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Breve biografia di Norberto Bobbio (parte 2)
di Renzo Grassano
Ci siamo lasciati con l'invasione dell'Ungheria ed abbiamo parlato di chiusure nel PCI, che difese tenacemente la linea sovietica, pur riconoscendo che nella rivolta ungherese c'era una fortissima componente operaia e di sinistra. Ma se vogliamo mettere a fuoco i problemi, dobbiamo guardare un attimo più indietro.
La crisi nel rapporto tra intellettuali e PCI risaliva infatti ai tempi della polemica con il "Politecnico" fondato da Elio Vittorini (iscritto al PCI) nel 1946, e che aveva visto la partecipazione di Franco Fortini, Giansiro Ferrata, e un intellettuale cattolico-comunista: Felice Balbo.
Il dialogo tra Bobbio e comunisti costituiva, in un certo senso, un'eccezione, perchè allora i comunisti erano davvero guidati da una disciplina ferrea, non tanto da un'ideologismo - insistere su questo punto, più che giusto, potrebbe però impedire di scorgere l'altro che c'era - ovvero la linea politica, il pensiero del migliore (Togliatti) sempre pronto a dettarla con interventi di analisi e chiarificazione, in un mirabile mix di tattica e strategia, che in effetti sembravano volare molto in alto e guardare molto lontano.
L'esperienza del "Politecnico", cresciuta per «Una nuova cultura - che diventerà il motto della rivista -. Non più una cultura che consoli nelle sofferenze ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini.» (1)
L'ispirazione di Vittorini era molto simile a quella di Jean Paul Sartre, che in Francia aveva promosso la rivista "Les Temps Modernes".
Scriveva Vittorini nel manifesto inaugurale: « La cultura italiana è stata particolarmente provata nelle sue illusioni. Non vi è forse nessuno in Italia che ignori che cosa significhi la mortificazione dell'impotenza o un astratto furore. Continueremo, ciò malgrado, a seguire la strada che ancora oggi ci indicano i Thomas Mann e i Benedetto Croce? Io mi rivolgo a tutti gli intellettuali italiani che hanno conosciuto il fascismo. Non ai marxisti soltanto, ma anche agli idealisti, anche ai cattolici, anche ai mistici. Vi sono ragioni dell'idealismo o del cattolicesimo che si oppongono alla trasformazione della cultura in una cultura capace di lottare contro la fame e le sofferenze?» (1)

L'appello del "Politecnico" fu raccolto da settori molto ampi. Sulla rivista comparvero contributi di Giulio Preti e Remo Cantoni (filosofi), Sartre, Merleu-Ponty, Simone de Beuvoir, il filosofo cattolico progressista Emanuel Mounier, Bertrand Russell e l'ungherese Gyorgy Lukacs.
Ma già dall'inizio gli intellettuali ortodossi del PCI spararono a raffica. Cesare Luporini fu il primo, sulle colonne di "Società", rivista da lui fondata. Parlò di "una velleità romantica, un'illusione moralistica, e un abbraccio di generosi malintesi".
Mario Alicata, allora dirigente nazionale piuttosto quotato, dopo la pubblicazione di Hemingway e John Reed, e poi lo stesso Togliatti, accusarono il Politecnico di "dilettantismo ed enciclopedismo", orientati ad "una ricerca astratta del nuovo, del diverso e del sorprendente".
Certo, a Togliatti non erano piaciuti in particolare gli interventi del filosofo Giulio Preti che aveva spiegato come il pragmatismo americano non fosse incompatibile col marxismo, dieci anni prima l'uscita di Praxis ed empirismo, celebre saggio del 1957.
Il rapporto tra PCI ed intellettuali non era dei migliori, in sostanza. E certo non contribuirono a migliorarlo le posizioni di Della Volpe ed Antonio Banfi, piuttosto rigidi nel proclamare la superiorità della libertà comunista su quella borghese (il primo) e la superiorità del materialismo dialettico sulle altre filosofie il secondo.
Fortunatamente i rapporti diplomatici tra PCI ed intellettuali critici e dissidenti era tenuto in primo luogo da Togliatti, che come s'è già visto, e pur oscillando tra bastone e carota, questi sembrava aveva sempre da offrire qualche apertura in più.

