Leggi di natura
Malgrado gli storici abbiano opinioni diverse
sulla genesi delle scienze moderne, moltissimi
concordano nell'attribuire a Descartes il
merito e la responsabilità di aver dato un
significato preciso al termine "legge
di natura", quello che è ancora di uso
corrente. La qual cosa fu di straordinaria
importanza, soprattutto per la scienza fisica
e la relativa egemonia da questa esercitata
nei confronti della chimica e della biologia.
Galilei ed altri prima di lui erano stati
molto più parchi e misurati, parlando a volte
di regulae, ratio e proportio, altre di dettati divini e ordine dell'universo.
Tra gli antecedenti si potrebbero citare
Francis Bacon - che parlò di "leggi
del moto" e di "leggi d'azione"
-, Kepler, lo stesso Copernico. In qualche
trattato, il termine "legge" aveva
già fatto il suo ingresso, tuttavia era evidente,
soprattutto da parte di Galilei, una certa
tendenza ad evitare di mescolare questioni
di fisica e questioni di teologia. Curiosamente,
sia la legge scoperta da Galilei sulla caduta
dei gravi, sia le tre leggi scoperte da Kepler,
non erano state definite come tali nei rispettivi
trattati.
Nella V parte del Discorso sul metodo, seguendo l'ordine delle pubblicazioni e
non quello degli scritti, caddero tutte le
resistenze e Descartes fece apertamente ricorso
al termine "legge". Nei Principia Philosophiae, editi nei tormentati anni '40, al termine
di un lungo percorso di studi e ricerche,
dopo opportuna attribuzione a Dio della «causa
primaria e universale» di tutto il
moto presente nell'universo, Descartes aggiunse:
«Noi conosciamo anche che è una perfezione
di Dio non solamente di essere immutabile
nella sua natura, ma anche di agire in un modo che egli non cambia mai [...]
donde segue che, poiché ha mosso
in molte
maniere differenti le parti della
materia,
quando le ha create, e le mantiene
tutte
nella stessa maniera e con le
stesse leggi
ch'Egli ha fatto osservar loro
nella creazione,
conserva incessantemente in questa
materia
un'eguale quantità di movimento.» (1) Un Dio che non è soggetto a cambiare, dunque,
autorizza a credere che «noi possiamo
pervenire alla conoscenza di certe regole,
che io chiamo le leggi di natura, e che sono
le cause seconde dei diversi movimenti.»
(2) Nessuno fu più chiaro ed esplicito prima
di lui.
Da questi passi si può facilmente inferire
che Descartes considerava le leggi naturali
come immutabili e necessarie, dotate di validità
universale. Ciò nei secoli a venire renderà
più chiara e distinta la via della ricerca
scientifica rispetto a quella della metafisica,
ma sarebbe avventuroso sostenere che ciò
accadde grazie a Descartes. La fisica di
Descartes aveva evidenti fondamenti metafisici
ed esprimeva una continuità tra il momento
dell'intuizione-visione del fondamento ultraterreno
e quello della conoscenza mondana. E' quindi
difficile trovare un momento di reale autonomia della scienza dagli assunti metafisici. In
secondo luogo, pur presentandosi come visione-spiegazione
"meccanica" della realtà naturale,
la fisica cartesiana rinunciava alla matematica
e quindi a seguire la via della calcolabità.
I cartesiani uscirono sconfitti dal confronto
con i newtoniani e non se la passarono troppo
bene nemmeno nel rapporto con Leibniz e i
suoi sostenitori. Leibniz rifiuterà infatti
il meccanicismo in linea di principio ed, entrando nel merito,
delle posizioni cartesiane con uno storico
articolo pubblicato nel 1686 (Brevis demonstratio erroris memorabilis Cartesii) parlerà di un "memorabile errore".
Il principio che in natura si conservi costante
la quantità del moto, come prodotto della
massa per la velocità di un corpo, era per
Leibniz palesemente falso. Ciò che si conserva
costante è in realtà la vis viva, equivalente al prodotto della massa per
il quadrato della velocità, ovvero ciò che
successivamente sarà chiamata energia cinetica.
