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Studi hegeliani - Norberto Bobbio - Einaudi 1981
di Renzo Grassano
Salvatore Veca consigliava di usare il "bobbio" come una canna da pesca, e poi elencava temi e libri cui fare riferimento per una pescata del tutto eccezionale. (1)
Mi permetto di aggiungere che anche qui c'è pescado in abbondanza. Anzi, ritengo per esperienza, che non vi sia di meglio, oggi, per cercare di capire il pensiero politico-giuridico di Hegel senza smarrirsi in interpretazioni di sinistra o di destra, a volte anche geniali ed intriganti, ma sempre poco corrispondenti alla realtà.
Questo libro avrebbe potuto intitolarsi Hegel secondo Hegel ma, Bobbio era troppo modesto per acconsentire ad una tentazione del genere.
Resta che l'opera costituisce un'ottima introduzione al pensiero politico hegeliano, probalmente la migliore di quelle disponibili in lingua italiana.

Hegel non fu un liberale, ma un "autocrate" ed uno statalista. Ad un certo punto si ha la netta sensazione che privilegiò il momento dell'organizzazione (oggi diremmo efficienza, ma con non poche sfumature di diversità) su quello dei diritti e della democrazia. Ma, forse, era sia per volgere quel tanto di organizzazione alla difesa di quel poco diritto e della poca democrazia che esisteva realmente in Germania, sia per porre le basi di una unificazione almeno in termini teorici, richiedendo più organizzazione per avere più organicità.
Alcuni di tendenza liberale lo definirono "pazzo per lo stato".
Certo è che egli vedeva nello stato l'espressione massima della eticità di un popolo e vedeva nella legge la realizzazione dell'eticità e dello spirito. Rimproverava alla tradizione giusnaturalistica una concezione atomistica della società civile, una sorta di somma algebrica di volontà singole, nessuna delle quali in grado di concepire lo stato in una visione completa superiore, secondo la ben nota espressione aristotelica di un tutto superiore alle parti.
Gli elementi fondamentali che Bobbio rinviene nel pensiero politico di Hegel sono facilmente riassumibili: rispetto al giusnaturalismo egli fu dissoluzione e compimento.
Rispetto alla scuola storica (romantica e reazionaria) egli fu assorbimento e trasfigurazione.
In altre parole: assorbì il pensiero romantico per volgerlo contro di esso, dissolse la tradizione liberal-illuministica per proseguirla con altri mezzi e fondarla su un terreno più solido: non una piramide fatta di pietre tonde, ma un edificio costruito con pietre squadrate.
La nuova fondazione avvenne sul terreno dell'eticità, cioè dei costumi, della religione, dell'economia e della vita culturale di un popolo. Lo stesso terreno dei romantici. Senonché, Hegel, rispetto ai romantici stessi, ebbe una visione dinamica dell'eticità, quindi la considerò sotto il profilo della storia in progress e non come l'espressione di una nostalgia per un passato feudale fondato sulla legge non-scritta e sull'autoritarismo dei sovrani. Un vecchio ordine che non poteva reggere l'urto delle nuove forme assunte dalla società civile.
Da questa sintesi di due opposti, superamento in positivo di entrambe le posizioni, nasce, al termine del lungo e tormentato cammino hegeliano, una concezione dello stato che sarà seriamente contestata senza avere nemmeno il tempo di proporsi appieno. Non risulterà accettabile dai liberali, perché considerata negatrice delle libertà individuali; non sarà accettabile dai socialisti e dai marxisti, i quali vedranno nello stato l'espressione della classe dominante ed un suo strumento di oppressione.
Bobbio nega ogni legame diretto, e quindi ogni filiazione, tuttavia, tra il pensiero hegeliano e le correnti fasciste e naziste, ergo totalitarie, del Novecento. Parla in proposito di "leggenda".
Lo statalismo hegeliano è certamente qualcosa di diverso, più maturo e più complesso delle dottrine della destra reazionaria.
Nel libro di Bobbio vedo un solo momento debole, e riguarda proprio questo punto: non discute le più recenti interpretazioni liberal di Hegel, ad esempio quella di Popper che vedeva in Hegel il principio del totalitarismo moderno. Ed è qui, per quanto mi riguarda, l'unico limite storico del libro, che per il resto soddisfa pienamente le attese di chi guarda a Bobbio come un maestro di chiarezza.