Pur nelle difficoltà, Norberto Bobbio proseguì imperterrito per la sua strada. La riscoperta di Gramsci, voluta fortemente da Togliatti anche in alternativa alle posizioni dogmatiche di Della Volpe e Banfi, stimolò Bobbio a proseguire nel difficile dialogo. Ma i suoi itinerari di ricerca erano in qualche modo diversi.
Da Kelsen a Carl Schmitt, guardava più alla tradizione filosofico-giuridica europea che a quella italiana, pur non ignorando Benedetto Croce, al quale dedicò un gran numero di scritti.
Nel 1945 era stato in Inghilterra, per studiare alla scuola della democrazia anglosassone. Commentando quegli anni affermò: "Noi antifascisti democratici eravamo anglofili per reazione. all'anglofobia dei fascisti."
Dal '48 aveva incominciato la sua lunga permanenza alla facoltà di filosofia di Torino, dove restò fino al 1984, quando diventò professore emerito.
Una pagina poco nota dell'impegno civile e culturale di Bobbio fu la collaborazione con la Sec (Società europea di cultura), fondata nel 1950 da Umberto Campagnolo, stretto collaboratore di Adriano Olivetti.
La Sec rivendicava una unità culturale europea contro le divisioni della "cortina di ferro". Bobbio partecipò a convegni a Praga, Budapest, Varsavia e Belgrado con lo scopo di stabilire un dialogo con dissidenti ed intellettuali comunque capaci di autonomia di giudizio.
L'impegno è alimentato dalle ansie per un possibile conflitto nucleare. Nel 1961 lo troveremo impegnato nella prima Marcia per la pace organizzata da Aldo Capitini da Perugia ad Assisi.
Nel 1966 aderirà al Tribunale Russell, diventando responsabile della sezione italiana su proposta di Joyce Lussu.

Se il dialogo a sinistra proseguì, pur con molti passi indietro e tante incertezze, dobbiamo però anche vedere un altro elemento importante dell'impegno intellettuale di Bobbio: il confronto semipermanente con la cultura cattolica, simboleggiata in grande misura dal rapporto con il filosofo Augusto Del Noce.
Confronto difficile e che viene da lontano. «Il loro primo incontro filosofico risale ai primi anni del dopoguerra, quando iniziano a collaborare alla "Rivista di filosofia" la cui redazione era stata trasferita nel 1945 da Milano a Torino e la direzione era passata da Piero Martinetti a Giole Solari. In quegli anni Del Noce era un assiduo collaboratore del quotidiano della DC "Il Popolo Nuovo", nato a Torino subito dopo la Liberazione nello stesso momento in cui Bobbio scriveva sul quotidiano del Partito d'Azione "Giustizia e Libertà" diretto da Franco Venturi. Nella rivista si erano trovati a discutere sulle tesi filosofico-politiche di un loro comune amico, Felice Balbo, più giovane di qualche anno, riconosciuto come l'ideologo dei comunisti cattolici. Dal confronto erano nati due scritti famosi: Marxismo e salto qualititativo di Del Noce e La filosofia prima di Marx di Bobbio, entrambi apparsi sulla rivista, rispettivamente nel 1948 e nel 1950.
A partire da questo momento, il confronto tra i due maggiori filosofi della politica italiana sarà continuo, come in un duello da "cavalieri antiqui" che non mettono mai da parte la stima e l'amicizia reciproca - così reca la dedica che Del Noce apporrà sullo scritto intorno a Giacomo Noventa del 1973 facendone dono all'amico.» (2)
Ma il fondamentalismo delle posizioni di Del Noce rese però difficile il rapporto. L'accusa di immanentismo che Del Noce rivolgeva a tutta la filosofia italiana non cattolica e forse, anche ad una parte di quella cattolica, non scivola via facilmente dalla pelle e dal pensiero. Toccava, per capirci, sia il fascista Gentile che l'antifascista Croce ed il comunista Gramsci.
E' un'accusa grave, ve lo dice un cattolico che conosce bene i cattolici di questa specie. Immanentismo significa fondare il proprio pensiero sull'uomo e non su Dio (nella fattispecie l'illuminato magistero della Chiesa), e quando si dice "uomo" si dice Adamo, peccato originale, cioè diavolo. Nelle interpretazioni più fanatiche della divisione tra immanentisti e divinamente illuminati, alla fine è il diavolo a dire l'ultima parola, se non la dice il filosofo cattolico che guarda tutti dall'alto con sovrana compassione ma anche con tanta voglia di inquisire e mettere all'indice.
Come si possa dialogare su queste premesse non l'ho mai afferrato. Perché, alla buon fine, come si fa a discutere con chi in partenza ti considera un'anima da redimere e non un uomo con buoni argomenti derivanti da riflessione, studi, esperienza?
Gli è che Bobbio, con infinita pazienza, ci provò e tenne duro. Non converrà mai con Del Noce sull'opportunità di mettere sullo stesso piano fascismo e comunismo, ma accetterà alcuni rilievi di Del Noce critico del capitalismo e del consumismo, cioè della società opulenta dell'immanentismo liberale, dominata dal libertinismo, ovvero dell'edonismo di massa. Ma avvertirà il bisogno di segnalare il pericolo delle crociate contro la falsa opulenza dei poveri e degli ingannati e dirà che il pericolo non è l'opulenza in sé ma il suo realizzarsi a spese dei poveri.

