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Autoconsapevolezza della filosofia analitica
di Loris Basini

Si può raggiungere la metà della consapevolezza di sé semplicemente valutando la filosofia degli altri? Diciamo che è un modo per autocomprendersi, un tentativo sensato in una direzione precisa. Alla fine potremmo trovarci a esclamare: "ma io non sono così!" L'operazione non è inutile.
Kevin Mulligan, dopo circa un secolo di prassi analitica, ha provato ad esaminare la filosofia continentale da un punto di vista analitico. Essa è «oscura è oscurantista», «più vicina al genere letterario che a quello filosofico.» Spesso manca di argomentazione, capacità di distinzione e non sa fare esempi. E' «problemofoba» nel senso che se chiedi ad un continentale su cosa sta lavorando non riceverai mai una risposta chiara del problema che lo interessa. Ovvero, non sa cosa esattamente sta cercando, ma sta cercando e per adesso l'oggetto del cercare è indicibile. Probabilmente è più interessato ad una rivelazione, ad una mela cadente dal cielo che ad una soluzione "logica"di quello che lo assilla.. Potrebbe però dire «che la filosofia continentale è venuta in auge nel mondo anglofono perché sembrava trattare cose che la filosofia analitica aveva chiaramente affrontato in modo fallimentare: la natura dell'interpretazione testuale, questioni estetiche e tutta una serie di temi di filosofia sociale e politica.» (1)
«Che "il vero metodo della filosofia non sia altro che quello delle scienze naturali" fu uno slogan che tutti gli allievi influenti di Brentano - Twardowski, Husserl e Meinong - avevano ben familiare. Sebbene i criteri per identificare i problemi e gli argomenti non siano assolutamente auto-evidenti, credo sia assai difficile trovare degli argomenti negli scritti di Heidegger, Adorno, Lacan o Serres. E anche quando si fosse trovato un qualcosa che ci fa pensare ad un'argomentazione ("anche", "dunque") l'argomentazione e il problema trattato raramente sono dichiarati tali, sia dal filosofo in questione che dai suoi adepti o dai suoi nemici. I filosofi parigini, per esempio, hanno scritto parecchio sulle strutture e sullo strumentalismo e sulla loro relazione con il soggetto e la storia, ma è estremamente difficile trovare un'argomentazione consequenziale o stabile su ciò che una struttura linguistica o antropologica potrebbe essere.» (2)
Da queste poche battute si evince quale sia il problema per Mulligan. Potrei continuare da solo sulla sua linea di ragionamento. Però mi procuro una digressione utile. Ho sotto gli occhi un testo di Alberto Gianquinto: La filosofia analitica con sottotitolo L'involuzione della riflessione sulla scienza, edito da Feltrinelli nell'ormai lontano 1961. Gianquinto vuole dimostrare che c'è stata un'involuzione e non un'evoluzione della filosofia analitica. Evidenzia come ciò sia dovuto al carattere "borghese" di questa filosofia, alla sua stretta connessione «con l'irrazionalismo della filosofia del capitalismo contemporaneo e con le premesse storiche dell'irrazionalismo stesso, nell'ambito dell'epistemologia.»
Non pago di queste acutissime osservazioni - Gianquinto prosegue - «La filosofia analitica si fa "strumento" di egemonia; ma l'organizzazione della cultura che la esprime non è una realtà univoca, sicché essa si differenzia, lungo lo sviluppo delle sue fasi fino all'atto della simbiosi con il pragmatismo americano, nell'incontro con le diverse realtà nazionali. Le "scuole", infatti, sono caratterizzate fra loro dall'assimilazione di elementi delle tradizioni culturali nazionali e assoggettate alle specifiche condizioni politico-economiche in cui hanno avuto modo di prosperare.» Nelle note a margine si legge ad ulteriore commento che «in Polonia le scuole di logica formale hanno rappresentato i centri culturali delle aspirazioni nazionalistiche, sebbene Twardowski si sia fatto esponente, a cavallo del secolo, della reazione al predominio della filosofia sociale rappresentata dal cattolicesimo.» Non diversamente, in Inghilterra, «attraverso la mediazione di Russell e Wittgenstein, di Ryle e F. Waissman, la filosofia analitica ha assunto la forma specifica di analisi del linguaggio ... più consona alla tradizione moderata e aristocratica della democrazia inglese.» Credo con ciò di aver scovato un esempio di come non si dovrebbe fare la storia della filosofia analitica ed invece la si è fatta, contribuendo così a confondere non poco le idee a chi era disposto a recepire, in un luogo refrattario come l'Italia, gli stimoli e le sollecitazioni provenienti dall'Europa e dagli Stati Uniti.
