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Karl Barth (1886-1968)
La posizione teologica del protestante Karl Barth fu fondamentalmente ostile ad ogni apertura filosofica alla "teologia naturale", ovvero al riconoscimento che l'uomo possa giungere coi suoi soli mezzi razionali alla conoscenza del vero Dio. In ciò si può riconoscere un sicura fedeltà alla linea S.Paolo -Tertulliano - S. Agostino - Lutero, fedeltà che comporta una radicalizzazione del confronto-scontro con la linea teologica alternativa che da S.Tommaso d'Aquino giunge fino a Karl Rahner e J. B. Metz in campo cattolico, ed alla "teologia liberale" di Schleiermacher ( e volendo, anche di Kant) in campo protestante. Senza parlare di Hegel, che proclamò la filosofia superiore ad ogni forma di religione (e quindi di teologia).
In un articolo del 1934, Nein! Antwort an Emil Brunner, Barth arrivava a dire: "la teologia naturale" è " a limine: preliminarmente da respingere. Essa può fornire sostegno soltanto alla teologia e alla chiesa dell'anticristo."

Da cristiano nel socialismo
Nicola Abbagnano,nella sua Storia, ha inserito Barth nel capitolo intitolato all'esistenzialismo ed ha parlato esplicitamente di rinascita kierkegaardiana. Purtroppo ha taciuto sul fatto essenziale che Barth, proprio a partire dalla "chiamata", cioè dal sentirsi "comandato" ad una missione, scelse di militare nelle file del socialismo, ovviamente da cristiano, e non da socialista.
Negli anni dopo il 1911 trascorse un periodo di esperienze di base a Safenwil, piccolo borgo dell'Argovia, dove come pastore protestante diede vita ad una chiesa locale, iscrivendosi poi nel 1915 al partito socialdemocratico elvetico. «Dimostrando di essere tutt'altro che nell'isola svizzera» - secondo quanto sostenuto G. Miegge nella Introduzione alla versione italiana della seconda edizione dell'Epistola ai Romani. (edito da Feltrinelli)
In realtà, Barth era attratto dagli austromarxisti ma, anche intimamente travagliato dai limiti e dagli obblighi che gli imponeva la sua fede "radicale". Era, per intenderci, un teologo che aveva preso molto sul serio i Vangeli e le epistole paoline, e che viveva di "conseguenza".
A Safenwil Barth fu insieme predicatore, capo operaio, persino delegato al congresso socialista. Elaborò un suo contributo, nella prassi, alla scoperta "politica" della Bibbia. Tutto ciò trovò sfogo nella prima versione della Lettera ai Romani, scritta giorno dopo giorno su piccoli quaderni di scuola.
Nel 1919 intervenne a Tambach durante un convegno di socialisti cristiani incentrato sul tema Der Christ in der Gesellschaft, nel quale invitò i fratelli ad assumere coerentemente le responsabilità derivanti dal loro impegno "non di fronte (...) ma dentro il socialismo, come compagni che partecipano alle stesse colpe e alle stesse speranze; perché è esso che, nella nostra epoca, pone il problema dell'opposizione allo stato di cose attuale, e che fornisce la parabola del Regno di Dio; ed è per mezzo di esso che sapremo se avremo compreso questo problema nel suo significato assoluto e relativo".

Un esempio della tensione interiore di Barth è data da questo complesso passaggio relativo al rapporto tra i cristiani, lo stato e la politica: «Solo per i cuori puri la via che ivi è da percorrere, sarà e rimarrà una via diritta. La furbizia da serpenti e l'innocenza da colombe - maneggiata come metodo privo di presupposti -, che voi dovete usare, sarebbero curve, false e insensate. Che cosa vogliamo con ciò dire? Non farti possedere dal male, ma possiedi tu il male nel bene! Ognuno si sottometta, personalmente ai poteri dell'autorità. Perché non c'è potere senza Dio, una volta che il potere esiste, esiste grazie all'ordinamento di Dio. Chi dunque si rivolta contro il potere, si contrappone al disegno di Dio. Gli insubordinati, però attirano essio stessi su di sé il giudizio. Poichè i dominanti non fanno paura all'agire buono, bensì a quello cattivo. Vuoi non avere alcuna paura del potere? Allora fai il bene ed esso piuttosto ti premierà.»
Fin qui Barth ha seguito quasi parola per parola il testo paolino. Ora comincia a metterci del suo, ovvero della teoria agostiniana: «Così lo Stato attuale, qual è subentrato al posto dello Stato divino originario, che va rinnovato in Cristo. Il suo nome significa 'violenza' (Gewalt), poiché è esplicito e riconosciuto. Il suo puro carattere di potenza e di costrizione in contrasto con la giustizia e la libertà dello Stato divino. Se il male - in particolare la volontà dell'uomo estraniato da Dio - ha il potere (Gewalt) sulla terra, allora ogni potere - comunque si chiami - che non sia emerso da una nuova unificazione dell'uomo con Dio (Matteo 7,29) potrà essere solo cattivo. Lo stato di potenza attuale è diametralmente opposto alle intuizioni divine: è in sé cattivo. Ma proprio come manifestazione evidente del rapporto negativo dell'umanità rispetto alla sua origine divina, appunto come un'orrenda deformazione della direzione diretta della storia da parte della giustizia divina, che esisteva, esso è insieme una manifestazione dell'ira divina, che punisce l'umanità lasciandola fare (1,23), che governa il male (finché non sia sconfitto dal bene nel Cristo 12,21) per mezzo del male, lo corregge e lo frena... Paragrafi e fucili mitragliatori costituiscono la saggezza della rivoluzione. Ferro e sangue apparvero a Bismarck indispensabili, per la realizzazione del suo ideale di Stato, non meno che a Wilson per la realizzazione del suo. Ogni politica, in quanto lotta per il potere, in quanto arte diabolica per ottenere la maggioranza, è fondamentalmente sporca.»

