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Breve biografia di Norberto Bobbio (parte 3)
di Renzo Grassano
Il problema del dialogo tra generazioni s'innestò con quello delle impazienze dei movimenti e la radicalità delle istanze.
Dopo la strage di Piazza Fontana, le accuse agli anarchici, l'assassinio del ferroviere Giuseppe Pinelli (volato dalla finestra della questura e considerato "suicidato", ergo colpevole, nelle prime versioni ufficiali), nei movimenti stessi prevalse la tendenza ad identificare immediatamente lo stato "borghese" con i servizi segreti e la CIA, le istituzioni con il complotto antidemocratico ed antioperaio.
L'Italia non era Europa, ma Sudamerica. L'avversario di classe giocava pesantemente con tecniche golpiste da gorilla argentino.
Ma alle estremizzanti e semplicistiche letture dei grupposcoli incapaci di vedere la specificità della situazione, venne opposta un'analisi del tutto diversa.
Nacque la formula "strategia della tensione" con la quale si battezzò il tentativo terroristico di spaventare il paese, in particolare la classe media, per arrivare a rilegittimare il blocco moderato duramente messo alla prova dagli esiti elettorali e dalle lotte operaie. Ciò che spaventava era l'unità sindacale di CGIL, CISL e UIL, la forza dei sindacati metalmeccanici guidati da Trentin,Carniti e Benvenuto. Nel rapporto nuovo tra le forze operaie, spaventava ancor di più il dialogo tra comunisti, cattolici (non solo la CISL, ma anche le Acli e persino settori della DC) e socialisti.
La tenuta democratica del paese e delle istituzioni fu realizzata grazie all'unità antifascista, un fronte certamente più ampio di quello delle sole lotte sindacali o delle estremistiche compagini studentesche. Non c'era borgo sperduto che non avesse il suo comitato unitario che coinvolgeva le forze dell'arco costituzionale dal PCI, a volte fino al PLI.
Rispetto alla piazza spesso occupata da estremisti inclini ad atteggiamenti paramilitari e persino violenti ( i famigerati katanga di Milano), emerse un fronte talmente ampio che a molti apparve la prova che la democrazia fragile, immatura ed incompiuta nata dalla Resistenza stesse ritrovando la sua fondamentale vocazione ed identità al vaglio di una delle prove più ardue della storia del dopoguerra..
Bobbio ebbe un ruolo tempestivo e rilevante.
Come ancora ricorda Giovanni De Luna «... ci fece riflettere su quello che consideravamo il cuore nero delle istituzioni. Anche nella democrazia esistono i segreti del principe. Anche nella democrazia esiste una mano invisibile che governa. Ma appunto, il tasso di democrazia di un sistema politico si misura sull'estensione di questa zona di invisibilità: quanto più essa è ridotta, contenuta, controllata, tanto più ci si avvicina ad una democrazia compiuta. Fu così che la battaglia per la verità sulla strage di Stato cambiò pelle: da linea rivoluzionaria a impegno per la democrazia, da lotta extraistituzionale e pericolosamente eversiva a impegno per aumentare la libertà all'interno delle istituzioni.» (1)

Come suggerisce lo stesso De Luna, Bobbio era credibile presso le nuove generazioni "rivoluzionarie" perchè un poco gli somigliava, ma molto ne differiva. Non un antifascista della cattedra, ma nemmeno un uomo che aveva sospeso la sua vita normale per svolgere "missioni" alla maniera di tanti fanatici sostenitori della militanza totale, votati al sacrificio.
"Bobbio non ci sedusse per la sua militanza."Questa... «nella politica del '900 era una dimensione totalizzante, una sospensione della propria vicenda esistenziale che azzerava affetti, studi,, abitudini, per riplasmare tutto in ossessivo impegno politico. Questa sospensione nella vita di Bobbio non ci fu mai nemmeno nei momenti più tragici o più caldi della nostra storia.» (1)

Alle preoccupazioni per l'anomalia italiana nel quadro delle democrazie occidentali se ne aggiungevano di ben più gravi per l'involuzione del sistema sovietico e l'invasione della Cecoslovacchia. Le speranze di un socialismo dal volto umano erano tramontate definitivamente, con la fine di Dubcek sotto i cingoli dei carri armati con la stella rossa.
Era pur vero che sotto la guida di Luigi Longo, peraltro un duro della vecchia guardia partigiana, il PCI era riuscito a prendere le distanze da Mosca esprimendo il suo grave dissenso (che nel linguaggio delle diplomazie comuniste significava grave condanna) ma questo era chiaramente del tutto insufficiente. Non c'era a quel tempo un solo sincero democratico in Italia che non avesse motivo di vergognarsi per la sua vicinanza ai comunisti, tranne Bobbio e pochi altri.
In realtà l'umiliazione era grande, specie per i comunisti. In alcuni era dolore senza fine, disillusione, il crollo di un mito. In altri era pervicace attacamento all'URSS, alla leggenda di Lenin e persino di Stalin, all'ossessivo richiamo del sacrificio di milioni di combattenti e civili caduti nella guerra antinazista. Come se tutto questo potesse continuare a giustificare...

