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Banfi: ragione contro irrazionalismo
di Daniele Lo Giudice

"Studi filosofici" è la rivista che Banfi cominciò pubblicare a Milano nel 1940. Suo è l'articolo di apertura intitolato Situazione della filosofia contemporanea. Esso preannuncia un programma di ripresa del razionalismo critico e di lotta al dogmatismo. Due sembrano essere le preoccupazioni di Banfi in questo periodo: il forte successo della neoscolastica e il germinare di mode irrazionalistiche alle quali il filosofo di Vimercate associa l'esistenzialismo. La filosofia - dice Banfi - deve avere una "immanente coscienza storica". Non può cullarsi nella pretesa di raggiungere (o peggio, aver raggiunto) verità definitive. Per questo deve puntare ad una sistematica aperta volgendosi a chiarire i problemi emergenti nella società. La filosofia è figlia del suo tempo. «Si sa determinata storicamente, accetta la sua temporaneità, la sua connessione alla problematica radicale del suo tempo, lo pone a se stesso come problema...» Evita il relativismo impegnandosi concretamente a sistemare in modo aperto i dati su cui riflettere. Così, sottolinea Banfi nella conclusione, «essa ridona la coscienza, la certezza, la fiducia nella vita, nelle sue forze costruttive e la illumina in un senso di pacato umano equilibrio. Dal fondo di un romanticismo estremo [cioè dalla varie forme di irrazionalismo] sorge un nuovo aperto illuminismo umanistico; il caos del vivente di fronte all'essenzialità del problema che gli rivela nel suo intimo la ragione si compone, si armonizza, non per un ordine assoluto, ma per un equilibrio elastico e progressivo.» (1)
Non dobbiamo, credo, pensare che Banfi rifiutasse l'irrazionalismo proprio in quanto espressione di esigenze insopprimibili del mondo della vita, alla maniera di un Cassirer all'incontro di Davos con Heidegger nel 1928. Banfi criticava l'irrazionalismo come concezione teorica e il suo rifiuto di portare le stesse istanze ad un'analisi razionale, critica ed aperta. Tale posizione troverà una compiuta formulazione nel saggio Per un razionalismo critico del 1943.
Non rifiutando il confronto con alcuna istanza, il razionalismo critico si può addirittura considerare «una filosofia della vita e in quanto tale abbraccia e risolve in sé tutte le forme d'irrazionalismo che premono alla coscienza speculativa contemporanea, ponendosi come la loro verità. Con ciò esso rinnova il carattere universale e totalitario del pensiero filosofico... » (si noti che "totalitario" non è usato in senso negativo da Banfi, perché significa ben altro dalla nozione che abbiamo attualmente). Tale approccio «abbraccia tutti i campi dell'esperienza vissuta e interpreta la loro complessa problematicità, non tuttavia nella forma di un sistema definito, ma di una sistematca aperta, le cui coordinate traccino la possibilità di un infinito sviluppo di ricerche, arrichentesi con l'arrichirsi della vita e dell'esperienza stessa.» La filosofia così concepita «è sapienza socratica, un inquietar l'anima nella coscienza dei propri problemi, come problemi dell'umanità perché essa tragga da questa coincidenza, nell'urto della realtà, l'energia e il volere. Il filosofo non vuole sostituirsi né al moralista né al profeta: la sua verità è tale che non lo trasporta nell'empireo, ma lo pone, come uomo, in questa "aiuola che ci fa tanto feroci".»
Banfi non esita a definire "metafisico" un simile atteggiamento socratico. E, proprio in quanto socratico, la metafisicità non è mai data come sapere obiettivo, ma come infinita ricerca che è il pathos stesso della vita filosofica.