Il cristiano ripudia la violenza, ma deve anche essere pronto a sopportare. «Ora stai, inerme, nel dominio dell'ingiustizia e della morte. Preparati al fatto che lo Stato, lo Stato reazionario e quello rivoluzionario, non invano porta la spada, non invano è Stato fondato sul potere. "Chi di spada ferisce, di spada perisce." Ivi sono in attesa tribunali, conflitti, errori, confusioni tragiche e complicazioni di ogni genere: sempre nuove probabilità di separazione da Dio - ché, come devono contribuire a salvarti tutte o soltanto alcune cose, se tu non hai affatto caro Dio? Come vuoi sfuggire alle conseguenze della tua correità, se ti manca il contrappeso del fare il bene, della collaborazione alla causa del popolo di Dio? Come vuoi confidare nelle promesse divine, se, per parte tua, non te ne sai dato cura, bensì sei corso dietro a divinità estranee? Non t'illudere: chi dà scacco, sia pronto a subire uno scacco, e dietro di te non c'è più un giocatore superiore, per toglierti d'imbarazzo.»

La polemica con Emil Brunner
Come abbiamo visto all'inizio, Barth rigettò in modo violento, persino urtante, qualsiasi concessione alla teologia naturale e quindi alla teologia filosofica. Liquidò come ovvietà l'argomento della disposizione naturale dell'uomo alla ricerca del divino e con essa anche la considerazione dell'uomo come soggetto libero, ed allo stesso tempo responsabile. Per Barth, l'uomo è in "tutto e per tutto un peccatore", come appunto scrisse nell'articolo di risposta a Brunner, che pure era un protestante. Il confronto con questi giunse all'apice quando Barth reagì all'affermazione che nelle determinazioni antropologiche generali, quindi nella definizione di uomo come essere razionale, è prevista una conoscibilità di Dio nella sua opera, ovvero che l'intero ordinamento del mondo è una manifestazione di Dio. Ciò significava, per Brunner ( ma non solo lui, ovvio) che l'uomo sa qualcosa, quindi sa anche di Dio.
Barth negò questo ovvio ragionamento recisamente: La ragione umana è cieca nei confronti della verità di Dio. Il Cristo non è conoscibile per mezzo della ragione. Quel Dio che può essere conosciuto è una creazione fantastica, nient'altro che un idolo. E allora: "il culto reso agli idoli è soltanto una sorta di forma preliminare ed imperfetta del culto reso al vero Dio?" Risposta negativa, ovviamente. Non preliminare, ma totalmente falsa.

Barth, insomma, seguendo in questo San Paolo fino alla radice, dava per scontato che tutti gli uomini si trovino nella condizione di peccatori. Per questo, all'uomo non appartiene nessuna libertà, neppure quella di decidersi per Dio. La "libertà di conoscere il vero Dio è una cosa meravigliosa, una libertà di Dio, non una delle nostre libertà."