Tra un tipo come Mulligan ed uno come Gianquinto si potrebbe così realizzare il classico dialogo tra sordi, ma non mi sembra azzardato avanzare l'ipotesi che Mulligan uscirebbe dal confronto con i timpani usurati, dovendo compiere uno sforzo di ascolto e "comprensione" assai maggiore di quello di Gianquinto. Quello di quest'ultimo è infatti il classico comizio davanti ai cancelli della Statale. Il bello è che questa sequela di asserzioni prive di argomenti non manca di qualche considerazione storica fondata, ad esempio quella relativa a Twardowski. Ma far passare Russell per mediatore tra analisi e gli aristocratici moderati di Oxford e Cambridge è da manicomio dato l'estremismo etico-politico del nostro Bentrand, sicuramente a sinistra di Gianquinto. Gianquinto se la tira da analitico sofisticato, più analitico degli analitici, il "vero" analitico, ma il suo modo di procedere è assolutamente continentale, degno della migliore tradizione della epistemologia romantica di uno Schelling, innaffiata con robuste dosi di vetero-marxismo.
Eppure, proprio riflettendo sulle grossolane considerazioni di Gianquinto, mi è venuto di pensare che in fondo egli avesse qualche ragione non ideologica per sostenere il "carattere borghese" della corrente analitica in filosofia. Una di queste è sicuramente la "non-popolarità", che è diverso dal dire "impopolare", cioè "inviso alle masse". Il filosofo analitico non scrive per il pubblico, per l'uomo della strada e le casalinghe di Voghera, ma per altri filosofi, e nemmeno per tutti. E' chiuso nelle stanze spesso anguste delle università e delle accademie. Non solo, nemmeno scrive per un pubblico intellettuale e scientifico ristretto. Conosco matematici che rifiutano a priori qualsiasi lettura di filosofi come Quine o Davidson. Gli stessi Russell e Wittgenstein sono più una leggenda che una realtà intellettuale assimilata. Tutta la vicenda della filosofia analitica costituisce un sommerso, una sorta di giacimento le cui dimensioni e il cui "valore" sono ancora in gran parte da scoprire persino dagli stessi filosofi analitici.
Solo alcuni di questi godono di una relativa popolarità, cioè filosofi che come Rawls hanno lavorato su un tema politicamente concreto come la teoria della giustizia, oppure come Russell, che ha prodotto molti libri di filosofia popolare e divulgativa assolutamente disprezzati da Wittgenstein e da molti altri analitici. Quanto a Rorty, è facile osservare che la sua attuale popolarità è direttamente proporzionale al suo grado corrente di non analicità.

Berlin
Ma anche l'approccio di Mulligan rischia di risultare semplicistico. Non è solo guardando agli altri che noi ci facciamo un'idea realistica di noi stessi. Dobbiamo guardare a dove siamo arrivati. Sotto questo profilo i filosofi analitici che maggiormente hanno contribuito alla causa sono probabilmente Rorty, Putnam e Dummett. Il primo abbandonando il campo. Il secondo rivedendo troppe volte le sue posizioni, sia pure in modo intelligente e stimolante, per poi approdare ad un "realismo dal volto umano" che segna per molti aspetti un ritorno a Kant. Il terzo tornando in un certo senso da capo e rifacendo il percorso come per trovare un anello perduto nella concatenazione dei ragionamenti.
