Onde la lunghezza di questo discorso vi sia
meno noiosa, ho deciso di svilupparne una
parte inventandola come una favola, attraverso
la quale - spero -
la verità non mancherà di apparire sufficientemente,
e non meno gradevole che se l'esponessi affatto
nuda. (A. T. - XI)
Un orfano di madre dopo aver studiato dai
gesuiti va a scuola dai calvinisti. Successivamente
torna a combattere tra i cattolici.
René Descartes nacque a Le Haye in Touraine
il 31 marzo del 1596. Rimase quasi subito
orfano di madre e, a nove anni, entrò nel
collegio dei gesuiti a La Flèche, una delle
istituzioni educative più prestigiose dell'epoca,
per tanti aspetti una scuola d'avanguardia,
anche se confessionale. Dopo avervi compiuto
gli studi primari e secondari, Descartes
ottenne il baccellierato in diritto canonico
e civile all'Università di Poitiers, la stessa
frequentata da Francis Bacon che ivi si era
diplomato nel novembre del 1610.
Da allora iniziò una vita avventurosa. Si
arruolò in uno dei due reggimenti francesi
aggiunti all'esercito di Maurizio di Nassau-Orange,
protestante, che in Olanda affrontava gli
spagnoli (in un periodo di lunga tregua);
successivamente fu al seguito del Duca cattolico
Massimiliano di Baviera. Un passaggio da
un campo all'altro che potrebbe apparire,
a dir poco, disinvolto. Alcune perplessità
trovano soluzione se si considera che l'esercito
calvinista olandese non era solo "una
scuola di guerra" nel vero senso della
parola, ma un centro studi di ingegneria
militare, nel quale insegnava, ad esempio
Simon Stevin, uno dei più importanti scienziati
dell'epoca. Una seconda ragione è di ordine
più generale. I francesi appoggiavano gli
olandesi in funzione anti-spagnola. Le due
potenze cattoliche curavano con la massima
spregiudicatezza i propri interessi nazionali
in evidente contrasto. Pertanto, si potrebbe
concludere con un'assoluzione per Descartes
rispetto all'accusa di incoerenza, se non
di tradimento: era al servizio del proprio
paese e non aveva combattuto contro il cattolicesimo
in quanto tale, ma contro la strumentalizzazione
del cattolicesimo da parte dell'imperialismo
spagnolo. Dispute infinite si potrebbero
aprire sulla reale universalità del cattolicesimo
ai tempi di Descartes, sul ruolo effettivo
giocato dalla Chiesa, e quindi dai singoli
Pontefici. Qui l'argomento non si può trattare
che per accenni, ovvero come parte della
questione Descartes, delle esperienze che
concorsero a formare la sua coscienza più
matura. Sicchè, una volta compreso che il
giovane filosofo apparteneva a quel tipo
di individui che non si arrestano davanti
ad un confine e si propongono di andare risolutamente
avanti sulla via della conoscenza, si è già
detto molto di quanto occorre sapere sulla
biografia del filosofo. Il giudizio sulla
Chiesa di quegli anni, l'istituzione che
condannerà Galilei, e che nel 1663 metterà
all'indice anche le opere di Descartes, non
può che sfumare in una serie di valutazioni
articolate e distinte, come avrebbe detto
lo stesso Descartes. La curia romana non
era esattamente un'istituzione puramente
spirituale. Seguiva di volta in volta particolari
convenienze, logiche di potere ed esigenze
diplomatiche. Le chiese nazionali non obbedivano
a Roma, le chiese locali non obbedivano a
quelle nazionali, fra ordini religiosi esistevano
continui motivi di disputa e la disputa stessa
era sorta all'interno della Chiesa come metodo
di confronto ed accoglimento di un minimo di pluralismo nell'oscuro Medioevo. All'interno
del cattolicesimo francese si fronteggiavano
diverse correnti. L'itinerario filosofico
e spirituale di un contemporaneo di Descartes,
Blaise Pascal, fu segnato dal giansenismo
almeno quanto il primo era stato segnato
dall'educazione gesuitica. Il lettore dev'essere
avvisato del fatto, tuttavia, che al tempo
di Descartes e Galilei, i margini stessi
del pluralismo si erano alquanto ristretti.
D'altra parte, quand'era in vita, Descartes
fu violentemente attaccato dai riformati
olandesi. Nel periodo 1642-43 subì la censura
del senato accademico di Utrecht che vietò
l'insegnamento della sua filosofia, a seguito
di attacchi provenienti soprattutto dal teologo
Gisbert Voetius. Gli anni dal 1640 in poi
furono i più duri nella vita di Descartes.
Dalla Francia erano pressochè contemporaneamente
partiti attacchi non meno severi da parte
dei gesuiti, molto preoccupati per la messa
in discussione dei principi della filosofia
scolastica. Il filosofo si trovò stretto
tra due fuochi, nessuno dei quali poteva
definirsi amico. Per capire le ragioni di
questa "sfortuna", nonostante la
buona volontà mostrata dal filosofo, bisogna
passare al setaccio, se non tutta la vita
di Descartes, almeno alcuni passaggi cruciali.
La mia filosofia è una favola
Mentre si trovava acquartierato ad Ulm nel
novembre del 1619, cioé a soli 23 anni, Descartes
scoprì quelli che egli stesso definì "i
fondamenti di una scienza mirabile"
e ricevette in tre sogni la conferma che
si trattava di un dono divino e di una missione
da compiere. Ne parlò in un manoscritto intitolato
Olimpyca, che non venne pubblicato in vita e quindi
non faceva testo all'epoca della grande crisi
degli anni '40.
A Descartes venne in chiaro che esistono
nella mente umana pochi principi dai quali
è possibile ricavare tutte le scienze concatenate
in modo da formare una "scienza universale".
Questa potrebbe la chiave per comprendere
la tensione essenziale che animò Descartes
fino alla fine dei suoi giorni. Tuttavia,
si può accogliere, almeno in parte, l'opinione
di Nicola Abbagnano quando scrisse: «Il
problema che domina l'intera speculazione
di Cartesio è quello dell'uomo Cartesio. Il procedimento di Cartesio è
essenzialmente autobiografico
anche quando
(come nei Principi) ha la pretesa di esporsi in forma oggettiva
e scolastica. Il suo precedente
e il suo
esempio è Montaigne.» (1)
Abbagnano
richiamava qui un passo del Discorso sul metodo, pubblicato in Olanda nel 1637 e presentato
al pubblico in lingua francese, come opera
di autore anonimo: «Il mio scopo non
è d'insegnare il metodo che ciascuno deve
seguire per ben condurre la propria ragione,
ma soltanto di far vedere in qual modo ho
cercato di condurre la mia.» (2) Che
fosse finta modestia? Può darsi; ci sono
molti modi di rendersi interessanti ed un
filosofo che non riesca a rendere attraente
il proprio pensiero rischia di non raggiungere
la fama, oppure guadagnare facilmente l'oblio
prematuro. Epperò, si dovrebbe porre attenzione
al passo successivo: «Quelli che si
prendono la briga di dare precetti debbono
ritenersi più abili di coloro ai quali li
danno; e se sbagliano nella più piccola cosa,
vanno perciò biasimati. Ma, siccome propongo
questo scritto solo come una storia, o se
preferite come una favola, nella quale, accanto
ad alcuni esempi che si possono imitare,
se ne troveranno forse molti altri che a
ragione non verranno seguiti, spero che riuscirà
utile ad alcuni, senza essere di danno nessuno,
e che tutti saranno soddisfatti della mia
franchezza.» Non probo sed narro. In un certo senso una storia romanzata della propria filosofia e delle avventure
della propria coscienza che, anziché far
ricorso al dialogo con altri come in Platone e nelle opere essoteriche
di Aristotele, si sviluppa sul dialogo con
se stesso. Considerando che il modello di
trattatistica filosofica precedente era,
al contrario, il saggio mutuato dal modello
esoterico di Aristotele e cresciuto in modo esponenziale,
con poche eccezioni - si pensi
alle Confessioni di Agostino, o anche al De consolatione di Boezio - nella tarda antichità e nel Medioevo, e oltre
ancora, non vi può esser dubbio:
quella di
Descartes fu una rivoluzione
copernicana
in filosofia. Che, tuttavia,
ebbe uno scarso
seguito in quanto modello formale.
La trattatistica
vinse la partita nei secoli a
venire. Gli
stessi cartesiani seguirono quel
modello.