Rispetto ad una certa pubblicistica convenzionale, compresa quella del "Politecnico", convinta della necessità di avere e predicare maestri per istruire il popolo ai migliori sentimenti nazionali e democratici, Bobbio ebbe sempre posizioni di estremo scetticismo. Dissentiva persino da Dewey, Stuart Mill e Bertrand Russell, animati da una gran fede nel potere sociale e nel potenziale democratico dell'istruzione.
Come evidenzia bene Perry Anderson, «La sua distanza scettica verso le proposte di "riforma intellettuale e morale" o verso speranze troppo ingenue nella Bildung (la formazione), è per converso, accompagnata da un profondo rispetto per quella tradizione del "realismo politico", particolarmente connessa nella storia con il ruolo del potere e della violenza. Questa tradizione ha avuto un'influenza profonda su Bobbio. Essa, egli osserva, ha assunto pressochè sempre un carattere conservatore. In Europa i suoi supremi esponenti furono Hobbes, teorico par excellence dell'assolutismo, per il quale la legge senza spada non era che un pezzo di carta; ed Hegel, per il quale la sovranità veniva messa alla prova non tanto sul piano del rafforzamento della pace interna, quanto su quello della prosecuzione della guerra esterna, elemento regolare perpetuo della vita delle nazioni.
In Italia questo realismo assunse la forma di non di una razionalizzazione speculativa, ma di una ricerca concreta: una esplorazione dei meccanismi di dominio, da Machiavelli fino a Mosca ed a Pareto. Bobbio è stato un commentatore fedele e un estimatore dei teorici politici dell'elitismo del suo Paese, a cui deve alcuni degli elementi sociologici significativi della sua visione. Ma c'è un senso nel quale la sua appropriazione dell'eredità realista lo ha condotto lontano da essa, o meglio, deviato dalla tradizione specificatamente italiana. Perchè - prosegue Anderson - questa tradizione si è tradotta in una cultura ossessiva della politica pura; cioè di una politica concepita come dominio oggettivo assoluto del potere per sé, alla maniera di Machiavelli. » (3)

Bobbio rimprovera alla cultura politica realistica nazionale la mancanza del senso dello stato. Si allontana da Machiavelli, ma anche da Mosca e da Gramsci.
Ai marxisti ed allo stesso Marx rimprovera il pessimismo verso lo stato ed una visione ottimistica della natura umana. Bobbio è certamente pessimista sia verso lo stato concreto che verso la natura umana concreta, ma dovesse scegliere, sceglierebbe lo stato.
Deve quindi fare i conti con una tradizione nella quale "tutti gli studi politici hanno tratto alimento più dalle osservazioni, talore spietate, dei conservatori, che non dalle costruzioni tanto rigorose quanto fragili, dei riformatori." (4)
Oggetto dei suoi studi fu soprattutto il giurista austriaco Hans Kelsen. Questo lo portò a prendere sempre più nettamente posizione contro il giusnaturalismo. Perchè Hobbes e perchè Kelsen? Cos'hanno in comune il pessimista Hobbes teorizzatore del Leviatano e lo strenuo difensore dei diritti umani Norberto Bobbio?
Alla domanda ha cercato di rispondere Gianni Vattimo. «Non si può certo dire che il liberalsocialismo sia l'esito logicamente necessario di una sintesi tra Hobbes e Kelsen, anzi, è forse un esito del tutto eccezionale; ma in fondo proprio qui può essere cercata l'originalità filosofica del maestro torinese.
Attraverso lo studio di Hobbes, Bobbio persegue, nei diversi saggi che vi ha dedicato, un approccio radicalmente realistico al problema dello Stato e delle leggi. E' in nome di tale realismo che egli conduce la sua polemica contro le teorie del diritto naturale come fondamento e criterio di valutazione delle leggi. Il giusnaturalismo gli appare inficiato da due grandi limiti, che lo rendono improponibile nonostante la funzione spesso rivoluzionaria ed antiautoritaria che ha avuto nella storia, a cominciare dalla rivoluzione francese. Parlare di un diritto di natura significa da un lato riferirsi a teorie molteplici ed etereogenee, ognuna delle quali pretende di essere oggettivamente vera a prefedrenza di tutte le altre, mentre è evidenteche ciascuna attribuisce al termine "natura" un significato diverso giungendo ad esiti contraddittori; e comunque, in secondo luogo, commette l'errore logico stigmatizzato da Hume, passando dalla descrizione (per esempio della natura dell'uomo) alla prescrizione (se sei così, devi agire così, ma perchè mai?)
Hobbes ha insegnato che lo stato di natura è solo quello in cui non vi sono leggi, le condizioni della selva primitiva (se mai è esistitita) in cui ciascuno è in guerra contro tutti gli altri per la sopravvivenza. Una tale condizione non fornisce nessun modello normativo.» (5)
Per Hobbes occorre ricorrere ad un artificio. La legge e lo stato non hanno nulla di naturale. Sono qualcosa di "mostruoso" (appunto il Leviatano è il nome del mostro biblico) fatto apposta per frenare la libidine degli individui. E' legittimo perchè si fonda sul consenso dei cittadini, ed ha il monopolio della forza.
Una volta compreso questo, si accetta lo stato, anche come male minore rispetto ad un'assenza di stato e quindi all'anarchia del tutti contro tutti, come nel Far West cinematografico. Ma questo è pensiero di destra, altro che di sinistra!
E con Kelsen s'incontra perfettamente.
Prosegue Vattimo:«Il positivismo giuridico di Kelsen, cioè la teoria secondo cui la validità delle leggi non dipende da un qualche valore dato come fondamento (la natura dei giusnaturalisti) ma solo dalla coerenza formale di un sistema di norme posto storicamente da un'autorità, corrisponde bene a queste premesse bobbesiane, che contro ogni apparenza non danno necessariamente luogo a una visione autocratica dello Stato. Bobbio, con l'aiuto di Kelsen, vi vede anzi loa base di una democrazia "procedurale" cioè organizzata sul principio minimo del consenso, che è anche quello di Hobbes. Con questo, naturalmente, si va molto oltre Hobbes - ma senza ricadere negli autoritarismi, di destra o anche di sinistra, che costituiscono il rischio di ogni sottomissione della politica ad una qualche verità.» (5)