Anche Isaiah Berlin, prima di volgersi alla storia delle idee, dice a mio avviso qualcosa di significativo, che non significa "condivisibile". Vuol solo dire che sa spiegare il suo punto di vista con non trascurabile chiarezza. Partirei da Berlin. Nella prefazione scritta nel '78 al volume Il fine della filosofia ricorda l'incontro col logico matematico H. M. Sheffer di Harvard e riporta quanto gli disse: «.. a suo parere esistevano soltanto due discipline filosofiche su cui si poteva fare affidamento per una crescita della conoscenza: una era la logica, nella quale le nuove scoperte e le nuove tecniche soppiantavano le vecchie - un campo di conoscenza esatta, in cui si riscontrava un autentico progresso, non diversamente che nelle scienze matematiche e nella matematica; l'altro era la psicologia, che egli considerava ancora in qualche modo filosofica - uno studio empirico e ovviamente capace di un saldo sviluppo.» (3) A parere di Sheffer la filosofia era stata «danneggiata» gravemente dai positivisti logici, «influenzati dai logici simbolici come lui» e il tipo di lavoro svolto da Carnap &Co «lo disgustava.» Sheffer era filosoficamente un adepto dell'idealismo di Royce e questo spiega il suo atteggiamento antiempirista non alieno da estremismo. Berlin non lo condivide, tuttavia non lo respinge completamente. «Nei mesi successivi mi chiesi se intendevo dedicare il resto della mia vita a uno studio che, per quanto affascinante e degno di di per sé, nonostante le indubbie trasformazioni apportate dai suoi risultati, non avrebbe aumentato l'insieme della conoscenza umana positiva. A poco a poco giunsi alla conclusione che avrei dovuto preferire un campo in cui si potesse sperare di conoscere, al termine della propria vita, di più di quanto non si conoscesse all'inizio della ricerca; e così lasciai la filosofia per la storia delle idee, che da molti anni mi affascinava.» (4) Congendandosi dall'analisi, Berlin lasciava comunque in eredità dei testi "analitici" molto interessanti, come i saggi La verificazione (5), Proposizioni empiriche e asserzioni ipotetiche, La traduzione logica, Il concetto di storia scientifica. Nel saggio Il fine della filosofia Berlin sostiene l'esistenza di due ceste originarie della filosofia, quella empirica e quella formale. Ma tra di esse esiste una terza cesta in cui «vivono tutte quelle domande che non possono essere fatte rientrare facilmente nelle altre due. Queste domande sono della natura più diversa; alcune sono domande sulle parole e su certi simboli; altre sui metodi seguiti da coloro che li usano: scienziati, artisti, critici, uomini comuni impegnati nelle normali faccende della vita; altre ancora riguardano le relazioni che intercorrono tra i vari territori della conoscenza; alcune hanno a che fare con i presupposti del pensiero, altre con la natura e i fini dell'azione morale, sociale o politica.» Caratteristica comune alle succitate domande è che non si può rispondere a ciascuna di esse né osservando, né inferendo, né calcolando. Chi pone queste domande non sa dove trovare le risposte. «Tali domande di solito sono chiamate filosofiche. Gli uomini comuni le considerano con disprezzo o soggezione o sospetto, a seconda del loro temperamento. Per questo motivo, se non per altri, c'è una naturale tendenza a cercare di riformulare queste domande in modo che a tutte o, almeno, a parte di esse si possa rispondere con asserzioni empiriche o formali; vale a dire si tenta, talora in modo disperato, di farle rientrare o nella cesta empirica o in quella formale...»
E' indubbio che sotto il profilo tracciato da Berlin la filosofia analitica non possa che essere considerata una via senza sbocco. Perché quelle domande non troveranno mai risposta in una delle due ceste. Ed è molto dubbio che possano trovarle nella confusione della terza.

Rorty e Putnam
Non troppo diversamente da Berlin, Rorty si congeda dalla filosofia analitica con una frase altisonante che non ha molto di analitico: «Ritengo che la filosofia analitica trovi il suo culmine in Quine, nell'ultimo Wittgenstein, in Sellars e Davidson, il che equivale a dire che trascende e abolisce sé stessa.» (6) Precisi segnali di una presa di distanza dal mainstream analitico statunitense erano arrivati però dall'ancora più antico (1967) The linguistic Turn. (7) In quel testo Rorty mostrava, o meglio, cercava di persuaderci circa l'impossibilità del metodo linguistico di produrre criteri di adeguatezza per l'analisi. Ciò avrebbe messo in dubbio il paradigma della filosofia linguistica paradossalmente proprio dal punto di vista dei suoi promotori.
