senso di farne scendere Cristo, oppure: Chi scenderà nell'abisso?
nel senso di far risalire Cristo dai morti.
Ma che dice? La parola è vicino a te, nella tua bocca
e nel tuo cuore.
E questa è la parola della fede che noi proclamiamo:
se tu professerai con la tua bocca Gesù come
Signore, e crederai nel tuo cuore che Dio
lo ha resuscitato da morte, sarai salvato.
Col cuore infatti si crede per ottenere la
giustificazione, con la bocca si fa la professione
per ottenere la salvezza. Dice infatti la
Scrittura: Chiunque crederà in lui non rimarrà confuso. Infatti non c'è distinzione tra Giudei
e Greci; poichè lo stesso è il Signore di
tutti e spande le sue ricchezze su tutti
coloro che lo invocano, e chiunque avrà invocato il nome di Dio sarà
salvato.» (Rm 9,30 - 10,13)
Da qui in poi, Paolo non fa che rimproverare
ai Giudei la loro incredulità, quindi la
mancanza di fede in Gesù. E siccome era fermamente
convinto che solo Gesù fosse la salvezza,
i passi successivi non mancano di chiarezza
e coerenza.
Ma il complesso ragionamento sopra citato
è ambiguo ed enigmatico, innanzi tutto perchè
manca di prospettiva storica. Israele non
ha trovato giustificazione non già perchè
la Legge era insufficiente (e questo sembra
invece dire Paolo), ma perchè pochi l'hanno
messa in pratica. E' da quest'inosservanza,
mancanza di fedeltà alla Parola di Dio, e non di fede che nasce
la confusione, il dramma, la caduta di Israele.
Altrimenti non si capiscono i profeti e la
loro necessità. Tutti i libri profetici non
sono altro che l'ininterrotto lamento del
giusto obbrobriato e disgustato dal comportamento
di re e di popolo. E gli ultimi dicono che
proprio non se ne più, tanto è grande l'ignominia.
Solo così si comprende anche il ruolo di
Giovanni il Battista, l'ultimo dei profeti.
In secondo luogo non priva di ambiguità è
anche la citazione di Mosè. Come se la Legge
fosse opera dello stesso Mosé e non Parola
di Dio.
Superata questa impasse che comunque non
cessa di dare da pensare, Paolo si può finalmente
riassumere. Chiunque osservi solo i comandamenti
morali, e non importa se per timore della
punizione o per convinta adesione interiore,
non trova giustificazione presso Dio. Da
adesso in poi, solo chi professa Cristo come Signore sarà
giustificato. E non ha alcuna importanza
donde venga, se sia Ebreo, Romano o Persiano.
Il lato religioso-cultuale prevale su quello
pratico-morale. Come a dire: prima dimmi
se credi, il resto è di secondaria importanza.
E' questo il punto sul quale un qualsiasi
filosofo razionale avrebbe molto, moltissimo,
da ridire. Stoici, epicurei, filoniani, in
fondo non fa differenza. E potrebbero obiettare
a Paolo persino muovendo dal Vangelo. Se
l'albero è buono, lo si riconosce dai frutti
che dà. E se a qualcuno è stato affidato
un talento, il Signore glie ne chiederà conto.
Non conosco persone che abbiano ricevuto
solo il talento della fede.
Paolo affrontò la stessa questione, più o
meno negli stessi termini, in diverse occasioni.
In Galati, ad esempio, una lettera composta tra il
56 ed il 57 d.C., egli scrisse:
«E allora, perchè la legge? Essa fu
aggiunta a motivo delle trasgressioni, finchè
non giungesse il seme oggetto della promessa,
promulgata per mezzo degli angeli, tramite
un mediatore. Ma un mediatore non esiste
quando si tratta di una persona sola; e Dio
è uno solo. La legge allora va contro le
promesse di Dio? Non sia mai detto! Se infatti
fosse stata data una legge capace di dare
la vita, la giustificazione si avrebbe realmente
dalla legge. Ma la Scrittura ha chiuso tutte
le cose sotto il peccato, affinchè la promessa
fosse data ai credenti per la fede in Gesù
Cristo.
Prima che venisse la fede, noi eravamo custoditi
come prigionieri sotto il dominio della legge,
in attesa della fede che sarebbe stata rivelata.