I rosacroce, l'alchimia, l'astrologia: la
favola continua con una rivoluzione
Attenzione, però: non probo sed narro era stato il motto di numerosi maghi ed
alchimisti. Il retroterra degli
studi cartesiani
era molto più denso di quanto generalmente compaia nei trattati
di storia. Non solo filosofia scolastica
e precetti gesuitici ma, anche indagini nelle
scienze occulte, frequentazione di maghi,
alchimisti, seguaci dei Rosacroce. E' parte
della favola, forse la più intrigante, che
meriterebbe di essere narrata e che, purtroppo,
possiamo solo linkare, avvertendo che tra
quella ricostruzione e la verità storica
potrebbe correre qualche distanza, anche
riconoscendo che un conto erano i Rosacroce,
un altro maghi ed alchimisti di varia ed
oscura provenienza, e così via distinguendo
e ricordando uno dei pochi proverbi contenente
un valore di validità universale: non è l'abito
che fa il monaco. Ovvero, Descartes avrebbe
potuto incontrare individui intellettualmente
onesti in ogni raggruppamento. Mentre si
trovava ad Ulm, venne effettivamente in contatto
con un personaggio straordinario: Johannes
Faulhaber, provetto matematico, costruttore
di compassi, di tendenze misticheggianti
e sicuramente legato agli ambienti rosacrociani.
Fu una conoscenza importante, indubbiamente,
ma gli storici assegnano giustamente una
importanza assai maggiore, se non decisiva,
alla figura di Isaac Beeckman, conosciuto
durante la prima permanenza in Olanda. Questi
gli suggerì indirizzi di ricerca assai più
prossimi al nucleo paradigmatico della scienza
moderna, con un occhio privilegiato alla
tecnica ed alle attività artigianali e proto-industriali.
Traendo immenso profitto dal rapporto, anche
epistolare, con Beeckman, quando Descartes
abbandonerà risolutamente il campo delle
scienze e delle spiegazioni occulte, dovrà
anche ringraziare la provvidenza (o la casualità)
di quel fortunato incontro.
L'irrequietezza spinse Descartes in vari
luoghi. Abbandonò la vita militare, viaggiò
in Italia, e sicuramente si sa che non incontrò
Galilei, in Germania ed in Francia. A Parigi
conobbe e strinse amicizia con Padre Marino
Mersenne, religioso dell'Ordine dei Minimi
e successivamente fu incoraggiato dal cardinale
Bérulle a dedicarsi alla riforma della filosofia
e a rinforzare gli argomenti per la fede.
Nel 1629 tornò in Olanda, che allora era
il paese economicamente più progredito e
culturalmente più aperto d'Europa anche se
le tensioni religiose e politiche non mancavano
nemmeno qui. In seno al calvinismo esistevano due correnti
ferocemente ostili. Il filosofo politico
Hugo Grotius era stato incarcerato e riuscì
ad evadere nascosto in un baule.
I libri di "scienze curiose
rare"
quali testi di magia ed astrologia
vennero
abbandonati.
Da quel momento l'esistenza di Descartes
si fece più stabile ed ordinata perchè ora
pensava ad osservare soprattutto se stesso.
Si ritirò in una vita solitaria di studi,
letture,meditazioni . Fu in quei momenti
che egli volse recisamente le spalle alle
scienze occulte. Inoltre, secondo R. S. Westfall,
molto dell'atteggiamento filosofico assunto
da Descartes si spiegherebbe con la motivazione
di combatterle: «con il suo rigoroso dualismo mente-corpo
intendeva purgare la filosofia
naturale dall'infezione
ermetica». (3) C'è un passo nel Discorso sul metodo che descrive con chiarezza il pensiero di
Descartes dopo la rivoluzione
interiore.
«Infine, per quel che riguarda
le scienze
bugiarde, pensavo di conoscerne
già abbastanza
il valore per non correre il
rischio di venir
ingannato né dalle promesse di
un alchimista,
né dalle predizioni di un astrologo,
né dalle
imposture di un mago, né dalle
frodi o vanterie
di chi va dicendo di sapere più
di quanto
non sappia.» (Discorso parte prima)
Nella tranquillità olandese Descartes
cominciò
a lavorare all'abbozzo del suo
pensiero scrivendo
il Traitè du monde che rinunciò a pubblicare quando venne a
sapere che la chiesa cattolica aveva condannato
Galilei nel 1634. Il testo conteneva già
molti punti ormai definiti della visione
scientifica di Descartes e, quando nei difficilissimi
anni '40 deciderà di scrivere, ultimare e
pubblicare i Principia Philosophiae, riprenderà sostanzialmente le tesi elaborate
nei primi anni '30 con poche,
anche se importanti
modifiche.
Nel 1637 egli pubblicò invece
il Discorso sul metodo che comprendeva altri 3 trattati (La diottrica, Le meteore, e La geometria. Testo, quest'ultimo, che riveste grande
importanza in quanto sviluppa
i principi
della geometria analitica)
Nel 1641 pubblicò le Meditationes de prima philosophia che contengono sia la sua metafisica, sia
le obiezioni rivolte ad essa
da parte di
alcuni filosofi ai quali l'aveva
sottoposta,
(Hobbes, Gassendi, Arnauld, Padre
Mersenne)
che la replica di Descartes.
Nel 1644, pubblicò, come s'è anticipato,
i Principia philosophiae..
Queste due opere ricevettero
una fredda accoglienza
e suscitarono le critiche dei
professori
protestanti delle università
olandesi di
Leida e di Utrecht.
Per questo Cartesio, indubbiamente
amareggiato,
decise di lasciare l'Olanda e
riparare in
Svezia presso la regina Cristina
che lo aveva
invitato a corte già dal 1646,
grazie agli
stimoli ed ai buoni uffici dell'ambasciatore
Pierre Chanut. Così nacque un rapporto espistolare che culminò
con la richiesta di una copia
delle sue Meditazioni metafisiche e l'invito, ripetuto più volte, di recarsi
in Svezia. Descartes giunse a Stoccolma il
4 ottobre 1649, dopo un mese di navigazione,
ed ebbe certamente qualche problema nell'assoggettarsi
alle curiose abitudini della regina, che
esigeva lezioni di filosofia alle cinque
del mattino. A causa del clima, Descartes fu colpito da
polmonite e di questa morì nel 1650, dopo
una breve agonia. Si è parlato di avvelenamento
da parte di cortigiani invidiosi e religiosi
inviperiti ma, un'ipotesi scartata dagli
studiosi che vanno per la maggiore. Gli storici
della filosofia hanno spesso trascurato di
indagare i rapporti tra la regina e Descartes.
Le cronache del tempo, tuttavia, offrono
un quadro colmo di luci ed ombre. Atea, di
costumi molto liberi, ironica e sprezzante
nei confronti della religione (in primo luogo
quella protestante a cui era stata educata),
Cristina sembrava richiamare un'altra figurra
importante nella vita di Descartes: Maurizio
di Nassau. Questi sul letto di morte, col
massimo della calma e tra lo sconcerto dei
religiosi presenti, aveva dichiarato di credere
solo "che due più due fa quattro".
Sulla regina occorre aggiungere che successivamente
cambiò vita, abbandonò la Svezia e si convertì
al cattolicesimo.
Donne e sentimenti nella vita di Descartes:
le passioni dell'anima
Oltre a Cristina di Svezia c'erano state
almeno altre due donne capaci di stimolare
in Descartes un supplemento di meditazioni:
la dotta ed intelligente Anne-Marie de Schurmann
ed Elisabetta del Palatinato. La prima, filologa
e poliglotta, perse l'affetto ed il rispetto
di Descartes a causa di un cedimento alle
seduzioni della teologia di Voetius, giudicato
poco più di un ciarlatano; la seconda divenne
partner di amore intellettuale e platonico,
dettato da una spontanea simpatia-empatia
reciproca. Trovandosi di fronte ad un evidente
caso di depressione, dovuta alle penose circostanze
della vita di Elisabetta, Descartes dapprima
reagì squadernando le più classiche "ovvietà"
del sapere filosofico tradizionale. Cominciando
dalla Vita beata di Seneca e dal modo stoico di affrontare
l'esistenza con il "distacco" del
saggio. Nei casi di depressione, quello che
la psicoanalisi freudiana auspicherà è il
disinvistimento dalle cause del dolore ed
un nuovo investimento affettivo più promettente
ed adeguato alla situazione. E' più facile
dirlo che farlo, ovviamente, perché nulla
di ciò che sembra "più garantito e sicuro"
può durare all'infinito. Gli antichi avevano
già visto che l'unico investimento appagante
è la trascendenza. Tuttavia, come spesso
accade tutt'ora, fu sufficiente a Descartes
dare la sensazione di "prendersi cura"
di Elisabetta in modo del tutto speciale
e dedicato, per dar corso ad un rapporto
umano intenso, terapeutico, e benefico in
entrambe le direzioni. Indubbiamente, lo
stesso Descartes, più o meno emotivamente
coinvolto dalle sofferenze psichiche di Elisabetta,
fu costretto ad assumere "un volto umano",
pur conservando l'abito del filosofo distaccato
e stoico, che affronta le circostanze della
vita cercando di razionalizzare le situazioni.