Sia Rorty che Putnam meritano un "discorso a parte" che, vorrei sperarlo, non sarò costretto a svolgere da solo. Ma su Putnam occorre dire qualcosa di più preciso. Essendo sostanzialmente un filosofo diacronicamente incoerente, propenso a svolte brusche e "rotture" con le proprie impostazioni precedenti, potremmo farci un'idea sbagliata circa le ragioni del suo "relativo" congedo dalla filosofia analitica. Putnam non "svolta" perché è di natura volubile, "svolta" perché intravvede qualcosa che somiglia ad una via più promettente per conquistare una teoria più appagante. Poiché il sale della sua filosofia è centrato sull'argomentazione e non su proclami, su ragioni e non su eroici furori, potremmo continuare a considerarlo un analitico anche quando si dichiara per un "realismo dal volto umano".
Putnam comincia col dire: «Nel momento stesso in cui la filosofia analitica viene riconosciuta come il "movimento dominante" del panorama filosofico mondiale, essa è giunta al termine del suo stesso progetto.» Se mi svegliassi ora, dopo una dormita di ventanni, a partire dal 1965, non riconoscerei nulla di quel che mi circonda come analitico - dichiara. Perché? Perché la scena è completamente cambiata, e con essa sono cambiati i temi dell'indagine . Si inquisisce su altre problematiche, si prova a rispondere ad altre domande. Ma hanno trovato risposte le domande poste nel periodo in cui Putnam era ancora desto?

Uno degli ultimi bersagli colpiti da Putnam è la teoria della verità Peirce-Apel, accusata di anti-realismo metafisico. Lui non ci sta ad accettare che sia metafisicamente impossibile che ci siano verità non verificabili da esseri umani. Questa teoria «è una specie di ciò che oggi si chiama 'antirealismo' dato che essa fa sì che i limiti di quello che può essere vero riguardo al mondo dipendano dai limiti delle capacità umane di verificazione.» (8) Questo ragionamento potrebbe funzionare per la scienza, ma non possono che venire forti dubbi circa materie come la storia e la stessa materia filosofica. Non è anche l'anti-realismo di Apel, un Anti-Realismo con troppe maiuscole, quindi un dogmatismo metafisico? Tale questione è stata posta nell'ultimo lavoro di Putnam pubblicato anche in Italia: Fatto/valore - fine di una dicotomia
A partire dal 1975, Putnam è stato il critico del positivismo logico, del realismo metafisico, dell'antirealismo, del popperismo, di Bernard Williams e di Habermas, di Apel e dell'ingenua (o "maliziosa"?) convinzione che sia possibile una scienza pura dei fatti del tutto distinta dalla soggettività dei valori. Alla fine: cosa si salva? Un po' di tutti, per la verità. Putnam è uno di quei pensatori distruttivi capaci di colpire tutte le teorie scovandone i punti deboli più riposti, ma è sufficientemente onesto da riconoscere non solo la validità di ogni pensiero, ma anche di entusiasmarsi per qualcuno in particolare. Un giorno disse che, correggendo Aristotele, anche Aristotele imparava a correggersi. Una frase che andrebbe interpretata come manifesto di autoironia e non come espressione di supponenza. Richard Rorty lo ha paragonato a Bertrand Russell, scrivendo: «Tra i filosofi analitici contemporanei Putnam è quello che maggiormente assomiglia a Russell: non soltanto per la curiosità intellettuale e per la tendenza a cambiare opinione, ma per l'ampio respiro dei suoi temi e per l'estensione dei suoi interessi sociali e morali.» (10)
Putnam, dal canto suo, ha preso indirettamente le distanze dal paragone, asserendo in altra circostanza che lo stile filosofico di Russell non desta più l'interesse dei filosofi praticanti: «
... ciò è, suppongo, un fatto d'importanza culturale e non un evento degno della considerazione dei soli filosofi di professione. » (11) Eppure Putnam è stato spesso descritto come un tizio che non segue le mode intellettuali ed, anzi, « si comporta come la coscienza della nostra cultura filosofica, attirando l'attenzione sulle diverse tendenze dei nostri impegni e affondando il cuneo nelle crepe dei nostri dogmi contemporanei - comportandosi come una forza che da forma al programma intellettuale dominante del nostro tempo, anziché semplicemente conformarsi ad esso.» (12)

Dummett
Al contrario di Rorty, Dummett è persuaso che abbia ancora senso ragionare sul linguaggio per una spiegazione filosofica del pensiero. A ripartire da Frege. Cioè da una negazione del carattere psicologico del pensiero, quindi con la ormai ben nota «estrusione dei pensieri dalla mente.» Nel lavoro La base logica della metafisica Dummett asserisce che anche gli analitici che hanno apparentemente abbandonato il campo del paradigma linguistico, quando dicono di cercare le condizioni per le quali il "contenuto" del pensiero è vero, proseguono in realtà sulla stessa linea.