Cosicchè la legge è divenuta per noi come
un pedagogo che ci ha condotti a Cristo,
perchè fossimo giustificati dalla fede. Sopraggiunta
poi la fede, non siamo più sotto il dominio
del pedagogo.» (Ga 3,19 - 3,25)
Per Paolo la fede è sempre il momento cardinale. Fino al punto che
non esitò nemmeno a cambiare le parole dei
passi citati dalla Bibbia per dare forza
ai propri discorsi.
Citando il profeta Abacuc, che scrisse: il giusto vivrà per la propria fedeltà al
Signore ed alla sua Legge, Paolo sostituì la parola fedeltà con la parola fede. Il giusto vivrà in forza della fede.
E' un gesto che si commenta da sé.
E la stessa disinvoltura ritorna in Ebrei, in modo molto più diffuso. Mettendo in
un unico mazzo Abele, Enoch, Abramo, David,
i profeti, Noè, Barak, Sansone... Sara, egli
vide ed esaltò solo la loro fede, tipico
di Paolo.
Persino troppo facile controbattere, lo farà
Giacomo, capo della corrente cristiano-giudaica,
asserendo che ciò che giustificò i vari personaggi
biblici fu la loro obbedienza, cioè la loro fedeltà al Signore. E che obbedienza significa azione,
cioè opere e comportamento.
Ma Paolo ha un partito preso, la priorità
della confessione di fede, e quindi procede
senza scrupoli. Sicchè incontriamo un'autentico
gioiello di esegesi: « Per fede Abramo messo alla prova offrì Isacco...
Egli pensava infatti che Dio è capace di
far resuscitare i morti.» (Ebrei 11,17 - 11,19)
Qui, ancora una volta, la prospettiva storica
è completamente stravolta. Gli Ebrei cominciarono
a credere alla sopravvivenza dell'anima in
epoca molto tarda, in ragione di influenze
provenienti da culture e religioni esterne.
In tutto l'antico testamento non ci sono
passi espliciti che rinviino ad una simile
credenza. La frase ricorrente alla morte
di qualcuno è che si coricò con i padri. Per la verità, c'è un passo, in Genesi
5, 24, che dice qualcosa di diverso: «Enoch camminò con Dio e non ci fu
più, poichè Dio lo rapì.» E' l'unico indizio. Ma più che di morte
cui seguì una sopravvivenza dell'anima od
una resurrezione, farebbe pensare ad un'ascesa
in cielo del tutto singolare, un premio assegnato
ad un uomo del tutto particolare. Però anche
l'Adamo intermedio, ovvero Noè, conobbe la
corruzione e la morte.
Mi ha molto colpito l'intepretazione che
ha dato Gabriel Josipovici di questo infelice
passaggio. E' utile citarla per intero. «Una
sfilata grandiosa ed affascinante, ma che
inevitabilmente lascia alquanto perplessi
i lettori dell'A.T. Come leggiamo il capitolo
non possiamo evitare di domandarci se corrisponde
alla nostra memoria del testo. E proprio
tutto quanto si può dire di quelle persone?
Ci rammentiamo di Sara che ride dentro di
sé quando origliando il colloquio fra Dio
ed Abramo apprende che concepirà un figlio,
una scena tanto rilevante da essere perpetuata
nel nome del figlio, Isacco; pensiamo agli
anni giovanile di Mosè; ci tornano alla mente
i tremendamente complicati e ambigui rapporti
di Davide con Dio.... e riflettiamo: tutto
questo può essere rubricato sotto la solo
voce fede? E non è sufficiente rispondere
che la fede fu l'elemento dominante della
loro vita e che evidentemente l'autore della
lettera agli Ebrei non intendeva riprendere
per intero le scritture ebraiche. Non è sufficiente
proprio perchè il riso di Sara e la passione
di Davide per Betsabea ci impediscono di
compendiare la loro vita e i loro rapporti
con Dio in un unico concetto. Le storie della
Bibbia ebraica sembrano per lo più destinate
a lasciarci in una sconcertante ma feconda
ambiguità: hanno evidentemente un significato,
non sono pura e semplice cronaca di fatti:
eppure stranamente, il significato è insito
in esse più che essere un qualcosa che noi
possiamo estrarre da esse. Giacobbe non è necessariamente migliore
o più credente di Esaù, riesce difficile
non biasimare Giuda, i peccati di Davide
sono altrettanti o più numerosi di quelli
di Saul. Eppure questi e non altri sono scelti.