Bobbio contesta, al contrario, molto apertamente, la correttezza dell'interpretazione di Hegel come "ideologo dello stato borghese". «A me pare - scrive Bobbio - che non vi sia nulla di più falso. A meno che chi considera "francamente insostenibile" (cioè Aldo Schiavone in Storiografia e critica del diritto - De Donato 1980) la mia tesi intenda per 'stato borghese' una cosa completamente diversa da me. Il che è anche possibile, nella confusione della lingua caratteristica del discorso politico. Allora, a scanso di equivoci dico ancora una volta che considero come quintessenza della concezione borghese dello stato l'idea dello stato minimo, ovvero della rivincita della società civile sullo stato... »
Chiarita questa ingenuità della vulgata marxista, Bobbio non risparmia fendenti in altre direzioni, in particolare contro le interpretazioni "giustificazioniste": «Donde il secondo spunto polemico. Sono le interpretazioni di chi si mette di fronte al proprio personaggio con la mentalità dell'avvocato difensore che si è assunto il compito di scagionarlo da accuse infamantie ottenere l'assoluzione e la riabilitazione.»
Definisce "leggenda" anche la visione di un Hegel pre-marxista, dunque pre-rivoluzionario. Infine contro le interpretazioni attualizzanti, in particolare M.Cacciari e U. Curi, nonché Mario Tronti. «Rispetto alle altre forme d'interpretazione, le interpretazioni attualizzanti presumono che ci sia un accordo, che invece non c'è, sulla risposta da dare alla domanda: "Che cosa è attuale?"
Per gli uni è attuale lo stato burocratico, per gli altri la crisi dello stato burocratico; per gli uni il passaggio dallo stato di diritto allo stato sociale, per gli altri la crisi dello stato sociale e il ritorno allo stato del libero mercato...[...] Così la difficoltà dell'interpretazione ideologica del pensiero di uno scrittore viene raddoppiata dalla difficoltà di mettersi d'accordo su ciò che è attuale e ciò che non lo è... [...] E poi non c'è nulla di pù effimero dell'attualità.»
Del resto, a me pare, che la parola chiave per capire Hegel sia realismo e che questo 'realismo' affondi le sue salde radici nell'ammirazione che il filosofo tedesco sempre nutrì nei confronti del Machiavelli.
Come giustamente rileva Bobbio: lo stato è l'espressione dell'eticità, ma nasce dalla forza, non dal contratto sociale. E quindi è un atto di forza quello che lo fonda.
Le pagine che Bobbio scrive in proposito sono illuminanti. Demolendo l'ingenuità rousseauiana, finì col risultare più rousseauiano di Rosseau!

