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Criterio, scetticismo, giudizio, Wittgenstein e Shakespeare: introduzione a Stanley Cavell
di Mario Cornarino
«La filosofia non riposa su una Comprensione in sé, su una comprensione assoluta, anonima, che non si sa a chi appartenga, ma su una comprensione dell'uomo; - sebbene, lo concedo, non su quella dell'uomo sfibrato dalla speculazione e dal dogma; ed essa parla il linguaggio degli uomini, non una lingua vuota e sconosciuta.» L. Feuerbach, citazione d'apertura in The Claim of Reason di Stanley Cavell
Volevo cominciare a parlare di Stanley Cavell ragionando sul suo stupendo libro su un certo cinema americano e la promessa di felicità che essa ci suggerisce ma, lo stato maggiore di "Moses" mi ha derridianamente "ingiunto" di scrivere prima una specie di introduzione al filosofo. A me non piace scrivere 'introduzioni', però riconosco che questa volta è un obbligo cui non posso sfuggire perché di Cavell in Italia si sa troppo poco e, senza un'introduzione si rischiano abbagli e fraintesi. Cavell non è il "solito"analitico stanco d'analisi in cerca di una filosofia emozionale, e nemmeno il "solito" critico d'arte, letteratura e cinema in preda a visioni estetiche ai confini del sublime. E' un filosofo intelligentissimo e plurisensibile al suono diminuito dei tasti neri del pianoforte, quindi un animale razionale raro e prezioso. Mi propongo di colmare una lacuna e non è detto che ci riesca perché nemmeno io, suo ideale allievo a distanza, non è poi che ne "sappia" molto. E qui attenzione alle virgolette che circondano il "sappia". Il "sapere" è uno dei problemi di Cavell e si trova affrontato sotto molteplici angolature. La più elementare non sarebbe in questo caso quel che so di Cavell, ma che so davanti a me c'è un quadernetto che ho scritto io stesso e che contiene appunti tratti da libri di Cavell. Lo "so" perché vedo il quadernetto che ha una copertina blu e non può essere confuso con quelli con la copertina rossa che contengono appunti su Derrida. So anche che dietro allo schermo del computer ci sono due libri di Cavell. Lo "so", ma non ci giurerei. Mi alzo dalla sedia e vado a vedere. Ci sono. Adesso ne sono anche certo. Cavell non mi ha insegnato a fare questo tipo di operazioni; le facevo anche prima. Cavell mi ha insegnato a riflettere su di esse, attraverso Wittgenstein (e Austin). Uno scetticismo quotidiano può fugare lo scetticismo filosofico. Wittgenstein ha scritto per contrastare lo scetticismo filosofico.

Quando cominciai a spulciare tra le pagine di The claim of Reason, tradotto in italiano da Carocci nel 2001 con il titolo La riscoperta dell'ordinario, fui colpito dal fatto che Cavell aveva dedicato un grande numero di pagine a Wittgenstein.
Inoltre, vi era molto spazio anche per Austin, definito "maestro" di Cavell. E i due capitoli iniziali erano dedicati ad una parola che ha sempre avuto un grande effetto logico sulla mia mente: criterio. Essa si congiungeva a giudizio e poi a scetticismo. Ebbi allora una specie di intuizione: ecco l'uomo che fa per me! Criterio, giudizio, scetticismo erano state più volte al centro delle mie riflessioni private, seduto in poltrona con un bicchiere di whisky e la pipa. Non so voi, ma io ragiono molto sulle parole e sul loro significato. Criterio! Con quale criterio, o quali criteri ho recensito un film? La storia del cinema? La storia della critica? La filosofia che presiede ogni corrente critica? Lo stesso significato di critica? Il film in sé? La bellezza di una ragazza semplice acqua & sapone che entra in un supermarket per fare la spesa con circospezione e non ostentando quella sicurezza di sé tipica degli spot? La forza assertoria dei dialoghi? La sequenza delle immagini? La fiction?
Criterio! E sai di cosa vai in cerca!