A questo punto della sua vita Bobbio si trovò infine ad un crocevia. Secondo alcuni avrebbe dovuto scegliere da che parte stare. In realtà non poteva. Sentimentalmente, oltre che razionalmente, egli era ancora un'azionista legato ai comunisti italiani dalla profonda affinità della Resistenza e della Costituzione Repubblicana. Non poteva consentire ad un disegno politico che portasse i soli socialisti ad essere i legittimi rappresentanti della sinistra e delle forze del lavoro. Anche perchè riteneva l'operazione del tutto irrealistica. Poggiava su una sottovalutazione clamorosa della capacità di tenuta del PCI e dei suoi saldi legami (allora, non ora) con il mondo del lavoro.
E tuttavia cominciò a militare nel PSI, da indipendente e con tutta la sua provocatoria presenza, proprio in un periodo nel quale la tendenza anticomunista cominciava a manifestarsi nella corrente della cosiddetta autonomia socialista.
Federico Coen (2) legge questo passaggio assai difficile della biografia di Bobbio lungo tutto l'arco degli anni '70 come un severo impegno contro la non-dottrina marxista dello stato e come apertura alla concezione gramsciana dell'egemonia, che sarebbe però da vedere in stretta connessione con la valutazione di insufficienza espressa da Gramsci verso la borghesia italiana, molto diversa da quella francese o inglese. Il problema dell'egemonia in Gramsci non originava da una vaga ricerca di alternativa alla strategia leninista. Poggiava sulle condizioni di arretratezza della situazione italiana, che tuttavia differiva dall'arretratezza della situazione russa, perchè l'Italia era l'Italia, cioè il paese della cultura, del Rinascimento, di Dante e del Risorgimento, della cattolicità e di ... Benedetto Croce.
Toccava alla classe operaia, pensava Gramsci, di assumere il primato morale ed intellettuale, perchè la borghesia su questo piano aveva clamorosamente fallito.
In realtà la borghesia più avanzata aveva cominciato ad esprimere una sua cultura politica: l'azionismo stesso. L'ipotesi, tra le più affascinanti, le più bistrattate e le più perdenti in assoluto: la maturazione di un'alleanza tra capitale e lavoro, tra borghesi ed operai, cioè l'unità dei ceti produttivi contro la rendita, la finanza ladrona, la mafia e quant'altro fosse di ostacolo al progresso civile ed economico del paese.
E per quanto possa apparire strano, Bobbio rimase "azionista" fino alla fine dei suoi giorni, quindi anche da "socialista".

La leadership assunta da Bettino Craxi mise però Bobbio in un angolo, sconfitto insieme ad Antonio Giolitti.
Bobbio era convinto che per sanare il paese fosse necessaria una ricomposizione della frattura storica tra comunisti e socialisti, naturalmente all'insegna del passaggio del PCI alla socialdemocrazia. Craxi tirava nella direzione opposta, non sapremo mai se per calcolo politico angusto e personalistico (visti gli esiti) o se per disegno politico lungimirante, da "grande statista". Il dibattito è aperto, ma gli interessi in gioco e le partigianerie da quattro soldi finora hanno impedito di far luce a sufficienza.
E la mia personale opinione (che conta poco) è che Craxi non fu un grande statista, nemmeno in una delle poche occasioni in cui la sinistra lo applaudì a furor di popolo perchè si rifiutò di consegnare agli americani il terrorista palestinese Abu Abbas imputato di omicidio per i fatti della nave da crociera Achille Lauro.
Fu solo fortunato ed abile (perchè senza abilità, la fortuna svanisce nel nulla dopo pochi attimi come ai tavoli da gioco) nel gestire la fortuna,cioè una contingenza economica internazionale favorevole all'Italia.
In casa socialista Bobbio fu "profeta inascoltato". Il PSI, nonostante le ambizioni craxiane non riuscì mai ad essere un grande partito, rimase subalterno a PCI e DC anche quando conobbe rilevanti successi elettorali. Craxi continuò a coltivare l'ambizione di una sconfitta storica del PCI, fino a ridurlo ad una piccola cosa, ma non ci riuscì. Nemmeno la caduta del muro di Berlino ci riuscì e solo la dissennata pochezza politica di Occhetto poté portarlo ad una sconfitta storica contro Berlusconi e Forza Italia. Se il PCI avesse candidato Ciampi e l'azionismo storico, si fosse presentato cioè come forza di governo autentico ed unitario ed una chiara alternativa, le destre non sarebbero passate, quantomeno nel '94.
Ma anche questa è opinione personale.
Qui interessa di più mettere in rilievo il calvario di Norberto Bobbio nel dibattito interno al PSI di Craxi.
«Dopo il congresso di Torino - scrive Coen - che aveva segnato il momento più alto della gestione craxiana, allorchè il nostro aveva accettato una tantum di aderire al PSI come indipendente, la sua partecipazione alla vicenda socialista andrà spegnendosi rapidamente.
Nel 1981, chiamato insieme a Salvadori a pronunciarsi in contraddittorio con Claudio Martelli sulla "questione morale", entrata nelle cronache politiche con gli scandali a carico degli assessori socialisti al Comune di Torino, Bobbio pronunciò un giudizio duramente negativo nei confronti del gruppo dirigente socialista, accusandolo di non aver fatto nulla nel suo ruolo di governo per la moralizzazione della vita pubblica, e concludendo il suo intervento con una domanda retorica che segnava il venir meno delle speranze da lui riposte nel Psi qualche anno prima: "non vedo - si chiedeva - quale beneficio può trarre la democrazia in Italia, e soprattutto la sinistra, da un'alternativa costituita da un partito che si serve del mercato politico più o meno allo stesso modo in cui se ne serve la Democrazia Cristiana."» (2)