Il rapporto con Elisabetta offrì al filosofo
la grande opportunità di scrivere il trattato
sulle Passioni dell’anima, dedicarlo esplicitamente a lei, recarlo
successivamente in omaggio a Cristina di
Svezia. Iniziò a comporlo nel 1645, ma era
maturato molto tempo prima. In esso, Descartes
sostenne che le passioni sono di per sé emozioni
utili, perché stimolano l’anima a ricercare
il bene. Da un lato la paura, per esempio,
predispone l’uomo a schivare il pericolo,
dall'altro, il coraggio a fronteggiare le
situazioni difficili. La curiosità stimola
a intraprendere la via della conoscenza.
Capita che molti uomini, non esercitando
mai la propria volontà, non si mettano veramente
alla prova e, quindi, non si conoscano veramente.
Al contrario, conclude Cartesio, quanto più
si sapranno controllare le cattive passioni
- ossia le passioni distruttive e divoranti
- tanto più si riuscirà a contrastare la
sfortuna con la forza della ragione e si
potrà riconoscere la propria moderata soddisfazione.
Descartes visse almeno una relazione "non
platonica". Quella con una domestica
del suo affittuario olandese, Hélene Jans.
Nel 1635, dal rapporto nacque Francine, di
cui il filosofo si prese gran cura. Purtroppo,
la bambina morì nel 1640. Esiste qualche
dubbio sul fatto che i rapporti con Hélene
siano proseguiti oltre quella data. Da allora
in poi, solo amori platonici?
Cogito, ergo sum. Ma è spezzata l'unità mente-corpo
Non c'è soluzione migliore, per
spiegare
Descartes, che lasciare la parola
al filosofo
stesso. «Non so se debbo
riferirvi
le prime meditazioni che ho fatto
qui; perché
sono tanto astratte e tanto insolite,
che
non saranno forse apprezzate
da tutti. Tuttavia,
perché si possa giudicare se
sono abbastanza
solidi i fondamenti che mi son
dato, mi trovo
in qualche modo costretto a parlarne.
Avevo
notato da tempo, come ho già
detto, che in
fatto di costumi è necessario
qualche volta
seguire opinioni che si sanno
assai incerte,
proprio come se fossero indubitabili;
ma
dal momento che ora desideravo
occuparmi
soltanto della ricerca della
verità, pensai
che dovevo fare proprio il contrario
e rigettare
come assolutamente falso tutto
ciò in cui
potevo immaginare il minimo dubbio,
e questo
per vedere se non sarebbe rimasto,
dopo,
qualcosa tra le mie convinzioni
che fosse
interamente indubitabile. Così,
poiché i
nostri sensi a volte ci ingannano,
volli
supporre che non ci fosse cosa
quale essi
ce la fanno immaginare. E dal
momento che
ci sono uomini che sbagliano
ragionando,
anche quando considerano gli
oggetti più
semplici della geometria, e cadono
in paralogismi,
rifiutai come false, pensando
di essere al
pari di chiunque altro esposto
all'errore,
tutte le ragioni che un tempo
avevo preso
per dimostrazioni. Infine, considerando
che
tutti gli stessi pensieri che
abbiamo da
svegli possono venirci anche
quando dormiamo
senza che ce ne sia uno solo,
allora, che
sia vero, presi la decisione
di fingere che
tutte le cose che da sempre si
erano introdotte
nel mio animo non fossero più
vere delle
illusioni dei miei sogni. Ma
subito dopo
mi accorsi che mentre volevo
pensare, così,
che tutto è falso, bisognava
necessariamente
che io, che lo pensavo, fossi
qualcosa. E
osservando che questa verità:
penso, dunque
sono, era così ferma e sicura,
che tutte
le supposizioni più stravaganti
degli scettici
non avrebbero potuto smuoverla,
giudicai
che potevo accoglierla senza
timore come
il primo principio della filosofia
che cercavo.»
E' inutile obiettare che per
assicurarsi
della propria esistenza reale
«può
bastare un pizzicotto».
Descartes seguì
un percorso alternativo ai pizzicotti,
separò
mente e corpo, e poi scelse di
fidarsi principalmente
del pensiero. I suoi «fondamenti»
sono diversi da quelli della
maggior parte
degli individui e degli stessi
filosofi precedenti
e seguenti. Si dovrebbe semmai
apprezzare
che fossero ancora considerati
«fondamenti»
e che il filosofo non abbia smesso
di cercarli.
La sua fu una via individualistica, espressione di una diffidenza nei confronti
dei pensieri culturalmente e
socialmente
dominanti, maturata mediante
esperienze dolorose.
Nulla vieta una lettura psicologistica
di
Descartes, un giovane privato
di affetti
materni e paterni, ma molto vieta
di esagerarne
l'importanza. L'autore del Discorso si rivela individuo sicuro di sé, in pieno
possesso delle proprie facoltà
e consapevole
del proprio potere limitato nel
consorzio
umano, filosofico e scientifico
del tempo.
A conferma di quel dualismo mente-corpo
denunciato
da molti critici come intollerabile
e nefasto,
si legga quesro passaggio successivo.
«Poi, esaminando esattamente
quel che
ero, e vedendo che potevo fingere
di non
avere nessun corpo, e che non
ci fosse mondo
né luogo alcuno in cui mi trovassi,
ma che
non potevo fingere, perciò, di
non esserci;
e che al contrario, dal fatto
stesso che
pensavo di dubitare della verità
delle altre
cose, seguiva con assoluta evidenza
e certezza
che esistevo; mentre, appena
avessi cessato
di pensare, ancorché fosse stato
vero tutto
il resto di quel che avevo da
sempre immaginato,
non avrei avuto alcuna ragione
di credere
ch'io esistessi: da tutto ciò
conobbi che
ero una sostanza la cui essenza
o natura
sta solo nel pensare e che per
esistere non
ha bisogno di alcun luogo né
dipende da qualcosa
di materiale. Di modo che questo
io, e cioè
la mente per cui sono quel che
sono, è interamente
distinta dal corpo, del quale
è anche più
facile a conoscersi; e non cesserebbe
di
essere tutto quello che è.»
Un ruolo attivo nello sviluppo di arti, tecniche
e mestieri: scuole di formazione professionale
Il "Discorso" sul metodo voleva
rapprentare in forma accessibile a lettori
non eruditi la possibilità di potenziare
la propria padronanza delle tecniche e delle
scienze. Alle parole seguirono i fatti, o
meglio, alcune iniziative volte a sviluppare
l'istruzione tra artgiani, apprendisti, imprenditori
e mercanti. Questo impegno cartesiano per
saldare istruzione e lavoro, offrire nuovi
sbocchi professionali, è stato generalmente
minimizzato, se non omesso, dagli storici.
In realtà si trattò di un impegno costante,
motivato dalla convinzione che scienze e
tecniche siano un bene comune a cui dovrebbero
avere libero accesso tutti gli esseri umani,
comprese le donne.
Precedenti di Descartes
L'idea che i filosofi particolarmente originali
non abbiano precedenti è sicuramente ingenua
e si lega strettamente alla insopprimibile
tendenza di alcuni umani a mitizzare la figura,
onde renderla oggetto di culto più che occasione
per meditare. Descartes si può riportare
a Platone, agli scettici, a pezzi di stoicismo,
nonchè a diversi pensatori di epoche più
recenti. In Soggetto e fondamento, Salvatore Natoli (5) provò ad isitituire
un rapporto diretto con Aristotele molto
stimolante, portando alla luce particolari
determinanti sfuggiti ad altri studiosi.