Hegel ed il giusnaturalismo
Assunto il concetto di "totalità etica", dice Bobbio, Hegel ha posto le basi per la demolizione della costruzione eretta dai sistemi del diritto naturale. «Hegel si compiace di riprendere in più luoghi l'affermazione di Aristotele che "secondo natura il popolo è precedente al singolo" (ma è illuminante il fatto che traduca polis con Volk). Nella tradizione del diritto naturale il singolo, cioè l'individuo, viene prima del tutto, cioè dello stato; lo stato è un tutto che viene costruito a partire dal singolo,...»
Bobbio passa sinteticamente in rassegna tutte le posizioni, da Hobbes a Pufendorf, da Rousseau fino a Fichte, per evidenziare quanto il concetto di totalità etica sia lontano persino da Fichte.«Quanto a Kant, iniziando la trattazione del diritto pubblico, definisce il diritto pubblico come un sistema di leggi per un popolo, ma si affretta a specificare che per popolo intende una "pluralità di uomini".» In Hegel, la totalità etica non solo viene prima delle parti, ma è superiore alle parti stesse. Ciò è argomento di polemica contro il diritto naturale ed in particolare contro ladottrina del contratto sociale. Già Hume, Bentham, Saint Simon avevano assunto una posizione critica, quindi non si trattava di una novità. Ma la critica di Hegel, per Bobbio, è razionale, cioè parte da principi come appunto la totalità etica. Essa è assoluta, non la somma algebrica di singole volontà, "ma la volontà assolutamente universale". «L'errore di Rousseau [...] è stato quello di intendere la volontà generale non come "la razionalità in sé e per sé della volontà, in quanto cosciente", con la conseguenza che "l'associazione dei singoli nello stato diviene un contratto".»
Eppure, almeno idealmente, Hegel persegue lo stesso scopo di Rousseau: «la sua filosofia poltica, dalla idealizzazione giovanile della polis greca, attraverso la scoperta della "totalità etica", sino alla risoluzione, propria dell'opera matura, dello stato al momento supremo dell'eticità, è una compiuta teorizzazione della libertà come autonomia. E in questo senso è non già il rifiuto o il superamento, ma l'inveramento, se pur ottenuto attraverso altra via, dell'ideale rousseauiano. Si può dire a ragion veduta che questo inveramento è più compiutamente ottenuto proprio perché viene rifiutato uno struemnto concettuale ormai considerato inadeguato e logorato da un uso difforme. Il contratto sociale era stato uno strumento adatto sino a che lo stato veniva concepito come un'associazione, non più il momento in cui viene interpretato come una realtà sostanziale, come una comunità organica
Di Rousseau, Hegel rifiuta il concetto di stato di natura interpretato come uno "stato originario di innocenza". Si può solo dire che si deve uscire dallo stato di natura e che la società è la condizione indispensabile perché il diritto possa avere realtà. Esso si forma dinamicamente nella dimensione dell'eticità, ovvero dei costumi delle abitudini, dei valori, dell'economia. Prima di Hegel, Locke aveva accennato alla forzadei costumi, e quindi al potere condizionante e formativo che ha l'approvazione dei nostri simili sul nostro modo di agire. Ma, poi Locke non aveva sviluppato la riflessione. E' solo con Hegel ( e con il romanticismo giuridico dei tradizionalisti) che esso ritorna. Ma torna "trasfigurato".

Bobbio evidenzia, in uno stupendo passaggio, come «... contro la totalità etica infine, intesa come oragnismo vivente e storico, veniva a frantumarsi il principio costitutivo stesso di ogni sistema di diritto naturale: la distinzione fra diritto naturale e diritto positivo. Quali che fossero le loro diverse pregiudiziali idelogiche, i sistemi del diritto naturale potevano riconoscersi attraverso queste due affermazioni: a) esiste un diritto naturale distinto dal diritto positivo; b) il diritto naturale è superiore al diritto positivo.»
Con Hegel, in sostanza, emerge che è impossibile costruire razionalmente un sistema compiuto di leggi. Contro questo scoglio si infrange la pretesa dei giusnaturalisti prima di lui, Kant compreso. Ecco perché «il diritto filosofico non ha per Hegel il compito di proporre un modello completo e perfetto di legislazione universale, e neppure del resto, in senso contrario, di giustificarlo storicamente, ma di comprenderlo e di darne una giustificazione valida in sé e per sé.»

Dovendo il diritto corrispondere all'eticità, rispetto al contenuto, esso può quindi risultare irrazionale ed ingiusto. Ma anche una legge irrazionale è, secondo Hegel, valida e da obbedire. Hegel non parla della necessità di cambiarla, perché comunque in una legge vi è sempre più ragione di quanto si pensi.
Sembrerebbe questa la stessa tesi di Hobbes, ma cè una differenza acutamente rilevata da Bobbio:«... Hobbes aveva tagliato il nodo, affermando che "l'autorità non ha la sapienza, ma la legge", Hegel cercò di scioglierlo aggiungendo che l'autorità fa la legge perché è essa stessa sapienza.» Che era anche la tesi di Rousseau.