«L'oggetto principale della logica - scrive Dummett - è l'inferenza, che occupa una posizione un po' decentrata nella filosofia del pensiero. Ma non può esservi un'analisi delle inferenze senza una previa analisi della struttura degli asserti che possono fungere da premesse e da conclusione. Un progresso nella logica è anche un progresso nella filosofia del pensiero, e il progresso che Frege per primo conseguì fu immenso. Esso fu difficile da raggiungere poiché comportava il rifiuto di lasciarsi guidare dalla forma superficiale degl enunciati. Frege considerava la notazione [logica] non tanto come un mezzo per analizzare il linguaggio così com'è, quanto piuttosto come uno strumento idoneo a sostituirlo attraverso un simbolismo opportuno in cui condurre il ragionamento deduttivo rigoroso, e insisteva sul fatto di non avere fornito meramente uno strumento per rappresentare i pensieri, bensì un linguaggio in cui potevano essere espressi. Esso si è dimostrato idoneo a questo scopo. Oggi i matematici usano la notazione logica come qualcosa di ovvio e scontato per dare espressione più perspicua alle proposizioni, benché il loro modo di ragionare resti quello di sempre.» (13) Mi accorgo ora che di Dummett ho già parlato abbondantemente nel file di apertura e che qui rischierei di ripetermi. Il testo cui spesso mi sono riferito era Origini della filosofia analitica. (14)

Oltre Dummett...
«La massima importanza della mossa di Dummett - scrive D'Agostini - nel riallacciarsi a Frege e alle sue teorie del pensiero e del senso, consiste nel fatto che in questo modo veniva rilanciata l'idea di una koinè implicita nel lavoro analitico, al di là delle molte differenze di fatto ormai registrabili negli ultimi sviluppi della corrente creata da Russell Moore e Wittgenstein.» (15) Non solo, c'è un evidente legame tra le origini e quanto fanno oggi gli analitici in trincea. Gli attuali progressi dell'informatica hanno di fatto rilanciato le ricerche filosofiche sulla mente artificiale; oggi è in auge la neuroscienza e di riflesso sono in piena espansione le "filosofie della mente". In proposito, D'Agostini annota che una delle contraddizioni più evidenti all'interno della tradizione analitica, quella tra l'empirismo e il platonismo, sembra risolversi ora a vantaggio di un empirismo naturalistico e sperimentale. L'attuale tendenza è di indagare la mente ed il pensiero con approccio sperimentale. In ciò, l'analitico, avrebbe "buone ragioni per ritrovarsi". Anche se questa non pare una soluzione conclusiva. C'è un rischio di perdita di autonomia da parte del filosofo e un buon antidoto è appunto la ripresa del programma fregeano, con Dummett, oppure una ripresa neo-kantiana mirante a recuperare lo studio delle esperienze attraverso l'analisi logico-linguistica. Sulla linea di Dummett si pongono in particolare Crispin Wright e Cristopher Peacocke, rispettivamente nati nel '42 e nel '50, quindi relativamente giovani. « Wright - scrive D'Agostini - riprende da Dummett l'impostazione anti-realista e sostiene che ciò che è vero deve essere in qualche modo conoscibile; a differenza di Dummett, non ritiene però che l'ipotesi anti-realista porti a sbarazzarsi della bivalenza della logica classica... Peacocke ... esordisce studiando il nesso tra percezione e contenuti del pensiero, fino a spostare l'attenzione sulla natura dei concetti.»