Perchè ci domandiamo, e ci pare che questa
sia la precisa domanda che quelle storie
ripetutamente attendono da noi. Ebrei, dando un'interpretazione, annulla la domanda.»
(2)
Come non essere d'accordo? Tanto più che
con questa pretesa della fede che tutto spiega,
sia la storia che il suo intricato spessore
umano perdono la drammaticità, e rendono
persino il dolore e le lacrime inutili al
limite della farsa. Perchè mai Abramo dovrebbe
dolersi del sacrificio di Isacco se tanto
credeva che Dio lo avrebbe resuscitato? E
perchè non avrebbe dovuto dubitare di un
Dio che prima gli promise una discendenza, e dopo che
l'ebbe, subito glie la tolse? Che diavolo
d'un dio era questo che manco manteneva le
promesse? E, soprattutto, perchè, perchè,
perchè, dopo il passo citato in Gn 9,5, contenente
il comandamento di non uccidere, Dio pretese
da Abramo il sacrificio di Isacco? Che diavolo
d'un dio era questo che smentiva e tradiva
persino i suoi comandamenti.
Ci vorrebbe un volo pindarico della ragione
per spiegare tutto ciò.
La dottrina della salvezza per grazia
Uno dei punti cardine della predicazione
paolina la troviamo espressa in Efesini. Essa si può definire come una conseguenza
del principio Dio può tutto, tutto quello che accade è
volontà di Dio, ergo anche la conversione al cristianesimo,
che è l'unica via di salvezza, è frutto della
volontà di Dio. L'uomo che gode del privilegio
di conoscere l'insegnamento di Cristo e di
accettarlo, non si è salvato da solo, non
ha fatto uso della sua ragione e della sua
libertà, ma è stato salvato (altri diranno
predestinato alla salvezza). All'uomo, dunque, nessun
merito. Non lo può salvare il buon comportamento,
non lo può salvare il suo istintivo senso
della rettitudine, e nemmeno la sua formazione
etico-filosofica. Nemmeno l'accettazione
del mistero cristiano è merito suo.
Nel corso del tempo questa dottrina sarà
ulteriormente estremizzata, a partire da
Agostino, e poi dai pensatori protestanti,
sia da Lutero che, ancora più estremisticamente,
da Calvino. Verrà combattuta da Pelagio,
verrà di molto annacquata dalla Chiesa Cattolica,
e sarà osteggiata da Erasmo da Rotterdam,
il quale disputerà con Lutero a proposito
del "libero arbitrio".
Pochi si sono accorti che riducendo l'uomo
a poco più di un bambino in balia degli eventi
e della presunta volontà divina, gli si leva
ogni merito, ma si finisce col sollevarlo
anche da ogni responsabilità. Se non ci sono
giusti per meriti acquisiti, allora non vi
sono nemmeno criminali ed assassini per demeriti
e libera scelta. Una simile sciocchezza non
poteva essere accettata dalla Chiesa cattolica,
soprattutto quando divenne religione ufficiale
prima, e Chiesa di governo poi. E se questa
è una delle ragioni storiche per cui la Chiesa
cattolica dovette ammettere la dottrina del
libero arbitrio, un'altra andrebbe certamente
ravvisata nella lenta e progressiva valorizzazione
della ragione, culminata nella filosofia
di San Tommaso.
Il dualismo carne-spirito
Chi professa Gesù Cristo come nostro salvatore
è già un uomo spirituale di per sé?
A Paolo sembra di sì. Però la cosa è fatalmente
contraddittoria.
A leggere le lettere si ha l'impressione
di un uso alternato di carota e bastone.
A fragorosi proclami di grandezza spirituale
ed un po' ipocriti riconoscimenti di meriti
alle varie comunità cristiane, seguono ammonimenti
pedanti a non ubriacarsi, a non fornicare,
a non dire bugie, non rubare e così via,
che fanno a pugni sia con l'asserto del primato
della fede che con quello dell'ormai avvenuta
conquista della spiritualità. Insomma, si
finisce col chiedere opere e comportamenti
coerenti con la professione di fede proprio
agli spirituali. Un po' ridicolo, no?