Scetticismo! E sai che è la massima raccolta di prove contro la tua ambizione di sapere qualcosa di certo.
Giudizio! E sai che senza un criterio o un dialogo tra criteri, emettere un giudizio è praticamente impossibile: quando emettiamo un verdetto privo di criterio stiamo solo sparando reazioni emotive di primo livello. Non usiamo il cervello, ma l'epidermide o le viscere, o più semplicemente riproponiamo un dogma senza il quale saremmo privi di un ombrello quando piove..

Dunque, le Ricerche filosofiche di Wittgenstein sono per Cavell un punto di partenza obbligato. Come dovremmo avvicinare il testo di Wittgenstein? Cavell dice che «approccio non v'è», e, quantomeno, egli non crede di averlo, se approccio vuol dire "avvicinamento", «quindi suggerisce che non siamo ancora abbastanza vicino o a contatto; lascia quindi intendere che conosciamo una qualche direzione verso il testo che non è ancora stata presa al suo interno, che abbiamo il sentimento di una certa distanza tra noi ed esso, distanza che una critica efficace potrebbe ridurre.
Lasciando me stesso, o almeno così spero, senza un approccio, - prosegue Cavell - trovo un luogo indistinto o un ostacolo dal quale partire, una vena nel pensiero di Wittgenstein di cui posso dire che mi è sembrata a lungo tanto strana quanto familiare, distante e insieme vicina. Riguarda un'idea che ricorre spesso in lui, l'idea di criterio. Se mi fosse possibile, non vorrei dissipare questa immagine della lontananza e della vicinanza in merito ad essa, tutto il contrario. Ma una causa superficiale della stranezza di quest'idea cominciò ad apparirmi soltanto dopo alcuni anni di frequentazione delle Ricerche filosofiche, e cioè il banale fatto che la nozione di criterio è una nozione quotidiana e il fatto, un po' meno banale, che la descrizione che ne dà Wittgenstein, benché non sia esattamente la stessa, si basa sulla nozione quotidiana. E alla luce di ciò che ho udito e letto su quest'argomento, credo che la mia difficoltà in merito a questi due fatti non sia per nulla fuori dell'usuale...» ( il grassetto mio)

Criteri e stranezze scriteriate. Il carattere centrale del filosofare è la ricerca del criterio "giusto", adatto a comprendere meglio una situazione. Cavell scova in Wittgenstein un passo formidabile: «Se sono propenso a supporre che un topo nasca per generazione spontanea da stracci grigi e polvere, farò bene ad esaminare attentamente questi stracci, per vedere come un topo abbia potuto nascondersi in essi, andare a finire lì, ecc. Se però non sono convinto che un topo non può nascere da queste cose, allora, forse, quest'immagine sarà superflua.
Ma, innanzitutto dobbiamo imparare a comprendere che cosa si opponga, in filosofia, a un siffatto esame dei particolari.» (RF § 52)
Di che specie di esame trattasi - si chiede Cavell -? Cosa si oppone ad esso "in filosofia"?