Nell'esaminare l'evoluzione del giusnaturalismo fino ad Hegel, Bobbio coglie continuità e differenze, evidenziando comunque che tutti i filosofi avevano coltivato in comune la convinzione hobbesiana dell'incommensurabile vantaggio per l'umanità del vivere nello stato anziché nell'anarchia dove il più forte domina e si mangia gli altri. «Nella teoria kantiana del diritto, l'abbandono dello stato di natura e l'istituzione dello stato civile è per l'individuo qualcosa di più che un calcolo utilitario come per Hobbes e per Locke: è addirittura un dovere morale. »
Hegel va oltre ( o torna indietro, a seconda dei punti di vista) intendendo lo stato, così com'era ai suoi tempi, come cosa razionale in sé. Non dice come dev'essere, alla maniera di Kant, ma lo descrive: «Hegel - scrive Bobbio - scopre nella storia già fatta quello che i suoi predecessori cercavano nella storia da fare.» Eppure, proprio rispetto a Kant, è visibile quello che non esiterei a definire come un passo indietro.
Lo spietato realismo hegeliano porta ad una negazione dell'utopia e della speranza kantiana nella pace. Non c'è possibilità di un trasferimento, almeno parziale, di sovranità e potere dai singoli stati ad una sovrastruttura giuridica sovranazionale. Non c'è allora possibilità di una pace duratura.
Lo stato di natura, intepretato negativamente come arena di scontro tra potenze, è il rapporto tra gli stati moderni del tempo di Hegel, cioè la restaurazione e la Santa Alleanza. «Il tema della guerra ispirò ad Hegel alcune delle pagine più famose. Sin dalle prime opere aveva proclamato che la guerra è necessaria e mantiene la salute dei popoli come il vento sulle paludi; la guerra è il momento dell'uguaglianza assoluta (che è un carattere proprio dello stato di natura); nel frammento sulla costituzione delle lezioni di Jena del 1805-1806 lo stato dei rapporti internazionali è chiamato letteralmente "stato di natura"; nella Propedeutica è detto che gli stati hanno tra loro rapporti non giuridici, ma naturali; (I,§31); in questi rapporti, secondo un passo dell'Enciclopedia di Heidelberg, ripetuta nell'Enciclopedia di Berlino, ha legge l'arbitrio e l'accidentalità, perché l'universalità del diritto, a cagione dell'indipendenza dei soggetti, non è reale (§§ 443, 545). Infine nella Filosofia del diritto: "Poiché il rapporto tra gli stati ha per principio la loro sovranità, essi sono pertanto nello stato di natura gli uni di fronte agli altri..."»
In sostanza - dice Bobbio - lo stato di natura non sta per Hegel al principio della storia, dove clan si contrappone a clan e tribù a tribù, ma alla fine, «là dove cessa il diritto dello stato, non è uno stato soltanto immaginario, ma è uno stato reale, profondamente radicato nella storia del mondo, e, a differenza dello stato originario, insopprimibile

Hegel ed il diritto
«La posizione di Hegel di fronte al diritto è ambigua.» C'è una ragione terminologica. "Recht" è usato tanto per indicare una parte del sistema, il diritto astratto, ovvero la legge formale positiva che è il diritto dei giuristi, quanto il sistema nel suo complesso, e quindi «tutte le materie tradizionalmente comprese nella filosofia pratica (ovvero economia, politica e morale).» Il diritto è per Hegel il regno della libertà realizzata, e questo implica un uso molto esteso della parola. Di questa ambiguità, dice Bobbio, Hegel era consapevole, e lo fa notare dove, dopo aver definito il senso ampio del diritto "l'esistenza del volere libero", aggiunge: "il quale diritto non è da prendere solo come il ristretto diritto dei giuristi, ma come tale che che comprende tutte le determinazioni della libertà".
In proposito Bobbio annota: «E' persino troppo facile osservare che di questi due significati di "diritto", il primo è, rispetto all'uso corrente, troppo stretto, perché comprende soltanto il diritto privato (in parte il diritto penale) e lascia completamente fuori il diritto pubblico; il secondo è troppo largo, perché abbraccia tutte le materie della filosofia pratica.» E questo perché Hegel considera vero diritto solo il diritto privato. Il diritto pubblico era la "costituzione" (Verfassung). Solo nella Filosofia del diritto (1821) e non prima, Hegel usò l'espressione "diritto pubblico interno" (inneres Staatsrecht) come sinonimo di costituzione.