La tre leggi della fisica cartesiana
La natura, come si presenta all'osservazione
umana, è un insieme strutturato, molto diverso
dal caos in cui tutto sarebbe se non esistesse
alcuna legge. Quest'affermazione era parte
del trattato Monde ou Traité de la lumiére, che Descartes rinunciò ad ultimare e pubblicare
dopo la condanna di Galilei. Secondo la prima
legge «ogni parte della materia in
particolare persiste nello stesso stato fino
a che l'urto delle altre non le costringa
a mutare.» In proposito Ettore Lojacono
commentava: «La nuova concezione del
moto è così distante da quella della tradizione
che Descartes non crede neppure possibile
instaurare un dibattito con i peripatetici
che la sostenevano. Si limita pertanto a
citare ironicamente la celebre definizione
aristotelica del moto come "atto dell'ente
in potenza in quanto potenza", a rifiutare
le varie forme di moto immaginato dal filosofo
greco (secondo luogo, qualità-alterazione,
quantità-aumento e diminuzione, sostanza-generazione
e corruzione) e a mantenere il solo moto
locale nella forma più semplice e intellegibile
che si potesse dare, come: "Passaggio
da un luogo a un altro attraverso l'occupazione
successiva di tutti gli stadi intermedi",
che presuppone le condizioni per l'affermazione
esplicita del principio inerziale che apparirà
senza residui nell'ultima legge.» (3)
La seconda legge era espressa
nella forma
seguente: «Quando un corpo
ne sospinge
un altro non può imprimergli
nessun movimento,
senza nello stesso tempo, perderne
altrettanto
del suo, né sottrargliene, senza
che il proprio
non sia accresciuto in egual
misura.»
Infine, la terza legge conclude e precisa
la concezione inerziale del moto. «Quando
un corpo si muove, per quanto il suo moto
avvenga per lo più secondo una linea curva
e, come s'è detto sopra, non se ne possa
dare mai nessuno che non sia in qualche modo
circolare, tuttavia, ciascuna delle sue parti
in particolare tende sempre a continuare
il proprio in linea retta.»
Nel moto circolare sarebbe infatti presente
una tendenza «ad allontanarsi senza
posa» dal circolo descritto, un fatto
che si può anche «sentire con la mano,
nel mentre che facciamo girare questa pietra
in questa fionda». Corroborazione empirica
che a Descartes sembrò di importanza decisiva.
Con essa, veniva seriamente messo in discussione
il mito della perfezione della circolarità. Descartes non considerava
i corpi come processi dinamici, ma come stati,
res extensa. Quiete e moto erano indifferenti. Essere
in quiete, o in moto, non provocava e non
costituiva alcuna differenza: il corpo rimaneva
se stesso, o identico a sé.
Spazio e materia: una sola cosa
La materia considerata da Descartes si riduce
ad estensione. Tra lo spazio occupato dalla
materia e la materia stessa c'è un'unica
differenza, ossia che la materia è mobile
e si può spostare, senza perdere la propria
identità: «la stessa estensione in
lunghezza, larghezza e profondità, che costituisce
lo spazio, costituisce il corpo, e la differenza
che c'è fra essi non consiste se non in questo:
che noi attribuiamo al corpo un'estensione
particolare, che concepiamo cambiare di luogo
con lui tutte le volte che esso è trasportato.» Ma, esso, come vedremo, per muoversi, deve
farsi spazio, ed occupare il "posto"
occupato da qualcos'altro. (4)
Ciò che per Dio è infinito, per l'uomo è
solo indefinito
Interviene, a questo punto, un presupposto
metafisico o, se si preferisce, teologico:
dato che l'attributo dell'infinità compete
solo a Dio, e non può essere compresa e analizzata
dagli uomini, «chiameremo indefinite queste cose piuttosto che infinite, al fine di riservare solo a Dio il nome
di infinito.» Anche Descartes, come
Aristotele, nega lo spazio vuoto come possibilità;
se esistesse sarebbe un nulla esistente,
una realtà contraddittoria ed anche senza
dimensioni. Poichè la dimensione coincide
con la materia, dev'esserci materia sottile
che noi consideriamo vuoto, sbagliando. La
realtà esistente è concepita da Descartes
come fatta di corpuscoli divisibili all'infinito. Sarebbe scorretto definire Descartes un
atomista, perché tutti gli atomisti postulano
sia l'indivisibilità dei costituenti ultimi
della materia, sia l'esistenza del vuoto.