Il neoscolastico Etienne Gilson suggerì di
cercare negli scritti di Avicenna, il filosofo
medioevale arabo Ibn Sina. Sono tutte operazioni
giustificabili, specie se si contrappongono
alla mitizzazione, e in epoca più recente,
alla demonizzazione - si pensi a come Heidegger
trattò Descartes. A noi è parso saggio offrire
in questa sede una rassegna parziale dei
tentativi di contrastare la mitizzazione.
Sulla lotta alla demonizzazione, speriamo
si comprenda che il nostro è un primo modesto
contributo.
Avicenna, un probabile ispiratore
«La logica di Avicenna
- scrisse Gilson
- poggia come quella di Aristotele,
sulla
distinzione fondamentale del
primo oggetto
dell'intelletto, che è l'individuo
concreto
(intentio prima) e il suo oggetto
secondo
che è la conoscenza stessa del
reale (intentio
seconda). L'universale è una
seconda intenzione,
ma Avicenna la concepisce in
modo diverso
da Aristotele. Per lui ogni nozione
universale
definisce una specie di realtà
mentale che
si chiama l'essenza; ciascuna
essenza si
distingue dalle altre per delle
proprietà
definite. Le essenze esprimono
esattamente
il reale da cui il pensiero le
astrae. La
conoscenza logica ha dunque una
portata fisica
e anche metafisica, non nel senso
che la
realtà sarebbe fatta di idee
generali, ma
perchè la generalità logica degli
universali
e la loro stessa predicabilità
esprime questa
proprietà fondamentale che ha
l'essenza di
essere una e medesima, qualunque
sia l'individuo
che la possiede. Da ciò deriva
che, nell'ordine
delle essenze, tutto ciò che
si può pensare
a parte e distintamente è realmente
distinto
da ciò a parte del quale lo si
pensa. Questo
principio trova nella filosofia
di Avicenna
numerose ed importanti applicazioni.
Per esempio, un'anima unita ad
un corpo,
ma che non ricevesse alcuna sensazione
esterna
nè interna, sarebbe ancora capace
di conoscere
sè stessa, di pensare e di sapere
che pensa.
Un'anima può dunque concepirsi
distintamente
senza riferimento al corpo; di
conseguenza
l'essenza dell'anima è diversa
da quella
del corpo, e l'anima è realmente
distinta
dal corpo.» (6)
Nulla vieta di credere che Cartesio
conoscesse
il pensiero di Avicenna in modo
superficiale
e riassuntivo, oppure lo conoscesse
profondamente.
Gli storici del pensiero non
sempre dispongono
di tutti i dati necessari a formarsi
un'opinione
fondata. Tuttavia, è palese che
muovendo
da Avicenna si poteva arrivare
ad una riflessione
filosofica di tipo cartesiano.
Resterebbe
da vedere quante volte il nome
di Avicenna
ricorre nei testi cartesiani.
Non sembra
ve ne sia traccia, al momento. Nicola Abbagnano, dal canto suo, individuò
in Agostino e in Tommaso Campanella due approcci
vicini a Descartes. La tesi di Abbagnano
non ha la medesima finezza di quella di Gilson,
ma occorre prenderla in considerazione.
Analogie e differenze: Agostino
e Campanella
«Cartesio - scrisse Abbagnano - ha
indubbiamente ripetuto (se consapevolmente
o no, è impossibile dire) un movimento di
pensiero che rimonta a S. Agostino, che da
S. Agostino è passato nella Scolastica, ed
stato ripreso da Campanella quasi contemporaneamente
a Cartesio. Ma non c'è dubbio che come Cartesio
stesso affermò. S. Agostino si era servito
del cogito per fini assai diversi dai suoi.
Egli mirava al riconoscimento della presenza
trascendente di Dio nell'uomo; e nella tradizione
medievale il cogito agostiniano conserva
lo stesso valore. Quanto a Campanella, si
è visto che il principio vale per lui unicamente
come fondamento di una teoria naturalistica
della sensazione. Ma ciò che rende il distacco
radicale che c'è tra i precedenti storici
del cogito cartesiano siano il cogito stesso,
è che tra essi manca il carattere problematico che in virtù del cogito viene ad assumere
ogni realtà diversa dall'io.
Per la prima
volta Cartesio ha fatto valere
il cogito
come rapporto dell'io con se
stesso, quindi
come principio che rende problematica
ogni
altra realtà e nello stesso tempo
consente
di giustificarla. Soltanto Cartesio
ha realizzato
il pieno valore del cogito [...]»
(7)
In realtà, se si segue Gilson,
"il pieno
valore del cogito" fu conseguito
da
Avicenna.
Precedenti nel metodo
Anche focalizzando l'attenzione sul metodo si possono incontrare antecedenti. L'elenco
è molto lungo e si dubita, giustamente, che
un non specialista trovi il tempo di verificarlo
con ricerche e letture dedicate. Tuttavia,
dato che siamo in possesso di una documentazione parziale, non c'è ragione
di nasconderla. In epoca recentissima, ovvero
nell'anno 1600, era stato pubblicato postumo
De Methodo libellus, composto da Adrien Turnebus (1512-1565),
sul quale sappiamo assai poco. Di metodo
avevano parlato in epoca rinascimentale Rodolfo
Agricola, Jean Louis Vives, Melantone, Johann
Sturm, Pierre de la Ramée, Giacomo Aconcio
e Iacopo Zabarella.
La rivoluzione cartesiana
Per comprendere il pensiero di
un filosofo
- non passi per banalità - bisogna
leggerlo.
Sintesi perfette non esistono.
In questa
sede, più che a tentare il solito
"bignami"
ultrariassuntivo, si preferisce
offrire qualche
spunto per ulteriori ricerche.
Si potrebbe
parlare di una teologia cartesiana,
di una
metafisica, di una fisica, di
un'etica, e
persino di un'estetica (Descartes
scrisse
giovanissmo anche un trattato
di musica).
Il vero problema posto dai testi
del filosofo
di Le Haye, alla luce degli svolgimenti
successivi
della filosofia e della vita
culturale e
scientifica, sembra essere quello
della liberazione
del soggetto umano dalla tutela
e dall'oppressione
delle "pedanterie"
degli scolastici.
Il "gesto" cartesiano
fu anti-autoritario.
Non portò ad un azzeramento del
sapere, ma
spinse innumerovoli individui
ad usare la
propria testa, il proprio cogito,
il proprio
ingegno (ed anche la propria
ignoranza) in
modo molto più libero. Nonostante
tutte le
prudenze e gli accorgimenti tattici
messi
in campo, l'impatto eversivo di Descartes e del Discorso sul metodo fu colto da più parti, con diverse sottolineature
e con una variegata tipologia
di reazioni.
Anche un convinto cartesiano
come Malebranche,
ad esempio, si accorse che il
dualismo mente-corpo
poteva alimentare l'ateismo.
Di più: fare
di Dio l'unico garante della
ragione, quando
si ammetta che la ragione stessa
è l'unica
garante dell'esistenza di Dio,
sembra trascinare
in un paradosso vizioso. Solo
il filosofo,
notava Malebranche, è in grado
di comprendere
gli argomenti cartesiani nella
loro complessità,
la gente comune si può solo illudere
di aver
compreso. Ecco che il potenziale
liberatorio presente nel pensiero di Descartes viene
neutralizzato, se non esorcizzato,
da Malebranche.
Leggendo Descartes, chiunque potrebbe sentirsi
autorizzato a fare filosofia senza conoscere
la storia della filosofia. Possibile? Sulla
linea di riflessioni di Malebranche si collocò
un grande della psicodinamica contemporanea
come Pierre Janet, il quale individuò l'origine
delle psicosi nell'ignoranza e nelle credenze
superstiziose. D'altra parte, la lettura
di Descartes è un pezzo, per nulla trascurabile,
della storia della filosofia. In tale ordine
di considerazioni finì anche Kant, in modo
assai meno primitivo di Descartes e con alle
spalle letture non solo di antichi e medievali,
ma anche di moderni come lo stesso Descartes,
Newton, Leibniz, Hume e Rousseau. Il filo
che lega Descartes a Kant non è tenue: per
quest'ultimo l'illuminismo sarà l'uscita da uno stato di minorità, ovvero
portare il maggior numero di
esseri umani
a ragionare con la propria testa.
In fondo,
la stessa causa propugnata da
Descartes,
e prima di lui da Comenio, il
paladino dell'insegnare tutto a tutti. Ma come si fa ad insegnare tutto a tutti
se le capacità di ciascuno sono limitate
in primo luogo dalle differenze ambientali
e sociali, e poi dalle capacità e dall'intelligenza
singolare? Proprio dell'intelligenza occorre
parlare.