Un secondo motivo di ambiguità è di carattere sistemico. La collocazione del diritto nel sistema della filosofia pratica è «a dir poco strana e senza precedenti.»
La materia è stata smembrata in tante parti senza nesso tra loro.
Nella Filosofia del diritto, il diritto privato è stato «violentemente separato dal diritto pubblico (nel ristretto senso di diritto costituzionale): per passare dall'uno all'altro bisogna attraversare la moralità, la famiglia, e la società civile. Il diritto penale è stato spezzato in due tronconi: dei quali uno è stato unito, sotto la categoria del "torto", col diritto privato (§§ 90-103), l'altro è stato collegato alla discussione intorno all'amministrazione della giustizia nella sezione sulla società civile.»
Inoltre, diritto privato e diritto penale sono uniti nel diritto astratto, mentre il diritto di famiglia viene staccato dal diritto privato e diventa parte della trattazione della società familiare.
«Dei tre poteri dello stato, che formano oggetto del diritto pubblico interno, il potere giudiziario è stato scisso dagli altri due e preso in considerazione non nella sezione dedicata allo stato ma in quella dedicata alla società civile, il cui secondo momento è rappresentato dall'amministrazione della giustizia: quivi trovano posto alcune nozioni di diritto processuale (§§ 287-297), e in potere esecutivo in senso stretto o amministrativo, la cui trattazione viene anticipata all'ultimo momento della società civile, ove viene introdotta la figura della polizia (§§ 231-249); [...] Come se non bastasse, il potere legislativo e la legge, cioè il produttore e il suo prodotto, sono esaminati in due sezioni diverse, l'uno nella sezione dello stato, l'altro nella sezione della società civile, a proposito dell'amministrazione della giustizia.»
Il vecchio sistema giuridico - commenta Bobbio - è «irriconoscibile».

Nel sistema hegeliano il diritto privato è subordinato al momento economico dello scambio e si fissa sul riconoscimento della proprietà. Il diritto pubblico è subordinato all'organizzazione della politica. Ma separate le due sfere - osserva Bobbio - si ha il dissolvimento del diritto ed allo stesso tempo la sua dipendenza dall'eticità.
Il grande ispiratore di questo passaggio è Machiavelli, non più l'Adam Smith del diritto privato legato ai mercanteggiamenti. «Il salto è brusco, ma lo giustifica la diversità della materia: diritto privato e diritto pubblico ... [...] stanno su due piani diversi che quasi non si toccano.» Lo stato è forza. Rende possibile la concentrazione della forza e l'organizzazione delle parti, delle classi sociali. «L'organizzazione è ciò che fa di una moltitudine uno stato.»
La funzione del diritto pubblico, inteso come costituzione, è eminentemente organizzativa. Regola i rapporti tra i poteri tra loro dirompenti e segna il passaggio dall'anarchia all'ordine. La costituzione rimane forma, non sostanza. Non è il fondamento dello stato, ma lo strumento della forza della sovranità. «il fondamento di ogni stato è la forza. Ciò che manca negli stati tedeschi è ben vero, una costituzione; ma manca la costituzione perché è mancata una forza unificatrice. A questo punto il diritto rinvia a qualche cosa che sta al di là del diritto, e questo "al di là" è la politica. Là dove non vi è ancora l'organizzazione di tutte le parti in un tutto, cioè dove non vi è ancora una costituzione, per esempio nei rapporti tra gli stati, esistono rapporti di mero potere, cioè rapporti politici.
E' in questa sfera pregiuridica ( o metagiuridica, secondo i punti di vista), che si determinano le grandi azioni storiche da cui nascono gli stati, anche lo stato tedesco, se mai potrà risorgere sulle rovine dei vecchi stati. Nella conclusione dello scritto evoca, come unica via per l'unificazione "la forza d'un conquistatore", il novello Teseo, riecheggiando l'invocazione del Principe, di cui poche pagine innanzi aveva assunto le difese contro l'ipocrisia moralistica dei detrattori.»