Tra i neokantiani, sono molto interessanti Gareth Evans e John Mc Dowell. Evans compie un rovesciamento di prospettiva, ovvero intende indagare il linguaggio a partire dal pensiero. Mc Dowell si dichiara per un ripensamento dello scetticismo verso il mondo esterno in chiave anticartesiana. «L'immagine di fondo dell'epistemologia moderna - scrive D'Agostini su Mc Dowell - è l'idea dello spazio interiore e dunque del pensiero, come qualcosa di distaccato dal mondo esterno, mentre si può senz'altro adottare una visione per cui almeno alcuni pensieri non sono pensabili in assenza degli oggetti su cui vertono. Si tratta di un "empirismo minimale", e soprattutto, per quel che ci interessa, si tratta di un empirismo che mira ad una mediazione con l'idealismo oggettivo.»
La ripresa dell'empirismo in chiave kantiana porta Mc Dowell a criticare Davidson, per l'ovvia ragione che Davidson è anti-empirista. Insisto su Mc Dowell, e sulla descrizione di D'Agostini, perché il suo mi sembra un pensiero davvero interessante, tra l'altro del tutto alternativo alla "davidsonite" che mi aveva contagiato per un paio di giorni il mese scorso. A differenza di molti analitici, Mc Dowell non ignora la lezione ermeneutica, e da Gadamer riprende la "teoria dei buoni pregiudizi", la "fusione degli orizzonti" e persino la stessa base antropologica. In Mind and World contenente lezioni tenute a Oxford nel 1991, Mc Dowell afferma che la visione filofica appare divisa tra la tendenza a concepire la stessa come "azione autoimpressiva del mondo sui soggetti conoscenti", marcando così l'importanza della ricettività, e l'opposta tendenza a cancellare il mondo, ovverosia a negare che l'esperienza possa costituire un importante e spesso decisivo criterio di valutazione e giudizio. «Tutto questo - scrive D'Agostini - si deve al fatto che manca uno "spazio logico", ossia un ambito di riconoscibilità e di ragioni, in cui natura e pensiero, mondo e mente, possano incontrarsi. Quale può essere questo spazio? La risposta si trova in una ripresa della nozione aristotelica di "seconda natura", ovvero nell'ipotesi antropologica per cui l'uomo è un animale razionale, la cui "spontaneità" intellettuale "non può essere espressa nei termini che servono a descrivere la natura, ma può nondimeno permeare le concretizzazioni della nostra naturale animale.» (16)

... C'è anche Tugendhat
«Ernst Tugendhat - scrive D'agostini - è un pensatore complesso, dotato di una formazione analitico continentale. La riconferma del ruolo dell'analisi avviene in Tugendhat attraverso una riflessione sull'ontologia in generale, e in particolare nella versione fenomenologica e heideggeriana. Egli riallaccia il lavoro analitico di Frege non soltanto alle ricerche di Husserl ma anche alla problematica centrale della filosofia, a partire da Aristotele, che per lui si caratterizza come problema "dell'oggetto".» (17) Porre il problema dell'oggetto vuol dire interrogarsi sul modo nel quale ci riferiamo agli oggetti. Come già chiarito da Husserl, si tratta di un'indagine formale che, tuttavia non va confusa con un che di "astratto", o troppo "generale". Tugendhat nel 1976 compone un testo dal titolo più che significativo: Introduzione alla filosofia analitica; dal 1989 disponiamo di una traduzione italiana presso l'editore Marietti. Pur avendo in testa più d'una lezione, quindi un quadro contraddittorio della problematica ontologica, Tugendhat rivela grande lucidità nel tentativo di sbrogliare alcune matasse relative all'oggetto del pensiero. «Per capire - scrive - in che cosa consista la peculiarità di questa concezione della filosofia come ontologia (cioè di una concezione che si basa sul concetto di ente) possiamo immaginarci una riflessione analoga seguendo un concetto della filosofia moderna, il concetto di "oggetto". Ogni scienza ha a che fare con un determinato campo di oggetti, con oggetti di un determinato tipo e con determinati modi di accedervi. Ma si può dire che è anche compito di ogni scienza tematizzare questo campo di oggetti come tale e quel suo particolare modo di pensare dato che lo distingue dagli altri campi di oggetti? Se ne può discutere.»