Il '68 portò molti oneri e molte prove. E Norberto Bobbio si trovò la contestazione dapprima in casa, col figlio Luigi, e poi in trasferta, quando formò una sorta di triumvirato per la nascita della facoltà di Sociologia all'università di Trento. Ma anche la scommessa sulla riunificazione del Partito socialista fu persa piuttosto dolorosamente e punita dall'elettorato. Gli italiani proprio non volevano saperne di coniugare socialismo e valori liberali e democratici.
Significativa sul rapporto tra Bobbio e i sessantottini la testimonianza di Giovanni De Luna: «Bobbio rifiutò questa logica [quella dello scontro frontale tra generazioni, ndr] entrando in urto anche con i suoi amici di una vita; gli azionisti torinesi si divisero. Avevano attraversato insieme gli incubi della guerra fredda, la scomparsa del Partito d'Azione, gli anni dello strapotere democristiano, si erano asserragliati nel doppio fortilizio dell'antifascismo e dell'anticomunismo senza cedere terreno su nessuno dei due fronti. Avevano la stessa formazione culturale, gli stessi amici, le stesse frequentazioni, le stesse letture. Il '68 fu come un uragano. Quel piccolo mondo fu sconvolto. Sulle pagine del loro giornale, Resistenza, si svolse un dibattito molto franco; Franco Venturi ed Aldo Garosci scelsero la strada della contrapposizione frontale a un movimento sul quale sembravano aleggiare i fantasmi del del diciannovismo; anche allora un confuso ribellismo di sinistra aveva spalancato le porte alla vittoria delle destre, al fascismo.
Per Bobbio non era così. Dall'interno dell'università vedeva come fossero reali i mali che i giovani denunciavano. Lo incuriosiva il loro rifiuto delle forme tradizionali della politica, il tentativo di trovare modelli organizzativi alternativi a quelli dei partiti, l'affiorare di spezzoni di democrazia diretta.» (6)

(continua)

note:
(1) riportato in Nicola Abbagnano - Storia della filosofia vol. X - testo di Franco Restaino - Tea
(2) Lorella Cedroni - Con Del Noce duello da "cavalieri antiqui" - Reset n 74 - novembre-dicembre 2002
(3)Perry Anderson - Quel "composto chimico" necessario ma instabile - Reset n 74 - novembre-dicembre 2002
(4) Norberto Bobbio - Saggi sulla scienza politica in Italia - Laterza 1969
(5) Gianni Vattimo - Tra Hobbes e Kelsen il principio minimo di democrazia - La Stampa, 10 gennaio 2004
(6) Giovanni De Luna - Per noi sessantottini, un ponte verso le impazienze - La Stampa, 10 gennaio 2004