Hegel vede nel sopravvento del diritto privato su quello pubblico una causa di disgregazione della totalità, quindi il cammino inverso che gli stati tedeschi dovrebbero percorrere. Quindi, Hegel non vuole solo distinguere tra diritto pubblico e privato; mira esplicitamente a subordinare il primo al secondo.
«Questa continua lezione della storia, che pone sotto gli occhi del filosofo le funeste conseguenze dell'emancipazione del diritto privato sul diritto pubblico, rendono tanto più biasimevole quelle teorie che hanno esaltato il diritto privato fino a farne il fondamento dello stato.»
Nulla di peggio, per Hegel, che il sopravanzare del diritto come pretesa di libertà del singolo fino a farne un assoluto.
Ma, in Hegel c'è una razionalità, diversa da quella del calcolo hobbesiano. Essa è la ragione oggettiva che si rivela nelle istituzioni storiche. E questa non è sopra la storia, ma dentro di essa.
Bobbio sottolinea come questa tensione era già presente nelle pagine della Fenomenologia, nella sezione dedicata allo Spirito, dove la categoria del diritto appare per la prima volta sottoforma di "stato di diritto" (Rechtszustand) « come momento di transizione fra lo spirito vero o eticità e lo spirito estraniato a se stesso che ha inizio col cristianesimo e si conclude con l'illuminismo e la Rivoluzione Francese.»

In totale contrapposizione alla scuola romantica, Hegel è però del tutto dalla parte della legge, vuole la legge, anche se esprime la convinzione che non sia la legge a dettare il costume e l'eticità, ma sia l'eticità a dettare la legge. Solo quando il costume diventa legge, lo stato si esprime compiutamente; lo spirito si esprime nello stato.
«Nel saggio sul diritto naturale Hegel auspica per la Germania un sistema di legislazione che "esprima totalmente la realtà, ovvero gli attuali e presenti costumi, affinché non accada, come è spesso il caso, che quello che effettualmente in un popolo è considerato giusto, non possa essere riconosciuto nelle sue leggi": il divario tra leggi e costumi è il segno delle barbarie.»
Ciò che distingue una legge dalla consuetudine è la promulgazione, ovvero l'essere fatta conoscere universalmente.
La legge è la consuetudine elevata alla forma della coscienza. "E' costume in vigore". Nel momento stesso in cui esalta la legge, Hegel condanna il sistema inglese della Common Law come "fonte di enorme confusione", prende energicamente posizione contro la scuola storica del diritto, si pronuncia ripetutamente a favore della codificazione... [...] chiama benefattori dell'umanità i governanti che, come Giustiniano, hanno dato un codice ai loro popoli.»
Nella Filosofia della storia Hegel conclude il suo ragionamento sulla legge e sul suo nesso con la libertà: « Se è vero - scrive Bobbio - che "la legge è l'oggettività dello Spirito e la volontà della sua verità, ne consegue " che solo la volontà che ubbidisce alla legge è libera..." A questo punto la differenza tra società civile e stato viene addirittura sconvolta. Ciò che si esprime nella legge come volontà dell'universale non è più l'accidentalità della società civile ma la sostanza etica dello stato. Il passo che comincia con le famigerate parole "Tutto ciò che l'uomo è, lo deve allo stato: solo in esso ha la sua essenza", terminava affermando che "nello stato l'universale è nelle leggi. »

Tra diritto e libertà vi è quindi un nesso decisivo, che Hegel evidenziò nelle lezioni di Berlino. Questa libertà si realizza nello stato, e non contro di esso. Ma a differnza di Rousseau, per il quale il cittadino obbedisce ad una legge che egli stesso si è dato, in Hegel la libertà è l'obbedienza alla legge qualunque essa sia, «... per il solo fatto che essa è, in quanto positiva, volontà dello stato.»
Ma oltre a questa particolare libertà nello stato, Hegel distingue altre due espressioni di libertà: una prima e una dopo la società civile.
«La libertà che sta prima è quella cui corrisponde la forma giuridica del diritto astratto. Si tratta della libertà esterna dei giusnaturalisti fino a Kant, o libertà dallo stato, rispetto alla quale il diritto funge da limite ed insieme da condizione di esistenza, perché rende possibile, proprio in quanto limite delle rispettive libertà esterne, la loro coesistenza. Una delle caratteristiche ricorrenti di questo diritto, da Thomasius sino a Kant e oltre, passando attraverso il ius proprietatis di Leibniz (che in Leibniz è come in Hegel, solo la prima fase dello sviluppo del diritto), consiste in ciò che che le sue prescrizioni, rappresentate dal precetto neminem laedere, sono negative, cioè sono comandi di non fare. Ebbene, all'inizio della trattazione del diritto astratto anche Hegel rende omaggio a questa tradizione osservando che "la necessità di questo diritto si limita, per la ragione stessa della sua astrazione, al divieto (auf das Negative): non ledere la personalità e ciò che ne deriva. Nella definizione di legge che si trova quasi identica tanto nell'Enciclopedia di Heidelberg quanto in quella di Berlino, Hegel dice chiaramente che le leggi , prima di essere "costume in vigore", sono per il soggetto nella sua immediatezza, rispetto al suo arbitrio e al suo interesse particolare, dei "limiti".»