Descartes logico non sillogico?
Uno dei tanti paradossi cartesiani sui quali
occore attirare l'attenzione
è riformulabile
come rigetto del sillogismo. Senza correre immediatamente a cercare
analogie con Bacon, altro storico
avversario
della deduzione sillogistica,
si può tornare
a riflettere sull'insegnamento
cartesiano,
aprendo gli armadi che lo custodiscono
e
scoprendo non già scheletri,
ma messaggi
chiari e distinti. Nelle Regulae ad directionem ingenii, opera rimasta inedita fin dopo la morte,
anche perché volutamente incompletata,
erano
abbozzate una prima teoria dell'immaginazione,
la concezione delle nature semplici,
una
traccia della teoria della percezione,
la
riduzione della corporeità a
mera estensione,
la divaricazione - forte e traumatica
- tra
estensione e pensiero, una inquietante
anticipazione
del cogito ergo sum, formulata in modo invero sorprendente:
Sum ergo Deus est. Roba da manicomio se espressa da individuo
ignorante, anche ai giorni nostri,
pregiatissima
proposizione filosofica se sparata
sul pubblico
dei dotti da un dotto capace
di meravigliare.
Non fu sparata. Descartes era
consapevole
del pericolo di paragonarsi,
se non a Cristo,
quantomeno allo Spirito Santo.
Insomma, Descartes
non era pazzo, ma assai saggio
ed accorto
nella gestione delle proprie
pubblicazioni
e nella divulgazione del proprio
pensiero.
Tuttavia, egli conservò le Regulae in cassetto ed oggi possiamo leggerle. Sicuramente
confidava nel fatto che un giorno
qualcuno
le avrebbe comprese, pubblicate,
rilanciate
e spiegate. Come del resto è
successo. L'intuito
è il grimaldello in grado di
aprire molte
serrature, ma come si fa ad aprire
l'ultima
serratura se non si dispone dell'intuito
per aprire il concetto di intuito?
Si è escluso
trattarsi del nous aristotelico (e anassagoreo), forse con
troppa precipitazione.
Ettore Lojacono ha contribuito
a ridesignare
la questione. «Accanto
all'intuito,
la deduzione: secondo atto conoscitivo,
fonte
però di non pochi equivoci, ché
rari sono
stati gli studiosi del pensiero
cartesiano
che come Clark 1982), hanno avvertito
che
all'inizio del XVII secolo l'arco
semantico
di deducere/déduire era assai ampio, sì da comprendere vari
significati. Fra questi, il trarre
da, il
raccontare a lungo, lo svolgere
argomenti,
il narrare, il dimostrare e anche,
ovviamente,
altri più prossimi alla logica,
quali lo
stabilire illazioni da un termine
a un altro
o il "moto ininterrotto
del pensiero
che trascorre da singola cosa
a singola cosa,
tutte perspicuamente intuite,
sino a costituire
una serie compiuta ove il primo
con l'ultimo
elemento appaiono congiunti", arco semantico che il filosofo ha utilizzato
nella sua interezza.» (8) Nelle Regulae, la deduzione, secondo Lojacono, è impiegata
in termini prossimi alla logica
antica, ma
assai distanti dai procedimenti
attuali,
nonché dalla logica sistemata
dagli scolastici
nelle quattro figure e nei diciannove
modi
del sillogismo. «Nella
inferenza cartesiana
il passaggio da un elemento all'altro
rimane
pertanto garantito di volta in
volta da atti
dell'intuito, sì che nella essenzialità
la
"sua" deduzione sembra
non essere
altro che una successione più
o meno ampia
di rapporti concatenati, di folgorazioni
intuitive garantiti dall'attenzione
e dalla
memoria.» Un elogio del
nous cartesiano, il quale, tuttavia, bisognerebbe
dimostrare realmente diverso da altri nous, ad esempio, quello di Francis Bacon, che
lo aveva di non poco preceduto sulla strada
della rivalutazione del soggetto conoscente,
in condizione di relativa autonomia intuitiva,
ossia non pesantemente condizionata dalle
dottrine tradizionali insegnate nelle Accademie,
nelle Università, nei circoli esoterici.
Il nesso Bacon-Descartes, a questo punto,
potrebbe diventare più evidente. Comune atteggiamento
"spirituale"? Quantomeno, una notevole
affinità nel considerare i risvolti pratici
dell'attività derivante dalla "sapienza
di chi fa" e non si limita alle chiacchiere.
In fondo, entrambi mirarono a smascherare
l'insipienza e la pochezza inconcludente
del puro ingegno speculativo. In entrambi,
il richiamo alla sapienza capace di operatività
diventò a sua volta operativo.
Ordinare il sapere con metodo, usare il metodo
per intuire
Che il metodo serva ad ordinare il sapere,
e insieme a preparare la scoperta di nuove
informazioni da rielaborare e ordinare in
nuovo sapere, al giorno d'oggi e dopo tonnellate
di irrazionalismo novecentesco, non è affatto
scontato. Probabilmente, occorre prender
atto che esiste più di un metodo e che nessuno
è in grado di stabilire quale sia quello
più valido se non tornando a se stessi, cominciando
da un resoconto delle proprie intenzioni,
dei dubbi sorti sia in relazione alla via
migliore da seguire per soddisfare l'intenzione
conoscitiva.
«Per metodo intendo regole
certe e
facili, grazie alle quali chiunque
le avrà
rispettate in modo esatto non
assumerà mai
il falso come vero e senza stancare
la mente
con sforzi inutili, ma sempre
aumentando
per gradi il sapere, perverrà
alla vera cognizione
di tutte le cose di cui sarà
capace.»
(A.T. , X, 372)
Il metodo è concepito come via
per eliminare
il pregiudizio e per concentrare
l'attenzione.
E' un modo sicuro per evitare
percezioni
caotiche e seguire impulsi di
pura curiosità,
destinata a perdersi nel caos.
Ricorrendo
al mito di Teseo, accennò al
filo d'Arianna.
Si entrà nel labirinto delle
conoscenze mirando
dritti all'obiettivo. Si tiene
saldamente
il filo e si sa come uscirne.
Se inferire
significa trarre con successivi
atti intuitivi
argomento da argomento, oggetto
da oggetto,
relazione da relazione, la deduzione
stessa
non si può che ricavare dal sintagma
ordine/disponere, che è il più ricorrente nelle Regulae. Bisogna trovare i criteri. Ettore Lojacono
osservava: «Tali criteri
convergono
sulla precedenza da accordare
all'"assoluto",
cioè alle cose determinabili
autonomamente,
a ciò che è sciolto da ogni precedente
condizione,
insomma a quel che è primo di
una serie possibile,
sul "relativo", cioè
su quelle
cose la cui conoscenza non è
immediatamente
intuibile, perché appunto dipendenti
dal
primo termine di una relazione,
come per
esempio il composto dal semplice,
l'effetto
dalla causa, il difficile dal
facile. L'ordine,
dunque, è la nozione chiave,
spesso identificata
con il metodo, che il filosofo
stesso stima
come il maggior segreto dell'arte.»
(9)
Conseguire certezze oltre la matematica,
in barba alla matematica
Descartes fu convinto della possibilità di
conseguire certezze. Concentrato sul tema,
che è "parola" ed insieme situazione
psicologica, arrivò ad enumerare, ovvero
a fare un elenco dei modi per arrivare a
certezze. Considerò anche l'impulso, ma solo per circoscriverlo, essendo estraneo
al metodo della ragione. Puntò sulla deduzione, nella forma assai libera che si è vista,
e considerò la congettura. Questa si può ritenere un procedere speculativo
che, tuttavia, non inganna a condizione che
la si tenga nella sfera del probabile. Un
esempio di congettura venne offerto dal modo
di considerare il lavoro degli astronomi.
«Interessa poco se [certe cose] non
vengono considerate più vere di quei cerchi
immaginabili con i quali gli astronomi descrivono
i loro fenomeni: è sufficiente che con il
loro aiuto si distingua quale cognizione
possa essere vera e quale falsa.» (A.