(il pieno ed il vuoto di Democrito).
Particelle di materia sottilissima
Tutto ciò che ci circonda è composto «di
parecchie particelle diverse per forma e
grandezza, particelle che non sono mai così
ben disposte e congiunte insieme perfettamente,
che non restino intorno ad esse numerosi
intervalli; questi non sono vuoti, ma pieni
di una materia sottilissima per la cui interposizione
si comunica l'azione della luce.
Ma all'inizio eran solo cubi che divenero fuoco, etere, terra ed acqua
Il cosmo deriva dai cubi creati ed ordinati
da Dio, seguendo le forme più semplici della
geometria. Poi, Dio li mise in movimento.
In tal modo si formarono gli elementi costitutivi
del mondo. Il movimento agitato produsse
sfregamenti e raschiature. I cubi, mentre
le particelle infinitesime prodotte dallo
sfregamento diventarono luce, si arrotondarono.
Questo primo elemento derivato, non ha forma
e grandezza. Si adatta a tutti i contenitori.
Può riempire tutti gli spazi, e, di fatto
li riempie. Il movimento della luce è paragonato
al corso di un fiume che scende direttamente
dal Sole.
Il secondo elemento è l'etere. Di forma sferica,
le particelle di etere, sono unite assieme
come granelli di sabbia. Non si possono stipare
o comprimere, e ciò consente il passaggio
della luce. Anche il terzo elemento deriva
dalle raschiature. Costituisce la materia
di tutti i corpi terrestri ed opachi. Infine, vi è l'acqua, le cui particelle
costitutive sono «lunghe, levigate
e liscie come piccole anguille, ... e per
quanto si congiungano e intreccino insieme,
non s'annodano, né si attaccano mai in modo
tale che non sia possibile staccarle facilmente
l'una dall'altra.»
La materia sottile di cui son fatti i cieli
svolge ruolo decisivo in quanto
interviene
nei fenomeni di rarefazione e
condensazione,
della trasparenza e dell'opacità.
della rigidità
e dell'elasticità, della stessa
gravità.
In un universo pieno di materia
in movimento,
l'etere cartesiano è continuamente
attivo
e traslato. Lo stesso movimento
produce turbini
("vortici" sarà un
termine usato
successivamente). E poiché ogni
corpo, grande
e piccolo, col suo movimento,
sposta altri
corpi - grandi e piccoli - finisce
col determinare
un movimento circolare. Ossia:
«che
quando un corpo lascia il suo
posto, va sempre
in quello di un altro, che va
nel luogo di
un terzo, e così di seguito fino
all'ultimo,
che occupa allo stesso istante
il luogo lasciato
dal primo, di modo che non si
ha più vuoto
fra loro, mentre si muovono,
di quanto non
se ne abbia quando sono fermi.»
I movimenti planetari
Con questi principi Descartes spiegava anche
il moto dei pianeti. I più massici e solidi
sono portati a ruotare verso la parte più
esterna del cielo; i più leggeri a seguire
orbite più prossime all'astro. I più vicini
al Sole sono più rapidi perché sospinti dalla
corrente di materia provocata dalla rotazione
del Sole, che non è quindi concepito come
immobile. Il modello di descrizione dei moti
celesti è in forte analogia con l'idrodinamica.
Come i battelli in un corso d'acqua sono
meno veloci della corrente che li spinge,
così si spiega anche il moto dei pianeti.
Il moto trascina ogni pianeta alla rotazione
su sé stesso in modo da rendere un pianeta
centro di un cielo minore (o locale). Qualora
incontrino un pianeta più piccolo, come ad
esempio la Terra incontra la Luna, il pianeta
minore viene catturato. Come si vede facilmente,
la visione di Descartes, era, al tempo delle
bozze di Monde ou Traité de la lumiére,schiettamente copernicana. Negli anni '40,
con la pubblicazione dei Principia, la visione cartesiana muta considerevolmente.