L'elaborazione banfiana non si sviluppa in una sorta di vuoto, ma in un momento di risveglio della filosofia laica italiana che vede venire in scena personalità come quelle di Nicola Abbagnano, Enzo Paci, Galvano Della Volpe, Cesare Luporini, Ludovico Geymonat e Norberto Bobbio. Il dibattito si sviluppa in particolare sul tema dell'esistenzialismo, stimolato dagli scritti di Abbagnano e, in parte deviato dal fatto che tale corrente filosofica fosse arrivata in Italia prima, e non dopo, la fenomenologia, come avvenne al contrario negli altri paesi europei. Infatti, sottolinea Valerio Verra, «il momento di maggior fioritura e incidenza teorica della fenomenologia si è avuto negli anni Sessanta, quando ormai l'influenza dell'esistenzialismo o, quanto meno, la portata del dibattito esistenzialistico andava scemando.» (2) E, per quanto riguarda direttamente la nostra indagine, dopo la morte di Banfi. La discussione fu inaugurata da Abbagnano sulla rivista "Primato" all'inzio del 1943 in un articolo dove esponeva in modo chiaro e scorrevole i concetti fondamentali del suo "esistenzialismo positivo". Enzo Paci, dal canto suo, affermava che il riferimento dell'esistenzialismo non era più l'attualismo gentiliano, ma il pensiero di Nietzsche, Heidegger e Jaspers. Per Paci era particolarmente importante raccogliere l'appello "nicciano" a non restare all'uomo per indicare all'umanità qualcosa che "era al di là di essa". «Ciò che è umano non può darci il senso della vita: è solo tramontando che l'uomo realizza sé stesso.» Al dibattito si aggiunsero anche gli spiritualisti Guzzo e Carlini, Luporini, Dalla Volpe, lo stesso Gentile. Quest'ultimo sostenne che la finitudine di cui parlano gli esistenzialisti è un fatto empirico. In quanto tale può essere assorbito nella dialettica dell'atto del pensiero, che tutto può comprendere. Banfi attaccò esplicitamente l'esistenzialismo tedesco, in particolare Heidegger e Jaspers, liquidandolo come una degenerazione del pensiero di Kierkegaard e Nietzsche. L'esistenzialismo originario, per Banfi, portato a consapevolezza filosofica l'irriducibilità dell'esperienza personale ad una ideale e sistematica armonia della vita. Al contrario, gli esistenzialisti tedeschi del Novecento hanno ridotto paradossalmente quella stessa irriducibilità, facendone un modo astratto e metafisico: «Certo, vedere ed accettare sino in fondo la crisi del nostro tempo è necessario, ma diluire tale coscienza in un'astrazione metafisica è togliere ad essa ogni energia e capacità di creazione positiva.» Pertanto: «L'esistenzialismo è così filosofia della crisi, ma della crisi come astratta immota negatività, che lascia fuor di sé la sua vita, perchè questa è già costruzione; l'esistenzialismo è l'estrema forma del romanticismo, in cui questo ha perduto ogni vigoria spontanea definendosi sul piano di un astratto intellettualismo.» Al di là di tale giudizio, Banfi vede tuttavia un elemento di validità nelle filosofie dell'esistenza. Esso consiste nella presentazione dell'aporeticità del pensiero filosofico, e quindi nello stimolo alla ragione perché essa rimanga sempre aperta e non si chiuda in un sistema. Tuttavia, proprio perché gli esistenzialisti han costruito una "metafisica dell'esperienza", essi hanno anche oscurato la parte di validità che spetta all'esistenzialismo stesso.
Rispetto alle posizioni di Nicola Abbagnano, Banfi si dimostrava ovviamente felice della presa di distanza dalle punte più irrazionali dell'esistenzialismo tedesco, ed apprezzava la positività dell'esistenzialismo di Abbagnano, ma non mancava di chiedere, con una punta di ironia, se quello di Abbagnano fosse ancora "esistenzialismo" e non qualcos'altro.
Come vedremo nel prossimo file, Banfi si irrigidirà successivamente in una posizione filosofica piuttosto severa e, per taluni aspetti, dogmatica.


(1) L'intero articolo è riportato in A. Banfi - Filosofi contemporanei - Parenti 1961
(2) V. Verra - Esistenzialismo, fenomenologia, ermeneutica, nichilismo - in (a cura di) Eugenio Garin - La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi - Laterza 1985