T., X, 417) Considerazione che, tuttavia,
andrebbe letta in contraddittorio con quanto
affermato in precedenza: «gli astronomi
che, pur muovendo da supposizioni quasi tutte
false o poco sicure, tuttavia, dato che queste
si riferiscono a diverse osservazioni da
essi fatte, non mancano di trarne molte conseguenze
verissime e certissime.» (A. T., VI, 83)
E' notevole che Descartes non abbia preso
posizione nei confronti delle teorie di Tycho
Brahe, di Kepler, di Galilei se non in questa
forma assai distante e priva d'entusiasmo.
E' altrettanto notevole che abbia considerato
le loro procedure, nel complesso, assai poco
affidabili e, allo stesso tempo, abbia riconosciuto
il loro valore euristico. E' molto probabile
- anche questa una sarebbe una congettura,
ma robusta - che il vero pensiero di Descartes
fosse nutrito di diffidenza nei confronti
del metodo degli astronomi. La matematica
in sé da certezze, ma la matematica applicata alla
fisica non aggancia la realtà del mondo nella sua complessità.
Dopo il 1629, sembra pressoché certo che
Descartes abbia abbandonato gli studi matematici.
La sua "fisica" sarà una fisica
priva di matematica, e susciterà l'avversione
di Newton e dei suoi seguaci, giù fino a
Voltaire, Laplace e Fourier, il quale, in
certo senso, si può considerare come il campione
di un atteggiamento anti-cartesiano. Una
delle ipotesi avanzate, agganciata alle Meditaitones, è che Descartes si fosse convinto che la
matematica potesse dare solo certezze psicologiche
e non certezze di assoluta evidenza rispetto
al cogito. (10) A proposito della III meditatione, Sergio Landucci notava: «E tuttavia,
di qui concludere che allora neppure le verità
matematiche sarebbero dubitabili, sarebbe
anche questo in contrasto con tutte le Meditazioni.
A leggere con attenzione, il senso è invece
che le verità matematiche sono sì indubitabili,
però esclusivamente dal punto di vista psicologico,
e niente affatto dal punto di vista epistemologico,
di fondazione della conoscenza.»
La scienza di Descartes non era quella di
Galilei e di Newton
Sicché ci si trova a considerare il paradosso.
Quello che si è considerato il filosofo meccanico per eccellenza, in realtà non condivise,
se non in parte e con le riserve che abbiamo
visto, il principio fondamentale della meccanica,
ovverossia quello della calcolabilità dei movimenti fisici. La "fisica"
cartesiana non ebbe che un successo relativamente
effimero. Furono Newton e Roger Cotes a darle
un colpo mortale e i filosofi non newtoniani
non si sentirono quasi mai attratti dalla
vertiginosa profondità speculativa della
fisica e della metafisica cartesiane. Si
ebbe un ritorno a Descartes solo con Edmund
Husserl, il quale, tuttavia, non mancò di
elevare una critica alla mancata sottrazione
dell'ego cogitans cartesiano alla signoria
del mondo della vita. Come a dire che un
ego che sprofonda nell'anima è solo un'anima
(una mente) che riflette superficialmente
su se stessa e poi si rigetta a giudicare
il mondo, e non l'io puro cercato da Husserl
con una prolungata sospensione del giudizio
mediante l'epoché scettica.
Il meccanicismo cartesiano ed i suoi discendenti,
autentici ed a mezzo servizio
Rispetto all'uomo Descartes,
indubbiamente
un individuo "fuori del
comune",
si può solo dire ch'egli fu sia
consapevole
che parzialmente inconsapevole,
di quanto
stava realmente vivendo in termini
di armonia
e conflitto con i massimi principi
definiti
dalla filosofia e dalla teologia,
nonché
dall'ulteriore e più preoccupante
contrasto
di come si dovrebbero comportare
le guide
spirituali in base ai principi
ed invece
no. Ai tempi dell'avventurosa
esplorazione
del mondo reale, era certamente
meno consapevole
e più entusiasta. Successivamente,
si fece
più saggio e prudente. In ogni
caso, si potrebbe
dire che egli fu protagonista,
ed insieme
spettatore, di esperienze estreme
e contraddittorie.
La più controversa di tali esperienze
portò
il pensatore alla contrapposizione
secca
tra res cogitans e res extensa. Gli esseri umani pensanti da una parte, tutto il resto del vivente
e del non vivente dall'altra. Negando l'esistenza
di una vita vegetativa e, soprattutto, di
una psicologia animale non automatica, Descartes
violò apertamente un sistema di credenze
che non apparteneva solo ai dotti, ma al
senso comune, agli amanti dei cani da compagnia,
ai letterati che accarezzavano i micetti
nel proprio studio, a quegli stallieri che
si prendevano cura giudiziosa dei puledri
affidati loro, ai giardinieri che assegnavano
un'anima ed un'essenza ad ogni fiore. Riducendo
ad automi meccanici tutti gli esseri viventi,
ad eccezione di uomini e donne, Descartes
si rese responsabile di un duplice sconvolgimento.
In un certo senso fu osannato in quanto tentò
di rendere tutti gli umani simili a Dio perché
dotati di intelletto e ragione. Dall'altro
fu attaccato per le medesime ragioni: l'uomo
non è simile a Dio perché è marchiato dal
peccato originale. Ciò è il massimo impedimento
alla realizzazione della conoscenza assoluta:
impossibile. Per questo occorre aver fede
nella rivelazione.
Nel corso del Novecento alcuni autori si
scagliarono contro Descartes. Si cominciò
a prenderlo come bersaglio cui tirare, a
considerarlo come responsabile di tutte le
disgrazie, della riduzione della natura a
cosa. Una tiritera infinita, ed ormai assai
noiosa ed inconcludente, almeno tanto quanto
lo erano state le filosofie scolastiche ai
tempi di Descartes. In mezzo a tante esagerazioni,
c'è sicuramente una critica più fondata e
giustificata delle altre. Descartes utilizzò
la teoria della circolazione del sangue sostenuta
da William Harvey (Discorso - parte V) per dimostrare che anche il corpo
umano è un meccanismo. Oggi si sa che non
è così, che esiste una stretta relazione
tra le attività dell'anima - o se si preferisce
- della mente e quelle del corpo. Ma i residui
di una terapeutica "cartesiana"
si annidano ancora nel corpo stesso degli
apparati sanitari, nella logica dell'industria
farmaceutica e così via. Ciò non è del tutto
sbagliato, anche se desta, in questa luce,
sensate preoccupazioni. Se con i trapianti
si è aperta una via nuova alla sopravvivenza
è perché si è convinti che le parti del corpo
sono sostituibili. Se si fabbricano protesi
è perché, molto giustamente, si sostiene
che un arto artificiale può aiutare a vivere
l'handicap in modo migliore. Se ci sono parti
del corpo che possono essere trattate meccanicamente;
come si può dar torto a Descartes su tutta
la linea?
Giunti a questo punto, crediamo si sia offerto
più di uno spunto per incrementare la domanda
su Descartes. La nostra offerta è al momento
limitata. Ulteriori approfondimenti verranno
prossimamente e seguiranno una logica pià
specialistica, del tipo "la fisica di
Descartes", "la metafisica di Descartes","l'etica
di Descartes e la sua morale provvisoria"
e così via. A partire da una critica rivolta
ad Hobbes, potrebbe anche apparire una scheda
su "Descartes e la politica". Nel
frattempo ci auguriamo che la semina procuri
un buon raccolto e che giungano contributi
sia su Descartes che su temi ed autori che
in vario modo si possano connettere a Descartes,
come ad esempio Isaac Beeckman, i Rosa-Croce,
le scuole gesuitiche, la pedagogia protestante,
Riforma e Controriforma, i conflitti nazionali,
i filosofi francesi di scuola cartesiana,
la critica di Voltaire a Descartes, eccetera.
Note:
1) Nicola Abbagnano - Storia della filosofia - volume IV - TEA edizione 1997
2) René Descartes - Discorso sul metodo - Editori Riuniti 1982
3) citazione di seconda mano.
Proviene da:
Paola Zambelli - L'ambigua natura della magia - Il Saggiatore 1991
4) Frances A. Yates - L'illuminisimo dei Rosa.croce - Einaudi 1972
5) Salvatore Natoli - Soggetto e fondamento - Antenore 1969, poi rivisto, e ristampato
da Feltrinelli.