I Principia
Il primo mutamento è nella forma e nello
stile. Questo scritto non seguì il precedente
modello autobiografico e colloquiale, ma
quello del professore che sale in cattedra
e prova a spiegare i principi oggettivi da
cui trarre le principali deduzioni. «Ciò
non significa - osservava Lojacono - che
il procedere cartesiano sia qui assolutamente
deduttivo, come spesso si è detto. Anche
se è vero che l'autore spesso prospetta questa
possibilità, è altrettanto vero che subito
se ne ritrae: lo si può notare in vari luoghi
della sua opera, particolarmente agli articoli
43 e 44 della terza parte, ove, annunciata
una sorta di deduzione matematica come la
via maestra da seguire, immediatamente dopo
quasi se ne scusa, affermando che è meglio
seguire una via media, cioè proporre un'ipotesi
e quindi verificarla per il tramite dell'esperienza.»
(5)
Il lavoro è introdotto con una
prima parte
metafisica nella quale viene
definita la
sostanza: «alcunché che
esiste in modo
tale da non aver bisogno di null'altro
per
esistere.» Ciò riporta
alla concezione
di Dio come causa di sé (affermazione
che
guiderà Spinoza a definire Dio
come l'unica
sostanza) ed al presupposto dell'assoluta
differenza tra pensiero e corporeità,
ovvero
res extensa. Nell'articolo 51 della I parte dei Principia precisò che, a differenza di quello che
si insegna nelle scuole, il termine "sostanza"
«non si addice univocamente a Dio e
alle cose create.» Si tratta, insomma,
di cogliere che, ancora una volta, Descartes
concepisce l'uomo come un dio in miniatura,
imperfetto e fallace, ma assai diverso dalla
rimanente realtà fisica. Questa volta, tuttavia,
l'affermazione ha un sapore dogmatico: scende
dalla cattedra.
Ettore Lojacono evidenziava come nei Principia si assista a qualcosa di stupefacente nella
concezione cosmologica di Descartes, un camuffamento
della sua primitiva fede copernicana. Per
l'esattezza, riportiamo le parole dello studioso:
«A differenza della concezione ch'egli
ha sempre citato come momento cardinale della
propria visione cosmologica, qui nella terza
parte afferma recisamente il movimento relativo
del nostro pianeta. Naturalmente si è ipotizzato
ch'egli avesse operato questa scelta per
un sentimento di prudenza prossimo alla pusillanimità,
il che può certo essere, anche se non si
può dimenticare che è una scelta che si fonda
su una premessa teorica interna al suo pensiero
e non comporta l'abbandono del sistema eliocentrico.
Ci pare infatti significativo che egli rimproveri
a Thyco Brahe che nel suo opporsi a Copernico
(1548-1601) non abbia sufficientemente considerato
la vera natura del moto. Ora proprio la sua
definizione del moto come "il trasporto
di un corpo dalla prossimità di quei corpi
che gli sono immediatamente contigui e che
sono considerati in quiete, alla vicinaza
di altri", nonché della materia celeste
come fluido che si avvolge in vortici, rende
perfettamente compatibile eliocentrismo e
immobilità della Terra. Così la sua visione
dell'universo appare come una serie di sistemi
solari, ciascuno dei quali separato dall'altro
da un firmamento, nei quali la materia fluida
rotea a vortice interno al proprio sole,
trasportando i pianeti che si muovono pur
rimanendo assolutamente immobili, come ci
accadrebbe se viaggiassimo, restando fermi,
su un battello: saremmo immobili rispetto
a qualsiasi suo elemento, ma in moto rispetto
alla costa.» (6)
Il semirelativismo di Descartes: mancanza
di coraggio o geniale anticipazione?
Alexander Koiré parlò esplicitamente di semirelativismo
di Descartes, che gli avrebbe consentito
di salvare capra e cavoli. Ossia aggirare
la palese contraddizione tra immobilità della
Terra e sistema eliocentro con l'introduzione
di un principio di relatività del moto. (7)
«L'inserimento di una concezione del
luogo semiaristotelica in un mondo dove tutto
è in movimento senza che vi sia un punto
fisso cui il movimento possa venir riferito
- scrisse Koiré - permise a Descartes di
"salvare" la concezione relativistica
del movimento, cioè la piena libertà di scelta
del punto di riferimento, e anche di conferire
al concetto di movimento "proprio"
di un corpo un significato preciso, il che
non fu piccolo merito. Inoltre, e non è meno
importante, ciò gli fornì il mezzo per eludere
la condanna della Chiesa al sistema copernicano.»
