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I Cinici
di Daniele Lo Giudice
Dal ceppo degli insegnamenti socratici derivarono diverse scuole filosofiche, nessuna delle quali, nemmeno quella platonica, poteva vantare un particolare primato di fedeltà sulle altre, anche se tutte facevano di tutto per rivendicarlo. Ma, se nella palese infedeltà, Platone seppe pur sempre salvare il senso più profondo dell'insegnamento socratico, delle altre non possiamo che dare una descrizione corretta, guardandoci dalla tentazione di farne una volgare caricatura.
L'iniziatore del cinismo fu Antistene di Atene, prima allievo di Gorgia e poi di Socrate.
Il nome di cinici viene indubbiamente dallo stile di vita predicato e messo in pratica: cani, ovvero una vita istintiva, semplice fino alla sfacciataggine. Ma non è escluso che la parola abbia preso a circolare perchè la sede della scuola era collocata in un ginnasio chimato Cinosarge.
Diogene di Sinope, allievo di Antistene, fu certamente il cinico più famoso e divenne noto come il Socrate pazzo.
Proprio Diogene, del resto portò all'estremo il disprezzo della scuola cinica per ogni costume e convenzione, desiderando mostrare quanto fosse auspicabile un ritorno integrale alla natura.
Ma la leggenda si impadronì a tal punto del personaggio che oggi diventa assai difficile non relegarlo ad una sorta di manifestazione esibizionistica e folkloristica.
Non visse sempre in una botte, come si è raccontato. Non fece sempre il mendicante, anche perchè non si capisce cosa vi sia di naturale sia nel vivere in una botte, ma nel centro di una città, e nel fare il mendicante anzichè l'eremita in una foresta, lontano da tutti gli esseri civili. Nel paradosso vi era certamente una componente provocatoria, qualcosa che voleva dar da pensare ai superficiali ateniesi incatenati agli agi del vivere civile.
In realtà, Diogene scrisse anche dei trattati, tra cui sicuramente uno intitolato Repubblica. Ma non ho mai avuto il piacere di trovarne un frammento riportato su qualche libro di maledetti.
Diogene sosteneva la comunanza delle donne e dei figli. Se ben si guarda nulla di straordinario, se non che in bocca a Platone la cosa assunse un carattere filosofico profondo nella sua Repubblica, mentre in bocca a questo miserabile sembra una vera sciocchezza animale, un vivere da bestia più che secondo natura umana, considerando tra l'altro, che molte bestie sono più fedeli al concetto di famiglia che gli uomini e le donne oggidì. Ma a differenza di Platone, fiero della propria grecità, come l'illustre allievo semimacedone Aristotele, Diogene si era già proclamato cittadino del mondo e parlava di uguaglianza delle genti. Disprezzò la scienza, considerandola vanità ed in questo tradì Socrate più di ogni altro, giacchè per il razionalismo socratico, che pure aveva snobbato Anassagora, lo studio etico era pur sempre scienza.
In ultima analisi, per capire la mentalità ed il pensiero dei cinici, più che a Diogene, converrebbe guardare ad Antistene. Ma anche con il caposcuola le cose non vanno meglio. Le storie della filosofia che ho consultato non vanno oltre un frettoloso profilo, a volte contraddittorio.
Antistene scrisse molto, in particolare di eroi mitici. Scrisse di Eracle, e lo celebrò come il prototipo del cinismo, ovvero il campione che attraverso immani fatiche vince piaceri e dolori con la sua forza fisica e la sua lodevole forza d'animo.
In questa forza, più spirtuale che fisica, si dovrebbe identificare il saggio filosofo, cioè il cinico, capace di attraversare le temperie del vivere superfluo e le tentazioni dei piaceri che rammolliscono.
Quelli che hanno colto nel cinismo, perlomeno quello di Antistene, una sorta di stoicismo antelitteram, hanno tutto sommato visto giusto. Sarà del resto il cinico Crateteil primo maestro del fondatore dello stoicismo: il fenicio Zenone di Cizio.
Antistene sviluppò soprattutto il lato pragmatico della dottrina di Socrate insistendo sull'importanza dell'autodominio (enkràteia) e dell'autosufficenza (autarcheia) che si raggiunge solo con la virtù. Diede grande importanza all'esercizio (askesi, da cui ascetismo) come preliminare a qualsiasi autosufficenza e di questa parlò come il massimo bene. Certamente non propagandò la mendicità, la quale è la negazione stessa dell'autosufficienza e lo studio più infimo in cui può cadere un individuo umano non leso da infermità o malattia.
In politica fu sia contro la tirannide, negatrice della libertà, ma anche contro la democrazia, fondata sull'incompetenza di chi è chiamato a decidere.
Il vero insegnamento di Antistene si può quindi ricondurre ad un monito: mantenere la dignità e l'autosufficienza critica anche nei momenti della più intensa integrazione sociale. Non seguire il gregge, non cedere alle passioni.
Dove ci si può, al contrario, trovare in difficoltà gravi col pensiero di Antistene, è la logica., ovvero i principi regolativi del ragionamento. Secondo Antistene rispetto ad ogni oggetto si può fare solo un discorso che gli è proprio. Il che, stringi stringi, portava al parodosso che di "un uomo non si può dire che è buono, ma solo che è un uomo", "mentre del buono non si può dire che è un uomo, ma solo buono".
La logica diventò con Antistene una tautologia che non poteva portare ad alcuna conoscenza.
Tutto questo, già di per sé discutibile, perchè negava la possibilità di giudizi universali ed analoghi, elementi di somiglianza e di comunanza, serviva poi ad Antistene per trarre conclusioni del tipo: "è impossibile dire il falso, se il discorso si riferisce a ciò che gli è proprio, senza con questo rendersi conto che nel linguaggio corrente proprio l'espressione "quell'uomo non è un uomo" ha un significato relativo al contesto cui viene riferito. E' falsa in un senso, ma vera in un altro, posto ad esempio che si abbia a che fare con un uomo di carattere fragile, oppure bestiale, oppure con una diversità sessuale.
Analogamente Antistene affermò anche che rimanendo sul discorso proprio di ogni oggetto è impossibile contraddirsi, perchè rimane il massimo della coerenza quello di dire continuamente "un uomo è un uomo".
Stranamente, vista la pochezza delle sue posizioni filosofiche, il cinismo sopravvisse nei secoli al punto che incontreremo un Demetrio, filosofo cinico, contemporaneo di Seneca ed anche alquanto apprezzato per le sue qualità morali nella Roma di Nerone.
C'è chi ha visto in questa sopravvivenza una qualità del cìnismo che mancava invece allo stoicismo, cioè una superiore sensibilità umana. Rispetto alla freddezza dell'apatia stoica, infatti, i cinici opposero un atteggiamento comprensivo e caritatevole. Furono compassionevoli e vissero immersi nel popolo, o quantomeno a contatto con esso.
Il che sarebbe da approfondire. Ma chi ce l'ha il tempo?
Daniele Lo Giudice - 16 novembre 2003