Se davvero tra i fratelli si mentiva, si
rubava, si fornicava e ci si ubriacava, era
evidente che la trasformazione da chiesa
di quadri puri e duri a chiesa di massa aveva
comportato qualche prezzo da pagare. Cani
e porci erano entrati nel sacro recinto e
faticavano non poco a trasformarsi in persone
rette. Così si comprendono le riserve sollevate
dalla corrente di Giacomo e l'azione sobillatrice
di alcuni Giudei convertiti che passavano
di comunità in comunità a confutare quanto
Paolo aveva proclamato, ovvero a richiedere
l'osservanza della Legge, essendo insufficiente
per loro la recitazione rituale di un credo.
Crebbero le incomprensioni e nacquero feroci
polemiche proprio tra i quadri, per usare
un'espressione moderna.
Molte lettere paoline contengono denunce
accorate contro questi superapostoli dell'ortodossia
giudaico-cristiana. La ragione, come spesso
accade, stava da entrambe le parti, almeno
un po', ma per una serie di sviluppi storici
ancora tutti da decifrare, Paolo ebbe partita
vinta e la corrente giudaico-cristiana si
sciolse come neve al sole già prima della
rivolta giudaica e la distruzione del tempio
di Gerusalemme attuata da Tito, figlio di
Vespasiano. Giacomo fu ucciso durante una
persecuzione, Pietro e Giovanni erano in
giro per il mondo, al pari di Paolo. Di tutti
gli altri Apostoli, ad eccezione di Giacomo
Zebedeo ucciso a sua volta, si persero le
tracce, anch'essi svaniti nel nulla.
Vincitore indiscusso, con forza sovraumana
e volontà incrollabile, Paolo continuò a
proclamare le sue più profonde convinzioni.
Nella II lettera ai Corinzi abbiamo un passo veramente esemplare: «L'amore di Cristo ci spinge al pensiero
che uno morì per tutti e quindi tutti morirono;
e morì per tutti affinchè quelli che vivono
non vivano più per sé stessi, ma per Colui
che è morto e resuscitato per loro. Quindi
ormai non conosciamo più nessuno secondo
la carne; ed anche se abbiamo conosciuto
Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo
più così. Quindi se uno è in Cristo è creatura
nuova; le vecchie cose sono passate, ecco,
ne sono nate di nuove!»
Qui, quando Paolo parla di una conoscenza
secondo la carne, probabilmente voleva dire secondo criteri
esteriori e, per così dire, "romanzeschi"
e "narrativi". Ora, però, noi che
professiamo Gesù come salvatore, è come se
fossimo morti con lui, e dunque resuscitati
con lui.
Nella lettera ai Galati la vita spirituale conquistata in Cristo
diventa sinonimo di libertà ed è contrapposta
alla schiavitù della legge, la quale è la
semplicistica espressione di una norma esteriore
per mettere un freno alla carne.
«Ora vi dico: camminate nello Spirito
e allora, non seguirete le bramosie della
carne. La carne infatti ha desideri contro
lo Spirito, lo Spirito a sua volta contro
la carne, poichè questi due elementi sono
contrapposti vicendevolmente, cosicchè voi
non fate ciò che vorreste. Ma se siete animati
dallo Spirito, non siete più sotto la legge.
Ora le opere proprie della carne sono manifeste:
sono fornicazione, impurità, dissolutezza,
idolatria, magia, inimicizie, lite, gelosia,
ire, ambizioni, discordie, divisioni, invidie,
ubriachezze, orgie e opere simili a queste;
riguardo ad esse vi metto in guardia in anticipo,
come già vi misi in guardia: coloro che compiono
tali opere non avranno in eredità il regno
di Dio.
Invece, il frutto dello Spirito è amore,
gioia, pace, longanimità, bontà, benevolenza,
fiducia, mitezza, padronanza di sé; la legge
non ha che fare con cose del genere. Coloro
che appartengono al Cristo Gesù crocifissero
la carne con le sue passioni ed i suoi desideri.»
(Ga 5,16 - 5,24)
La dottrina politico-sociale di Paolo
E' in Romani che il pensiero di Paolo sul ruolo dei cristiani
nella società comincia a prendere corpo e
consistenza dottrinale. Posto che a Paolo
interessasse ben poco fare del cristianesimo
un movimento politico tout court, visto che
la sua preoccupazione fondamentale era quella
di salvare delle anime attraverso la conversione,
in attesa della parusia immenente, cioè del
ritorno di Cristo sulla terra, rimane che
ad un certo punto della sua riflessione si
trovò ad esplodere in due affermazioni molto impegnative. La
prima riguardava il rapporto tra cristiani
e le autorità politiche.