«Che cosa si intende ora con la parola "oggetto"?» - si chiede Tugendhat. «Anche questo termine, nel senso esteso in cui viene usato in filosofia, è un'espressione artificiale. Nel linguaggio comune siamo portati a definire come oggetti solo gli oggetti materiali - e per di più solo quelli che non sono persone - e non per esempio anche eventi o numeri o altri oggetti astratti, sebbene poi si parli dell'oggetto di una discussione. Ciò che si intende in filosofia con "oggetto" non ha un corrispondente in ciò che nel linguaggio comune definiamo così, ma in ciò che intendiamo con la parola "qualcosa" nel linguaggio comune. Si potrebbe dire che con "oggetto" dovrebbe essere definito tutto ciò che è qualcosa. Ma questa formulazione è linguisticamente errata perché la parola "qualcosa" non è un predicato, ma un pronome indefinito. L'erroneità di questo modo di dire potrebbe ancora più evidente se si volesse dire: un oggetto è un qualcosa. Ciò nonostante nella filosofia tradizionale si è molto spesso parlato così.» Ora e sempre: ontologia. "C'è una scienza che considera l'ente in quanto ente", scriveva Aristotele, e Tugendhat prende l'affermazione molto sul serio, ma per correggerla. Dobbiamo smetterla di usare «espressioni non grammaticali come «un questo», tode ti. La nostra risorsa è ricorrere con ancora più forza al sottofondo linguistico. «C'è una classe di espressioni linguistiche che viene usata allo scopo di stare per un oggetto, e qui possiamo anche dire: di stare per qualcosa. Sono quelle espressioni che possono fungere da soggetti nei cosiddetti asserti predicativi singolari e che in logica sono stati definiti anche come termini singolari. Certo la spiegazione del concetto di oggetto ricorrendo ai termini singolari si trova già prima della filosofia analitica. Husserl determina l'ampiezza con cui vuole venga considerato il concetto "oggetto", definendolo "ogni soggetto di possibili predicazioni vere", e anche Aristotele ha determinato il suo concetto di oggetto attraverso quello di hypokeimenon, di soggetto di predicazioni.»

(1) non ho sottomano il testo originale, cito dagli estratti dell'articolo Sulla storia e l'analisi della filosofia continentale riportato in F. D'Agostini - Filosofia analitica - Paravia 1997
(2) idem
(3) I. Berlin - Il fine della filosofia - Edizioni di Comunità 2002 (titolo originale: Concepts and Categories - Hogarth Press 1978, London)
(4) idem
(5) tutti i saggi menzionati in idem
(6) R. Rorty - Conseguenze del pragmatismo - Feltrinelli 1985
(7) R. Rorty - La svolta linguistica - Garzanti 1994
(8) Hilary Putnam - FATTO/VALORE fine di una dicotomia - Fazi editore, I edizione marzo 2004. Di questo lavoro esiste su " Moses" una interessante recensione di G. Marenco
9) dalle note di copertina di Realismo e ragione
(10) Hilary Putnam - Realismo dal volto umano - Il Mulino 1995
(11) James Conant, dall'introduzione a H. Putnam - Realismo dal volto umano - Il Mulino 1995
(12) idem
(13) M. Dummett - La base logica della metafisica - Il Mulino 1996
(14) M. Dummett - Origini della filosofia analitica - Einaudi 2001 (orig. inglese 1993)
(15) da il saggio Che cos'è la filosofia analitica che apre F. D'Agostini e N. Vassallo, a cura di - Storia della filosofia analitica - Einaudi 2002
(16) naturalmente, non ho letto il saggio di Mc Dowell, ma ritengo indispensabile citarlo, tradotto in italiano presso Einaudi 1999.
(17) F. D'Agostini - Filosofia analitica - Paravia 1997