Dall'estremismo ad una posizione (apparentemente) nuova
La posizione estrema e dogmatica ( e non si capisce, con tutta la buona volontà, perché mai tutti gli uomini dovrebbero essere "peccatori" per definizione) venne parzialmente mitigata nel corso degli anni. Barth cominciò infatti a parlare di "svolta nel pensiero della teologia evangelica, nella quale noi oggi siamo impegnati non in opposizione ma tuttavia con delle differenze rispetto ad una svolta precedente."
In sostanza Barth, riconobbe che le sue idee al tempo dello scontro con Brunner avevano condotto a svalutare radicalmente l'uomo. Nel 1956 egli sostenne "un'impostazione ed un approccio nuovi". Il dato di partenza della riflessione barthiana è ora che anche nel cristianesimo evangelico il concetto di Dio avesse assunto un'astrattezza eccessiva, a tal punto che esso somigliava sempre più al Dio dei filosofi deisti che a quello di Abramo, Isacco e Giacobbe. Su un altro versante, Barth riteneva inoltre non si potesse più parlare di Dio senza parlare dell'uomo, e che "la diversità del Dio vivente ha il suo senso, la sua forza solo nel contesto della sua storia e del suo dialogo con l'uomo e nel suo rapporto con lui".
Su tale piano l'essere dell'uomo riacquistava un significato, anche se sotto precise restrizioni: "Dio è libero, come creatore e signore dell'uomo, di lasciare che anche nell'operare umano e nei suoi esiti, malgrado il loro carattere problematico, vi sia sempre un'immagine del suo proprio eterno buon volere ed operare."
Al di sopra dell'uomo c'è sempre e comunque l'infinita potenza di Dio, il quale è il solo libero di fare quello che vuole. La fede, preso atto di questa situazione ineludibile, deve quindi precedere ogni possibile teologia filosofica. E la teologia "può pensare solo guardando a Gesù Cristo e a partire da lui... Essa non ha altra risorsa che la Sacra Scrittura."

Ancora più tardi, nel 1960, Barth pervenne a delineare i termini di un dialogo tra filosofia e teologia, ammettendo una sorta di analogia tra gli spazi delle due discipline, Il punto, dato e non concesso, è che teologo e filosofo scorgono, secondo il proprio punto di vista, "momenti di un'unica, intera verità." Barth sostenne che la verità non si trova unilateralmente né presso il il filosofo e neppure presso il teologo. Nessuno dei due "ha la forza di pensarla e di parlarne, come se la possedesse e fosse quindi ad essa superiore, di ricondurla al progetto di concederle di parlare a favore della sua propria causa e contro quella dell'altro".
Tuttavia, quando Barth venne a tematizzare le differenze tra approccio teologico e approccio filosofico, reiterò in modo nuovo la sua vecchia (ed unica) persuasione, affermando che i problemi della ricerca si presentano "secondo un ordine ed una successione opposti". Il cammino della teologia va dall'alto verso il basso: è cioè parola di Dio rivolta all'uomo, esegesi della parola. Quello della filosofia va dal basso verso l'alto, e cioè interrogare dell'uomo rivolto a non si sa chi.
Rispetto a questa contrapposizione, non c'è, per Barth, dialogo, ma conflitto. La teologia, cioè l'appello di Dio all'uomo ha sempre e comunque un diritto di precedenza; il teologo non può tollerare (è esattamente la parola impiegata da Barth, "tolleranza") qualsiasi tentativo di sorpasso da parte della filosofia.

Primato della fede
In realtà, è la fede che impedisce al teologo di ammettere una teologia filosofica al di fuori della fede.
Cosa è la "fede" per Barth?
E' un incontro con Dio, o meglio, la vita che inizia dopo l'incontro. "Dio mi viene incontro". Si tratta del Dio della rivelazione giudaico-cristiana, del Cristo che ha predicato, ed anche della pienezza trinitaria. Dio, per la fede, non è un essere posto, immaginato, ma un essere reale e vivente. Nel procedere della fede, dopo l'incontro, l'uomo non ha più tentazioni da protagonista e soggetto "autonomo" (cfr. anche l'epistola di Giacomo). Tutto ciò che facciamo è attribuito a Dio ed è solo possibile "grazie a Dio". "Questo incontro (...) non è fondato su una possibilità e su un'iniziativa umana. E' un dono di Dio."
E Dio rimane in quest'ottica un mistero insondabile, nulla che possa essere trovato da un filosofo skeptico. La ragione non lo può afferrare. E nemmeno la può dimostare, quasi fosse un teorema sul trapezio. Del resto, per Barth, nessuna prova è necessaria. Dio dimostra sé stesso in ogni momento, attraverso la parola.
Certamente, da un punto di vista filosofico, questa, che Barth chiama "autodimostrazione di Dio", lascia molto a desiderare essendo una condizione soggettiva, al più intersoggettiva (comunione tra credenti) e non oggettiva (comune a tutti gli uomini e pertanto percepibile, o comunque evidente).
La ragione non-sufficiente di chi non è stato toccato dalla fede non può sperare di trovare alcunché. L'uomo ha piuttosto bisogno di una illuminazione della ragione, la quale è nient'altro che la fede cristiana. Se la filosofia chiede di più; essa deve rassegnarsi a non capire. Il luogo della percezione di Dio è la sua parola, cioè la teologia.
Dio ci è nascosto all'infuori della sua parola. "Il conoscere della fede è superiore a quello della filosofia."
moses - 23 gennaio 2005