6) Etienne Gilson - La filosofia nel Medioevo - 5° ristampa Laterza 1990
7) Nicola Abbagnano - idem
8) Ettore Lojacono - Cartesio La spiegazione del mondo fra scienza
e metafisica . prima edizione ne I quaderni de Le scienze
n° 16 - ottobre 2000
9) idem
10) si veda in proposito l'intelligente
e
documentata introduzione di Sergio
Landucci
alle Meditazioni metafisiche - Laterza 1997
moses - febbraio 2013
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«Ci accingiamo ora a chiarire realmente
il senso unitario dei movimenti filosofici
moderni, nell'ambito dei quali verrà presto
in luce il ruolo svolto dallo sviluppo delle
nuova psicologia. A questo scopo dobbiamo
rivolgerci all'originario genio fondatore della filosofia moderna nel suo complesso:
Cartesio»
Edmund Husserl, da La crisi delle scienze europee e la fenomenologia
trascendentale
Il collegio di La Flèche
Nel 1594 i gesuiti erano stati espulsi dalla
Francia per ragioni politiche legate all'attentato
al re Enrico IV, che tuttavia era sopravvissuto.
Cadrà infatti vittima di un altro attentato
nel 1610. I gesuiti poterono dunque rientrare
e nel 1603, "sotto stretta sorveglianza
statale", diedero vita al Collège, importando
dal Portogallo un sistema pedagico-didattico
redatto e corretto da Claudio Acquaviva.
L'insegnamento prevedeva nove anni di studi.
I primi quattro dedicati alla grammatica,
il V e il VI alla retorica, gli ultimi tre
alla filosofia, ossia alla logica, alla fisica,
alla metafisica e alla morale. Si studiava
su testi aristotelici, letti e commentati
in base all'interpretazione offerta dal Collegio
di Coimbra. Quei commentari, molto aggiornati,
costituivano, insieme alla Summa quadripartita di Eustachio di San Paolo e ai manuali di
logica di Antonius Rubius e Abra de Raconis,
il severo percorso formativo che ogni allievo
doveva seguire. Nella Ratio studiorum gesuitica era prevista la possibilità per
gli studenti più dotati e curiosi di accedere
ad insegnamenti supplementari. Fu così che,
quasi sicuramente l'adolescente Descartes
venne a conoscenza della Perspectiva di Witelo (XIII secolo), il più significativo
trattato di ottica del tempo, e godere dell'insegnamento
di alcuni matematici come Christophorus Clavius.
Questi non si limitava all'insegnamento di
Euclide, ma aveva introdotto le Collectiones mathematicae di Pappo alessandrino.
Un punto essenziale dell'esperienza
giovanile
di La Flèche, che non è sfuggita a
numerosi
studiosi, fu l'esercizio spirituale
secondo
le indicazioni di Ignazio di Loyola.
Le meditazioni
cartesiane, in effetti, furono stimolate
da questa abitudine al ritiro interiore,
anche se poi presero tutta altra strada.
Isaac Beeckman
Qualche informazione è reperibile qui.
Ma
il materiale è insufficiente (leggi)
I sogni di Descartes
Interpellato da uno studioso di Descartes,,
anche Freud incontrò qualche problema nella
loro interpretazione. Si limitò ad osservare
che sembravano sogni assai prossimi al pensiero
cosciente. Leggi
La bestia nera di Descartes: Gisbert Voetius (leggi)
Descartes come rappresentante della teologia
filosofica
«Appare problematico se e in quale
nisura il pensiero di Descartes debba essere
definito una teologia filosofica. Con questo
autore si è soliti far iniziare la filosofia
moderna, nel senso che con lui il tema "uomo"
subentra al tema "Dio" che domina
la filosofia medioevale. In effetti avviene
qualcosa di simile. L'uomo, il soggetto,
diviene, nell'epoca moderna, argomento d'indagine
in misura crescente e con ciò oggetto della
problematica filosofica in modo particolare.
Questo però non può essere inteso come un
processo lineare. In ogni caso, per quanto
lo concerne, Descartes è a pieno titolo un esponente della
teologia filosofica, malgrado il suo intenso
sforzo di giungere a una certezza di sé dell'io,
e lo è in tale misura da poter degnamente
collocarsi a fianco dei grandi teologi medioevali.»
(da Il Dio dei filosofi di Wilhelm Weischedel)
Cartesiani contro Cartesio
Jacques-Bénigne Bossuet: «Io vedo [..] prepararsi una grande
battaglia contro la Chiesa sotto il
nome
della filosofia cartesiana. Vedo nascere
dal senso di questa e dai suoi principi,
a mio parere malintesi, più di un'eresia,
e prevedo che le conclusioni scaturitene
contro i dogmi osservati dai nostri
padri
finiranno per renderla detestabile,
facendo
perdere alla Chiesa tutto il frutto
che poteva
sperarsene per fissare nell'animo dei
filosofi
l'idea della divinità e dell'immortalità
dell'anima..
Un altro terribille flagello, derivante
da
quei principi male interpretati, attanaglia
sensibilmente gli animi, giacché, col
pretesto
che si deve ammettere solo quanto è
inteso
con chiarezza, quanto, entro certi
confini,
è assolutamente veritiero, ciascuno
può prendersi
la libertà di affermare: io intendo
questo,
ma non quello, e su questo solo fondamento,
si approva o rifiuta tutto , e ciò
senza
immaginare che, oltre le nostre idee
chiare
e distinte, ve ne sono pure di confuse
e
vaghe, tali da nom consentire di infirmare
verità così essenziali che, una volta
negate,
tutto risulta rovesciato. Si introduce,
con
questp pretesto, una libertà di giudizio,
che, senza alcun riguardo alla tradizione,
permette di affermare tutto quanto
si pensa;;
mai un tale eccesso si è verificato,
io credo,
prima dell'affermazione del nuovo sistema...»
(da Lettre à un disciple du pére Malebranche, citato in Storia dell'ateismo di Georges Minois - Editori Riuniti 2000)
Leggi di natura
Malgrado gli storici abbiano opinioni
diverse
sulla genesi delle scienze moderne,
moltissimi
concordano nell'attribuire a Descartes
il
merito e la responsabilità di aver
dato un
significato preciso al termine "legge
di natura", quello che è ancora
di uso
corrente. La qual cosa fu di straordinaria
importanza, soprattutto per la scienza
fisica
e la relativa egemonia da questa esercitata
nei confronti della chimica e della
biologia.
Galilei ed altri prima di lui erano
stati
molto più parchi e misurati, parlando
a volte
di regulae, ratio e proportio, altre di dettati divini e ordine dell'universo.
Tra gli antecedenti si potrebbero citare
Francis Bacon - che parlò di "leggi
del moto" e di "leggi d'azione"
-, Kepler, lo stesso Copernico. In qualche
trattato, il termine "legge" aveva
già fatto il suo ingresso, tuttavia era evidente,
soprattutto da parte di Galilei, una certa
tendenza ad evitare di mescolare questioni
di fisica e questioni di teologia. Curiosamente,
sia la legge scoperta da Galilei sulla caduta
dei gravi, sia le tre leggi scoperte da Kepler,
non erano state definite come tali nei rispettivi
trattati.
Nella V parte del Discorso sul metodo, caddero tutte le resistenze e Descartes
fece apertamente ricorso al termine "legge".
Nei Principia Philosophiae, dopo opportuna attribuzione a Dio della
«causa primaria e universale»
di tutto il moto presente nell'universo,
Descartes aggiunse: «Noi conosciamo
anche che è una perfezione di Dio non solamente
di essere immutabile nella sua natura, ma
anche di agire in un modo che egli non cambia mai [...]
donde segue che, poiché ha mosso in molte
maniere differenti le parti della materia,
quando le ha create, e le mantiene tutte
nella stessa maniera e con le stesse leggi
ch'Egli ha fatto osservar loro nella creazione,
conserva incessantemente in questa materia
un'eguale quantità di movimento.» (1a) Un Dio che non è soggetto a cambiare, dunque,
autorizza a credere che «noi possiamo
pervenire alla conoscenza di certe regole,
che io chiamo le leggi di natura, e che sono
le cause seconde dei diversi movimenti.»
(2a) Nessuno fu più chiaro ed esplicito prima
di lui.
Da questi passi si può facilmente inferire
che Descartes considerava le leggi naturali
come immutabili e necessarie (non può essere
altrimenti) e con validità universale. Ciò
nei secoli a venire renderà più chiara e
distinta la via della ricerca scientifica
rispetto a quella della metafisica, ma non
sarà grazie a Descartes. I cartesiani uscirono
infatti sconfitti dal confronto con i newtoniani
e non se la passarono troppo bene nemmeno
nel rapporto con Leibniz e i suoi sostenitori.