Sempre a disagio nelle anguste stanze della bassa cucina politica, Bobbio fu molto apprezzato come giornalista e commentatore fin da quando lo convinsero a scrivere regolarmente per La Stampa di Torino, il quotidiano della FIAT e della famiglia Agnelli. Ancora una volta da azionista.
Cominciò nel 1976, dopo essere stato protagonista di un grande dibattito alla Festa Nazionale dell'Unità.
Gli telefonò Arrigo Levi che gli disse: "Non può parlare ad alcune centinaia di persone e rifiutarsi di scrivere per milioni di lettori. " (3)
Vennero quattro articoli su marxismo e pluralismo che suscitarono interventi di Pietro Ingrao, Antonio Giolitti, La Malfa e Benigno Zaccagnini.
Per capire il quadro ed il clima della collaborazione è preziosa la testimonianza di Ezio Mauro, attuale direttore di Repubblica ma per diversi anni alla guida della Stampa.
Mauro sottolinea che il rapporto tra azionismo torinese e famiglia Agnelli, ovvero uno dei poteri forti, un potentato economico senza uguali fino all'arrivo di Berlusconi, non fu né casuale né effimero. La famiglia Agnelli ed in particolare l'Avvocato, hanno sempre riconosciuto l'autonomia ed il primato della politica.
«Infatti - dice Mauro - come direttore della Stampa, ho ripetuto di continuo nei miei articoli che, nella disciplina e nella gerarchia dei soggetti portatori di interessi legittimi in una società democratica, la politica deve sedere a capotavola, tenere il mazzo in mano e dare le carte, regolando l'azione degli altri poteri nell'interesse generale. Si tratta di una linea che La Stampa ha costantemente sostenuto.
Bobbio e Alessandro Galante Garrone, ma prima ancora Vittorio Gorresio, Arturo Carlo Jemolo, Massimo Mila e altri, hanno interpretato al meglio questa visione della democrazia. Non dimentichiamo poi Carlo Casalegno, ex-azionista e vicedirettore della Stampa assassinato dalle BR, la cui rubrica s'intitolava significativamente "Il nostro Stato". Si tratta di personalità che hanno sempre guardato la politica da un versante etico, morale, civico che definirei, per dirla con termini francesi, "repubblicano". Il loro contributo ha consentito alla Stampa, malgrado fosse proprietà di un'impresa impegnata in frequenti rapporti di scambio con il potere politico, di collocarsi certamente non contro l'establishment, ma in qualche modo "fuori" dal Palazzo.» (4)
Come Bobbio, appunto.

(continua)


note:
(1) Giovanni De Luna - Per noi sessantottini, un ponte verso le impazienze - La Stampa, 10 gennaio 2004
(2) Federico Coen - Una vita tra i socialisti, da "profeta inascoltato" - Reset n 74 - novembre-dicembre 2002
(3) Alberto Papuzzi - Tra i dilemmi dell'uomo moderno - La Stampa, 10 gennaio 2004
(4) Intervista a Ezio Mauro di Antonio Carioti - Torino, "La Stampa" e il primato della politica - Reset n 74 - novembre-dicembre 2002