La seconda interessava addirittura il problema
della legittimità del potere: secondo Paolo,
è Dio che costituisce le autorità. L'ordine della società civile,
amministrativa e politica, qualunque esso
sia, è l'espressione della volontà di Dio.
Non è un pensiero che soddisfi più di tanto,
per la verità, perchè nel bene e nel male,
la conseguenza di questa affermazione è che
anche i rivoluzionari che abbattono i regimi
e riescono nell'impresa, fanno la volontà
di Dio. Come poi nell'ordalia medioevale:
chi vince, ha ragione per decreto divino?
Eppure questo fu uno dei più duraturi insegnamenti
paolini.
Se i cristiani si comportano bene, e fanno
del bene - scriveva l'Apostolo - non potranno
che incontrare l'elogio delle autorità. I
magistrati fanno paura solo a chi opera il
male. Una simile affermazione cozzava non
solo con l'esperienza concreta di Gesù (quanto
bene aveva fatto e com'era stato ripagato?)
ma con tutta la vicenda degli altri. Stefano,
Pietro, Giacomo. Una serie ininterrotta di
martiri, processi, prigionie e persecuzioni.
Lo stesso Paolo era stato prima al servizio
dell'autorità del tempio, come persecutore,
poi perseguitato.
Come si spiega?
L'unica spiegazione probabile ed assennata
deve far leva su quella che dovremmo considerare
come una svolta, a meno che non si consideri il nostro Paolo
come un demente forsennato. Quando Paolo
scrisse queste righe, doveva essere in possesso,
non dico di un concordato tra stato e chiesa, ma certo di un qualche
solenne impegno da parte di qualche figura
importante dell'impero. Ipotesi? Se ne può
fare una sola: il rapporto maturato a Pafo
in Cipro con il proconsole Sergio Paolo,
che l'autore degli Atti definì uomo intelligente. Vedasi Atti 13,4 e seguenti. L'incontro col proconsole
avvenne nel 46-47 d.C.
Sarà un caso che l'Apostolo decise di farsi
chiamare Paolo proprio in conseguenza di
quell'evento? E perchè Giovanni (quale Giovanni?
I commentatori dicono Giovanni-Marco, cioè
l'evangelista Marco) si separò da Paolo per
tornare subito a Gerusalemme? E perchè, proprio
a seguito del comportamento dell'evangelista,
Barnaba e Paolo litigheranno?
Comunque sia, se si ritiene che questo sia
un enigma ancora irrisolto, è qui che bisognerebbe
cercare, nelle carte della diplomazia paolina.
Io sono propenso a credere che al di là di
un possibile pre-concordato, Paolo facesse
molto conto sulla conversione di pezzi grossi
quali appunto il proconsole.
L'Apostolo, probabilmente, scriveva una delle
più sbagliate e tragiche profezie della storia
persuaso di poter godere per sé e soprattutto
per la chiesa di una certa protezione. In
quel momento si trovava a Corinto e si era
nell'anno 57 d.C.
La prima persecuzione contro i cristiani
di Roma venne avviata dopo l'incendio ordinato
da Nerone nell'anno 62. Sotto l'imperatore
Claudio, esattamente nel 49 d.C., è però
vero che vennero espulsi Giudei considerati
ospiti indesiderati. Ne parlò Svetonio nella
Vita Claudii. Ma c'è una bella differenza tra espellere
(o rimpatriare) e perseguitare.
Sembra che Claudio fosse preoccupato dalla
crescita geometrica della comunità giudaica,
che nelle grandi città dell'impero, in particolare
ad Alessandria, andava a formare una minoranza
etnico nazionale impenetrabile e compatta,
del tutto restia a cancellare usi e costumi
ed integrarsi nella comunità.
Non c'è dunque continuità tra la misura repressiva
di Claudio e la successiva persecuzione neroniana.
Semmai, come provato, sotto Nerone si ebbe
dapprima una riapertura di credito nei confronti
degli Ebrei, protetti da Poppea.
Poi cominciò la tragedia che toccò direttamente
lo stesso Paolo. Ma questa è un'altra storia. Note
1) La seconda lettera di Pietro. NT.
2) Gabriel Josipovici - Come leggere la Bibbia - Rusconi
DLG - 7 dicembre 2003 , rivisto il 24 febbraio
2004