Per gli storici della scienza e della filosofia,
giunti a questo, si tratterebbe di decidere
se Descartes fu un pusillanime o il geniale
anticipatore della teoria della relatività.
Entrambe le tesi potrebbero venir sostenute
da fior d'avvocati e retori, senza riuscire
ad arrivare ad un vero giudizio universale.
La geniale intuizione-supposizione che, nonostante
Copernico e Galilei, anche il Sole si muove,
non fu seguita da enunciati chiari, distinti,
ricalcolabili e quindi verificabili con misurazioni
ed osservazioni. Ma, sarebbe davvero eccessivo
rimproverare a Descartes la mancata enunciazione
della relatività generale (sic!). Piuttosto,
se ne potrebbe segnalare l'impressionante
vicinanza, ma in modo affatto chiaro e distinto,
alle teorie fisiche contempoanee. Interazioni
forti ed interazioni deboli. Legami magnetici
e legami orbitali. A Descartes mancava il
concetto di sistema fisico di riferimento,nonché
quello di trasformabilità della massa in
ragione della velocità Rinunciando alla matematica,
e quindi al nesso strettissimo tra fisica
e geometria, non si mise nemmeno a cercarli.
Una volta introdotti, infatti, si potrebbero
traslare le affermazioni cartesiane nell'universo
mentale ordinato dai sistemi di riferimento
di Einstein, ed in particolare a quanto osservato,
nel 1921, nella prima edizione de Il significato della relatività. (8) Secondo Einstein, l'inerzia di un corpo
deve aumentare quando nelle vicinanze ci
sono altri corpi massivi. Di converso, un
corpo deve essere accelerato quando nelle
sue vicinanze vi sono altri corpi accelerati.
Per concludere che un corpo cavo in rotazione
deve produrre al suo interno un campo di
Coriolis e un campo centrifugo. Anche rimanendo
in una visione metafisica del "vuoto
inesistente", per cui "cavo"
non significa "vuoto", ma pieno
di materia sottilissima, la traslazione potrebbe
riuscire. Ovviamente, siamo del tutto consapevoli
dell'obiezione più ovvia: la teoria einsteiniana
aboliva l'esistenza dell'etere; ragion per
cui tutto quello che abbiamo intuito su cosa
sarebbe rimasto inconscio e confuso in Descartes,
potrebbe venir facilmente liquidato come
la più idiota ed infantile speculazione mai
apparsa sul web.
Queste riflessioni non possono non avere
seguito. Per capire la fisica di Descartes,
ed anche la possibilità di avere una fisica
in generale, bisogna approfondire l'esplorazione
delle idee del passato e metterle in rapporto
con le conoscenze (e gli strumenti che la
consentono) nel presente e nel futuro immediato.
Questo file avrà un seguito...
1) la citazione è tratta da Opere filosofiche - a cura di Eugenio Garin - 4 voll. - Laterza
1967
2) idem
3) Ettore Lojacono - Cartesio La spiegazione del mondo fra scienza
e metafisica . prima edizione ne I quaderni de Le scienze
n° 16 - ottobre 2000
4) Si tenga conto che anche nella
"fisica"
di Aristotele il luogo (topos) è parte dello spazio (chora) e che addirittura il fatto che il luogo
possa essere occupato da oggetti
successivi,
ossia "grandezze",
ossia corpi
dotati di estensione, che "si
scambiano
di posto" sarebbe la prova
dell'esistenza del luogo, prima affrontata in termini problematici.
(Fisica IV 1-5) Aristotele definì questo processo
antimetastasis.
5) Lojacono, cit.
6) idem
7) Alexandre Koiré - Newton e Descartes in Studi newtoniani - Einaudi 1972
8) Albert Einstein - Il significato della relatività - Boringhieri 1980
moses - febbraio 2013
A titolo sperimentale proviamo
ad introdurre
la possibilità di intervenire
nella correzione
e nel miglioramento del testo,
sia utlizzando
il form sottostante, sia inviando
proposte
di modifica più corpose, allegandole
ad una
mail da indirizzare a guimare@libero.it
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Cartesio (dalla V parte del Discorso
sul
metodo)
E tuttavia oso affermare che non solo ho
trovato il modo di giungere in breve tempo
a conclusioni soddisfacenti per tutto ciò
che riguarda le principali difficoltà di
cui suole trattare la filosofia, ma ho anche
individuato certe leggi, che Dio ha stabilito
nella natura, imprimendone le nozioni nella
nostra mente in modo tale che, avendo riflettuto
a sufficienza su di esse, non potremmo dubitare
che siano esattamente osservate in tutto
ciò che nel mondo è o accade.