1a) la citazione è tratta da I Principi della filosofia di Eugenio Garin - Laterza 1967
2a) idem
La mathesis universalis...impossibile
«Per una breve stagione della
sua esistenza,
che ha coinciso con la stesura dei
primi
materiali utilizzati nelle Regole, Descartes aveva intravisto - ispirato forse
da una tradizione che affondava le
proprie
radici nel neoplatonismo - di poter
comunicare
la sua conoscenza del mondo ricorrendo
a
una scrittura formalizzata, puramente
matematica-geometrica,
di assegnare quindi statuto di scientificità
alle sole cose trascrivibili secondo
i parametri
dell'ordine o della misura, scrittura
che,
con nome antico, chiamò "mathesis universalis"»
«Tale progetto lo ha portato a pensare
la propria concezione epistemica in una dimensione
assolutamente utopica che, sul piano strettamente
teorico, non ha mai ricusato, in quanto scienziato,
impegnato nella ricerca di filosofia naturale,
ha dovuto però presto abbandonarla. Ed è
proprio qui nelle regole (A, T. X, 393-394)
che, riflettendo sulla forma della lente
necessaria alla costruzione del cannocchiale
(l'anaclastica), è portato a precisare che
nell'ambito della fisica non si può rinunciare
al linguaggio ordinario, cui d'altronde non
aveva rinunciato nessun artefice della rivoluzione
scientifica....»
(da Ettore Lojacono - Cartesio / La spiegazione del mondo fra scienza
e metafisica . prima edizione ne I quaderni de Le scienze
n° 16 - ottobre 2000)
Su Cartesio e i rosacroce
La regina Cristina di Svezia
Discorso sul metodo (testo integrale)
La fisica di Descartes
Sistema di riferimento cartesiano
Retta nel piano cartesiano
Estetica cartesiana?
«La musica ha lo scopo di divertire e di suscitare
in noi diversi sentimenti. Si possono
comporre
melodie tristi e ciò nonostante piacevoli,
senza che così gran contrasto ci provochi
meraviglia: per cui elegiaci e tragici
riscuotono
tanto maggior successo quante più lacrime
ci fanno piangere.» (René Descartes dal Compendio di musica scritto a vent'anni e dedicato ad Isaac
Beeckman) Definire la musica? E perché? Cartesio vi
rinunciò, molto coscienziosamente, andando
subito al sodo, cioè a quella che, secondo
lui, ed anche secondo moltissimi altri, era
la funzione sociale della musica, descritta in modo tanto
conciso quanto efficace e non privo di ironia.
Purtroppo, anche sbrigativo. Se oggi guardiamo
a tale scelta con relativa insoddisfazione,
non è perché ci manchi la definizione, visto che tutti sappiamo cosa sia la musica
in generale, e cosa sia per ognuno di noi
in particolare. . Qui basta rammentare che
far musica è un'arte particolare, e che la musica
è espressione di quell'arte, il risultato
concreto del lavoro di individui in grado
di padroneggiarla mediante strumenti.
Se siamo insoddisfatti della descrizione
cartesiana non è perché sia risultata
innegabilmente
falsa. Semmai incompleta e parziale.
La maggior
parte degli individui che ascolta musica,
tuttavia, potrebbe ripetere pari pari
le
parole del filosofo. «La musica
mi
diverte e mi rilassa; a volte mi fa
piangere.»
Da sapere
Il termine "barocco" derivò
da
un sillogismo aristotelico, il più
complesso:
baroco
Pierre de la Ramée
Jacopo Zabarella
Filippo Melantone
Husserl e Descartes
«La conoscenza filosofica è secondo Cartesio assolutamente fondata; essa deve basarsi su un fondamento conoscitivo
immediato ed apodittico, che, nella
sua evidenza,
escluda qualsiasi dubbio possibile.
Qualsiasi
passaggio mediato dalla conoscenza
deve giungere
appunto a una simile evidenza. Uno
sguardo
d'insieme alle sue precedenti convinzioni,
quelle che egli ha ereditato e assunto,
basta
a fargli rilevare che ovunque si presentano
dubbi e possibilità di dubbio. In questa
situazione, è inevitabile che egli,
come
chiunque voglia diventare seriamente
filosofo,
cominci con una specie di epoché scettica
che pone in questione l'universo di
tutte
le sue precedenti convinzioni, che
evita
di usarle in modo qualsiasi nei giudizi,
che sospende qualsiasi presa di posizione
rispetto alla loro validità o non-validità.
Ogni filosofo, almeno una volta nella
vita,
deve procedere così, e se non l'ha
fatto,
anche se già dispone di una propria
filosofia,
bisogna che lo faccia. Questa sua filosofia
anteriore all'epoché deve dunque esser
considerata
alla stregua di un pregiudizio qualsiasi.»
[...] «se io sospendo le prese
di posizione
rispetto all'essere o al non-essere
del mondo,
se mi astengo da qualsiasi validità
d'essere
che si riferisca al mondo, con quest'epoché
non mi è negata qualsiasi validità
d'essere.
Io, io che opero l'epoché, non rientro
tra
i suoi oggetti, piuttosto se la opero
in
modo realmente radicale ed universale
- sono
escluso di principio dal suo ambito.
Io sono
necessariamente perché sono colui che
la
opera.Proprio per questo trovo quel
terreno
apodittico che cercavo, e che esclude
assolutamente
qualsiasi dubbio. Qualunque sia portata
del
mio dubbio, e anche se cerco di pensare
che
nulla è, né nel dubbio né nella verità,
resta
assolutamente evidente che io, in quanto
dubito, in quanto nego, sono. Un dubbio
universale
si risolve necessariamente da sé.»
«Ma rimane da aggiungere una
cosa,
una cosa particolarmente sorprendente.
Mediante
l'epoché io mi sono spinto fino a quella
sfera d'essere che precede di principio
tutto
ciò che può essere per me e le sue
sfere
d'essere, in quanto è la loro premessa
assolutamente
apodittica. Oppure, il che per Descartes
è lo stesso: io, l'io operante dell'epoché,
sono l'unico elemento che escluda assolutamente
qualsiasi dubbio, qualsiasi possibilità
di
dubbio. Tutto ciò che si presenta altrimenti
come apodittico, ad es. gli assiomi
della
matematica, lascia aperta la possibilità
del dubbio, e quindi può essere pensato
come
falso -; la possibilità della falsità
viene
esclusa...»
«Cartesio non è qui per caso
dominato
preliminarmente dalla certezza galileana
di un mondo universale ed assoluto
di corpi
e dalla distinzione di ciò che rientra
nella
sfera dell'esperienza meramente sensibile
e di ciò che, in quanto matematico,
è oggetto
del pensiero puro? Secondo Cartesio
non è
per caso ovvio che la sensibilità rimanda
a un essente in-sé ma può ingannare,
e che
quindi deve esistere una via razionale
per
giudicarla e per conoscere razionalmente
e matematicamente l'essente in-sé?
Ma tutto
ciò, e persino in quanto possibilità,
non
è forse stato messo tra parentesi mediante
l'epoché? E' evidente che, già in partenza,
Cartesio mira a un fine predeterminato,
malgrado
il radicalismo, malgrado l'assenza
di presupposti
che egli esige; e la localizzazione
di quest'"ego"
non è che il mezzo a questo fine. Egli
non
si avvede che già la convinzione della
possibilità
di un fine e di un mezzo equivale a
un abbandono
del suo radicalismo. Con la mera epoché,
con l'astensione radicale da tutte
le pre-datità,
da tutte le pre-validità mondane, non
si
è ancora fatto nulla; l'epoché dev'essere
attuata seriamente e deve persistere.
L'ego
non è un residuo del mondo, è bensì
la posizione
assolutamente apodittica, che, che
è resa
possibile soltanto dall'epoché, dalla
"messa
tra parentesi" di tutte le validità
del mondo, l'unica che da essa sia
resa possibile.Ma
l'anima è il residuo di un'astrazione
preliminare
del puro corpo: dopo questa astrazione
essa
non è, almeno apparentemente, che un
elemento
integrativo del puro corpo. Ma (e ciò
non
deve essere trascurato) quest'astrazione
non risulta dall'epoché; essa è un
prodotto
dell'atteggiamento del naturalista
o dello
psicologo che operano sul terreno naturale
del mondo già dato, ovviamente essente.»
(Edmund Husserl, da La crisi delle scienze europee e la fenomenologia
trascendentale)
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