Bisogna rompere con il proprio senso della necessità per trovare necessità più vere. Per farlo devo entrare nello stato d'animo in cui sono "propenso a supporre" che possa accadere ciò che la mia cultura ritiene impossibile. «Il che significa - dice Cavell - che io devo far prove nel credere ciò che io ritengo essere dei pregiudizi e considerare che la mia razionalità può essere essa stessa un insieme di pregiudizi. Questa è certa una prospettiva dolorosa. Ed è probabile che conduca ad atteggiamenti ridicoli. Ma non più ridicolo dell'atteggiamento di cercare una spiegazione in un ambito in cui non si ha alcuna propensione a supporre che essa possa provarsi. (Una tale attività potrebbe essere definita "accademica".) - Quel che si oppone a un siffatto esame dei particolari in filosofia sono io così come sono. Essersi opposto è sempre stato un titolo d'onore in filosofia. Ma si mancherebbe il punto se da questo si traesse una rassicurazione: poiché questo vorrebbe dire che voi pensate di essere esenti dalla paura e dal dolore che naturalmente si oppone alla filosofia seria.» A questo punto Cavell tira in ballo la parola "psicofobia" e la presenta come terrore di affrontare la propria vita interiore, oppure come paura dei fantasmi. E' destino che di questi tempi mi debba occupare di spettralità. L'idea di Cavell potrebbe essere che senza qualche paura non si arriva a concepire una rottura del senso ordinario della necessità, e quindi di altri criteri. Però i criteri ci sono già. Sono stati costruiti socialmente. Cavell si impegna in un'analisi molto bella del contratto sociale toccando Locke, Hume e Rousseau, naturalmente. Gli serve per arrivare a dire «come si è fatto a sapere ciò che si sa...» Del resto, lo aveva evidenziato Hume, «Invano ci si domanda in quale registro sia trascritta la carta delle nostre libertà. Non è stata scritta nella pergamena, né ancora sulle foglie o sulla corteccia degli alberi.» E' sempre tutto in discussione: il senso ordinario della necessità, in politica, è sempre un filo esile che si può rompere in ogni momento. In una discussione sui doveri del cittadino di una repubblica fondata sul contratto sociale e su consensi taciti o manifesti, ed anche del tutto inconsapevoli ("non capisco ma mi adeguo"). Dal che si può anche dissentire con "un non capisco e non mi adeguo" piuttosto impegnativo per noi e per gli altri. Ma se la domanda era "come fai a sapere quello che sai, sia in merito alla generazione spontanea sia in merito agli obblighi del cittadino, sia in merito a chissà cos'altro", Cavell dovrebbe fare qualche esempio. Ma prima, riprendendo Wittgenstein, dice che la miglior cosa per provare l'esistenza dei criteri «è produrne alcuni.» Non si tratta di un lavoro, non c'è qualcosa "da fare", dobbiamo solo guardare a ciò che diciamo.
«Ma non c'è un numero di modi, un numero di procedure che potremmo chiamare "guardare a" "ciò che diciamo". In che modo guarderemo alle nostre parole nella misura in cui questo è importante per la filosofia? Wittgenstein dice che dobbiamo investigare grammaticalmente ciò che diciamo. Ciò che questo significa è presumibilmente pienamente esemplificato soltanto dalle procedure contenute in toto nelle sue Ricerche

Un oggetto delle Ricerche è che noi vogliamo sapere qualcosa su un certo fenomeno, ad esempio quello descritto dall'enunciato "ebbe mal di denti per tutto il giorno". Una base sicura per l'indagine è che ricordiamo l'enunciato suddetto. Infine ci chiediamo quali criteri abbiamo adottato per dire quello che diciamo. Esistono per Wittgenstein «due rivendicazioni generali o di fondo» per la sua teoria sul dire ordinario. L'idea di grammatica poggia sul dato che il linguaggio è condiviso, pertanto «che le forme sulle quali io faccio affidamento nella produzione del senso sono forme umane, che queste mi impongono dei limiti umani, che quando io dico ciò che noi "possiamo" e "non possiamo" dire, io sto in effetti dando voce alla necessità che altri riconoscono, cioè alle quali obbediscono (coscientemente o no); e che i nostri usi del linguaggio sono profondamente, quasi in modo inimmaginabile, sistematici.» Secondo Cavell, Chomski non rimpiazza Wittgenstein. Perché di Wittgenstein rimane che indagando la grammatica troviamo i criteri. A volte le chiama convenzioni ed altre regole. «Nei casi comuni o ufficiali dei criteri, mentre i giudici non alterano i criteri a cui si appellano, esiste un'autorità che ha l'autorità di cambiare i criteri, di stabilirne di nuovi, se quelli vecchi si rivelano inopportuni o inaffidabili per determinati scopi, o se non rispondono alle nuove informazioni o ai nuovi gusti..; cioè se i vecchi criteri non permettono di formulare i giudizi per i quali i criteri adottati sono stati stabiliti.»