Dal saggio Influenza di Newton sugli standard scientifici - di Imre Lakatos
Ciò che meglio caratterizza il predominio
giustificazionista nella teoria della conoscenza
è il fatto che quest'ultima è stata chiamata
«epistemologia», ossia teoria
dell'episteme. La mera doxa non era ritenuta degna di una seria indagine:
L'idea di una sua crescita veniva considerata
particolarmente assurda dato che, secondo
il giustificazionismo ortodosso, il tratto
distintivo del progresso era la crescita
dell'episteme razionale e la graduale eliminazione della
doxa irrazionale.
I giustificazionisti, pur concordando sul
valore dell'episteme e sulla mancanza di valore della doxa, avevano opinioni molto diverse sulle limitazioni dell'episteme. Quasi tutti concordavano che l'episteme fosse possibile, ma discordavano su quali
fossero le proposizioni dimostrabili. Gli scettici pirroniani ritenevano che nessuna proposizione potesse essere dimostrata, gli
scettici accademici ritenevano invece che
almeno una proposizione - «non è possibile
sapere» - potesse essre dimostrata.
Questi scettici universali e quasi universali
rappresentavano la corrente dei pessimisti
epistemologici. I «dogmatici»
erano più ottimisti. Alcuni di essi pensavano
che si potesse giungere alla conoscenza (nel
senso dell'episteme) della verità religiosa e morale, ma di
nient'altro, altri pensavano che tale
conoscenza
potesse essere estesa anche alle leggi
della
matematica e al mondo sublunare; gli
ottimisti
epistemologici del diciassettesimo
e del
diciottesimo secolo elimiinarono la
restrizione
al «sublunare» e sperarono
che
tutti i segreti della natura si sarebbero
infine arresi all'indagine razionale.
[...]
La conoscenza scientifica, nel diciassettesimo
secolo, veniva considerata dalla maggior
parte dei suoi rappresentanti come parte
integrante della conoscenza teologica: la
maggior parte degli scienziati, come Descartes,
Kepler, Galileo, Newton e Leibniz, si proponeva
di portare alla luce il Piano Divino dell'Universo.
[...]
Per comprendere meglio la degenerazione
nel
giustificazionismo delle prime concezioni
fallibiliste si dovrebbe ricordare
che gli
essenzialisti dividevano le proposizioni
in due classi: quelle che erano verità
ultime
dimostrate e quelle che non lo erano.
A causa
di questa fondamentale fusione di verità,
verità ultime e verità dimostrata,
il problema
principale del fallibilismo non era
tanto
quello di valutare la distanza di una
proposizione
(solitamente falsa) dalla verità -
come fa
il concetto popperiano di similitudine
-
ma quello di valutare la distanza di
una
proposizione dalla verità ultima.
[...] l'idea secondo cui una proposizione
falsa può avere un ampio contenuto
di verità
che può essere confrontato con altre
proposizione
false, è un'idea popperiana del tutto
estranea
a quell'epoca. Il problema di questo
fallibilismo
primitivo era quello di stabilire quanto
le proposizioni erano vicine non alla
verità,
ma alla verità ultima dimostrata.
[...]
Ma, naturalmente, le tre leggi di Kepler
erano false. Inoltre, nel 1686 era
generalmente
noto che erano false; che i pianeti non si
muovevano esattamente lungo ellissi, che
le variazioni nelle velocità di Giove e di
Saturno non si accordavano con la «seconda
legge» di Kepler e che anche il moto della Luna
si allontanava molto da un semplice modello
kepleriano. Non c'è modo migliore di caratterizzare
la scissione intellettuale di Newton che
quello di contrapporre Newton, il metodologo,
che affermava di aver derivato le sue leggi dai «fenomeni»
di Kepler, a Newton lo scienziato, che sapeva
benissimo che le sue leggi contraddicevano direttamente quei fenomeni.
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