La libertà che viene dopo la società civile è soprattutto libertà dello stato. E questa si realizza nella costituzione. «Come abbiamo già notato, dove non vi è costituzione non vi è stato. Non è stato l'impero tedesco; ma non è neppure stato la società primitiva, una tribù nomade, e lo stato patriarcale, la cui base è il rapporto familiare; non è neppure stato nel senso proprio della parola, l'immensa società ancora disorganica degli Stati Uniti, che deve essere considerata non "come uno stato già formato e maturo, ma come uno stato tuttora in divenire". La costituzione, facendo di un popolo uno stato, eleva questo popolo a individuo autonomo rispetto ad altri stati, fa di esso un soggetto, diremmo oggi, della comunità internazionale.»

E qui siamo ad un punto cardine e decisamente "attuale", pur con tutte le riserve di Bobbio sull'attualità del passato.
«Sino a che si rimane nel ristretto angolo visuale della società civile, la guerra è inconcepibile: poiché lo scopo della società civile è la garanzia della vita e della proprietà, solo mettendosi da un punto di vista superiore, che è quello della sopravvivenza stessa della totalità, si può giustificare un evento come quello della guerra che mette a repentaglio sia la vita sia la proprietà dei singoli.
Al di là del dirittoesterno degli stati tra loro, vi è soltanto quello che Hegel chiama "diritto assoluto". Gli stati sono solo astrattamente uguali. Non sono uguali rispetto alla storia universale che li trascende. In ogni epoca vi è uno stato in cui si realizza meglio che in ogni altro lo spirito universale. Ebbene, il diritto assoluto è il diritto che ha lo stato dominante "di essere guida" (Träger) dell'attuale grado di sviluppo dello spirito universale.»

In conclusione: mi sono limitato a riassumere solo i primi due saggi non perché gli altri siano meno importanti, bensì perché mi propongo di tornare sugli stessi anche in altri contesti, sia rispetto al pensiero di Hegel, sia rispetto al pensiero di Bobbio. L'oggetto del mio lavoro, come spesso accade quando ci si occupa di un autore che ha condotto uno studio su un autore precedente, era, per così dire, scisso in due sfere del tutto differenti: il pensiero di Hegel ed il metodo di fare storia della filosofia politica da parte di Bobbio.
Si è parlato molto del primo argomento e poco del secondo. Ma il secondo, mi pare emerga dalle parole stesse, dalla ricchezza delle citazioni, dal fatto non trascurabile che alla fine della lettura (di Bobbio, ovviamente) mi sia ritrovato in pugno tutta l'avversione e tutta l'attrazione per il post-giusnaturalismo hegeliano che egli stesso deve aver provato.
Per me, Hegel continua a rimanere una sfinge, qualcosa che non dice, ma accenna e nell'accenno c'è tutta la nostra fatica di capire come va la storia reale, alla fine del giorno, della settimana, degli anni , dei secoli e dei millenni...

Sommario del libro:
Hegel ed il giusnaturalismo
Hegel ed il diritto
La costituzione in Hegel
Diritto privato e diritto pubblico in Hegel
Hegel e le forme di governo
Sulla nozione di società civile
La filosofia giuridica di Hegel nel decennio 1960-1970
(1) Salvatore Veca - Proviamo ad usarlo come una canna da pesca - Reset n 74 - novembre-dicembre 2002

RG - 8 maggio 2004