Il senso del lavoro di Cavell lo abbiamo più o meno afferrato. Egli giunse a Wittgenstein mediante Austin, cioè il filosofo "del cosa diciamo quando diciamo". L'ordinario che si presenta costantemente nella filosofia del linguaggio ordinario non equivale a comune, bensì a corrente. Corrente vuol dire che un'espressione trova impiego sociale tutt'ora. Se usiamo l'espressione "il gatto è sul divano", è perché gli altri ci capiscono, perché rispondiamo alla domanda "dov'è il micio?" o perché semplicemente sentiamo di dovere un'esclamazione all'universo che ci circonda. Cavell ricava da Austin l'idea che Austin non insegna cosa dovremmo dire, o come, ma insegna a comprendere la cosa più normale che dovremmo dire, nella precisa circostanza in cui siamo, io e te in piedi, il gatto sul divano. Così ricordare "cosa diciamo quando..." spinge a immaginare diversi contesti d'uso, anche nel senso di "immagina cosa faresti in tal posto". Inventa una storia!
La filosofia del linguaggio ordinario e l'indagine grammaticale sono per Cavell un modo per proiettarsi, per giocare alla simulazione di ruoli. Così l'avere sotto gli occhi una persona che geme e si tocca la pancia può indurre alla compassione ma anche al dubbio scettico. Qui subentra un altro criterio. E' generato dall'insoddisfazione denominata scetticismo. «[...] io non limito - dice Cavell - l'impiego del termine scettico a quei filosofi i quali negano parossisticamente che noi possiamo mai conoscere alcunché; lo applico invece a qualsiasi concezione che consideri l'esistenza del mondo come un problema di conoscenza. Secondo me, un elemento di cruciale importanza nel definire scettico un certo argomento è che contenga un passaggio che reciti pressappoco così: "Se non conosciamo (sulla base dei soli sensi (o del solo comportamento)), allora (come) conosciamo?" E' a questo livello che le diverse filosofie finiscono per farsi fenomenismo, realismo critico ecc. »
C'è una sottile verità dello scetticismo più moderato e spontaneo, essa può guidarci a comprendere che è sbagliato porci di fronte al modo di essere presenti degli altri in modo epistemico. Cavell afferma che la relazione io-altri non è essenzialmente conoscitiva, semmai è l'espressione della nostra volontà e capacità di comprendere le richieste degli altri e rispondervi. Questo è il senso dell'Acknowledgement trattato da Cavell nella terza parte di The claim of Reason. «Se ciò che si può dire in un linguaggio non è ovunque determinato da regole, né la sua comprensione assicurata in ogni caso da universali, e se vi sono sempre nuovi contesti da incontrare, nuovi bisogni, nuove relazioni, nuovi oggetti, nuove percezioni da registrare e condividere, allora forse è altrettanto vero di un maestro quanto di un apprendista del linguaggio che, sebbene "in un certo senso" noi impariamo il significato delle parole e ciò che gli oggetti sono, non si finisce mai di imparare e di trovare sempre nuove potenzialità nelle parole e sempre nuovi modi di scoprire gli oggetti. Le "vie dell'iniziazione" sono infinite. Ma chi è l'autorità quando tutti sono maestri? Chi ci inizia a nuove proiezioni? Perché non abbiamo fatto in modo di limitare le parole a certi contesti, per poi coniarne di nuove per le nuove eventualità? Il fatto che non ci comportiamo in questo modo deve essere all'origine della forte ambiguità del linguaggio ordinario, e che non ci comportiamo in questo modo significa che, per ottenere una vera precisione, dovremmo fare in modo di fissare le parole ad un significato attraverso una definizione esplicita o la delimitazione del contesto. In ogni caso, per un certo genere di precisione, per alcuni scopi, avremmo bisogno di definizioni. Ma forse l'ambiguità stessa del linguaggio ordinario, sebbene talvolta, in alcune occasioni sia un obbligo, è proprio ciò che gli conferisce la sua forza, il potere di illuminare, di arricchire la percezione, ciò che riscuote i favori dei suoi fautori.»

Ora andiamo diritti alla parte conclusiva di The claim of Reason, quella che potrebbe interessare anche un appassionato di cinema, di commedie e tragedie, opere liriche e musicals. Riguardiamo l'Otello di Shakespeare, oppure rivediamo l'opera di Verdi in dvd. Ciò che soprende Cavell è l'assenza di un genuino scetticismo quotidiano da parte di Otello nei confronti di Jago. Com'è possibile che un uomo si beva le accuse di Jago a Desdemona senza nemmeno sentire il bisogno di un'attesa, di una sospensione del giudizio? Potremmo anche chiederci perché Shakespeare mise in scena un protagonista così rozzo e frettoloso; era forse "razzista"?
Direi, certamente no. Come faccio a "saperlo"? Lo so perché conosco Shakespeare e ora conosco anche l'interpretazione di Cavell. Mediante un "geniale" accostamento tra Cartesio e Shakespeare, quel Cartesio che nelle Meditazioni ci ingiunge di credere che non è possibile distinguere tra il sonno e la veglia, Cavell osserva che qui Cartesio non nega una conoscenza ma, la allontana. Ed è ciò che desidera. Non diversamente Otello, accogliendo le parole di Jago, allontana da sé l'idea della purezza di Desdemona perché desidera allontanarla. Ma questo non è più sano scetticismo quotidiano, è scetticismo filosofico, cioè l'accomodarsi in una serie di teorie inaccettabili dal senso comune perché... Perché? «Quando Otello cade in deliquio [...] non è per la convinzione in una conoscenza, ma nel tentativo di allontanare una conoscenza [...] la mente di Otello eccede continuamente la realtà dissolvendola in rapimento, in sogno o nella bellezza, o nell'abiezione della sua immaginazione affascinata [...] Perché egli non può essere aiutato? Perché l'occhio e l'orecchio sono disgiunti in lui? Sappiamo che nel momento in cui egli definisce la sua condizione definisce la sua condizione in questo modo:
"Mondo cane Credo che mia moglie sia fedele e nello stesso tempo credo che non lo sia. Credo che tu sia onesto e non lo credo. Voglio delle prove.", egli è perduto. Qualche verso prima egli aveva domandato a Jago la "prova tangibile", una richiesta che era tanto una minaccia quanto un ordine, come se egli desiderasse davvero questo esito, come se egli già sapesse come servirsi dei sospetti di Jago e quindi in un modo analogo a quello in cui Jago si serve di lui. Nulla di ciò che io affermo qui su quest'opera si basa su una comprensione della relazione tra Jago e Otello, sicché mi limiterò ad asserire ciò che ho suggerito in quel che appena detto, che una domanda quale: "Perché Otello crede a Jago?" è mal posta. Non è concepibile che Otello creda a Jago e non a Desdemona. Jago, potremmo dire, offre a Otello l'opportunità di credere qualcosa, qualcosa da opporre a qualcos'altro che egli sa...» Il filo dell'analisi di Cavell è sottile come la lama di un rasoio di Ockham che non si spunta sulla barba di Platone e nemmeno su quella di Shakespeare. Non voglio togliervi il piacere di andare a leggerla per conto vostro, scoprendo così come si possa fare analisi in modo diverso dal solito unicamente riconoscendo la nostra sensibilità ai problemi umani e cercando di non scordarla.

Di Cavell, Putnam ha scritto: «... è un pensatore la cui opera ha allargato i confini e rinnovato lo spirito sia della letteratura che della filosofia. Le 'letture' da Cavell di Wittgenstein, Heidegger, Emerson ed altri pensatori sicuramente approfondiscono la nostra comprensione di questi,, ma fanno molto di più: offrono una visione di ciò che la vita può essere e di ciò che la cultura può significare. Se c'è un pensatore contemporaneo la cui opera raccomanderei ad ogni giovane sensibile ed intelligente che si interroghi sul futuro della filosofia o sul futuro della letteratura, costui è Stanley Cavell. » (dalla quarta di copertina di Conditions Handsome and Unhandsome).
MC - 5 maggio 2007