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La pedagogia di Aristotele
Le basi della conoscenza e gli strumenti del conoscere
Occorre subito chiarire un punto: non si può elaborare un qualsivoglia metodo pedagogico senza prima aver svolto una serie di osservazioni sui modi nei quali un individuo "conosce" le cose che lo circondano, sè stesso, gli altri, il mondo in generale.
Il fine della pedagogia è quello di evidenziare i processi di acquisizione delle conoscenze ed orientarli in un certo modo, secondo certi percorsi.
La scuola come istituzione, come orario, come luogo nel quale tutto questo si organizza e si attua è solo "uno" di questi percorsi. Certamente, nel tempo, viene ad essere il più importante. Tuttavia noi impariamo, cominciamo ad imparare ben prima di andare a scuola e, se ben guardiamo al nostro passato, sappiamo che quello che abbiamo imparato "prima" condiziona inevitabilmente anche il "dopo", e dunque il nostro approccio alla vita scolastica.
Non impariamo solo concetti: impariamo ad agire, impariamo abitudini, impariamo a raggiungere i nostri scopi. Tutto questo è causa di sviluppo, ed è anche conseguenza di uno sviluppo.
In Aristotele questo tipo di osservazioni è come al solito sparso e disperso in più scritti. In genere gli studiosi dello stagirita devono saltare da un brano all'altro per ricucire un discorso unitario su argomenti omogenei. Questo non perchè Aristotele aveva dell'omogeneità un'idea diversa dalla nostra, ma perchè i suoi studi erano indirizzati a costruire una omogeneità su altri argomenti.
Evidentemente ciò che molto a noi pare omogeneo era allora disomogeneo e viceversa.
Il nostro bisogno di ricavare una "pedagogia" da Aristotele si lega strettamente sia ad una necessità di tipo schiettamente storiografico: vedere da dove vengono realmente alcune impostazioni.
Dall'altra investe direttamente la sostanza della "pedagogia", in quanto non ci riteniamo del tutto soddisfatti di quella attuale.
Ma questo bisogno per Aristotele non esisteva perchè la sua pedagogia era il suo metodo di tenere "lezioni" al Liceo e di organizzare le "lezioni" dei suoi collaboratori.Tuttavia, su alcuni aspetti particolari, riteniamo corretto questo tipo di operazione ricostruttiva.
Bisogna solo evitare di esagerare.
Non diversamente, del resto, abbiamo dovuto procedere per quanto attiene il tema della formazione etica e civile dell'individuo. Non diversamente dovremo avanzare per evidenziare come si viene a formare una conoscenza del mondo e della realtà e quindi quali principi, quali strumenti, quali metodologie sono conseguentemente applicabili per insegnare e per imparare.Alla base di una qualsivoglia pedagogia vi è dunque una psicologia, cioè una conoscenza della percezione umana, dell'esperienza della percezione, di come questa si traduca in pensiero, di come si organizzi nella memoria il pensiero stesso in modo più o meno ordinato.
Nella tradizione preesistente ad Aristotele i pensatori avevano già affrontate tematiche psicologiche.
Il medico Alcmeone (VI sec aC) aveva individuato nella percezione sensoriale (nous o phren) la facoltà di cogliere la vera realtà. Anassagora aveva ulteriormente sviluppato la riflessione sul nous ed è da Anassogora che Aristotele prese le mosse per un'indagine sui processi mentali.
Dal canto loro sia Empedocle che Gorgia avevano trattato di psicologia parlando di pàthe, stati d'animo, su cui operare efficacemente per fare discorsi atti a persuadere e convincere.Aristotele riprende da capo questi saperi piuttosto disparati e "lontani", li ricuce ed, in certo senso, li ri-orienta. In pratica fece quel che facciamo ora noi con lo stesso Aristotele. (Chi la fa, l'aspetti!)
Tuttavia prima di ogni cosa egli dovette "fare i conti" con Platone e la sua ontologia dualistica.
La descrizione platonica del processo conoscitivo era, per Aristotele, gravemente errata.
Platone aveva istituito una radicale contrapposizione tra sensi ed intelletto dicendo che i sensi colgono solo gli oggetti fisici, instabili, in continuo mutamento, mentre l'intelletto può cogliere un superiore grado di realtà, cioè quello delle essenze ideali ed eterne, le sole realmente conoscibili e le sole veramente degne di conoscenza.
Aristotele nega non che ciò sia in qualche modo vero (in effetti non è del tutto falso), ma nega la liceità (ehm) di questa suddivisione così brusca ed altresì rovescia l'impostazione tra prodotto e produttore.
Innanzi tutto l'intelletto afferra ciò che i sensi colgono; pertanto anche i sensi servono a cogliere le idee, siano che esse vengano scritte, sia che esse vengano dette.
Tra sensi ed intelletto c'è dunque continuità ed interazione.
Poi c'è da considerare che nel sensibile il mutamento, che è innegabile, non cancella comunque mai la forma delle cose, le quali anche nel mutamento hanno una loro stabile riconoscibilità, o anche una loro riconoscibile stabilità; il mondo delle idee è comunque una produzione continua del pensare umano. Non è l'idea che fa la conoscenza ma il pensiero umano produttivo a fare la conoscenza ed a distribuirla, organizzarla eccetera.
Questa impostazione implica anche una impostazione pedagogica radicalmente nuova. Infatti se le idee sono un prodotto del lavoro umano più evoluto, cioè il pensiero, è evidente che bisogna in primo luogo cercare il principio del pensiero produttivo, cioè la realtà stessa, o meglio: il rapporto tra noi e la realtà, giacchè è questo rapporto che consente il pensiero, anzi lo richiede.
Se vogliamo, potremmo quindi dedurne qualcosa che Aristotele non ha mai affermato esplicitamente, ma deve indubbiamente aver pensato, e cioè che è alla fin fine è decisivo conoscere la realtà direttamente anzichè attraverso la mediazione delle idee.
Il che costituisce l'esatto contrario di quanto affermato da Platone, che riteneva che l'instabilità del reale costituisse una sorta di illusione e fosse fonte di confusione, e quindi di occultamento della verità.Ciò, ovviamente non deve voler significare l'inutilità di studiare le idee e le conoscenze degli altri.
Tuttaltro.
La questione è ben posta in un passo dei Secondi analitici che riportiamo integralmente.<< Ogni dottrina ed ogni apprendimento, che siano fondati sul pensiero discorsivo, si sviluppano da una conoscenza preesistente. Ciò risulta chiaro, quando si considerino tutte le dottrine e le discipline: in realtà, alle scienze matematiche ci si accosta in questo modo, e lo stesso avviene riguardo a ciascuna delle altre arti.>>Ciò significa che noi conosciamo non solo la realtà percepita direttamente, ma anche quella raccontata o descritta dagli altri. Ed i in particolare percepiamo anche entità astratte quali appunto i numeri, le operazioni matematiche fatte sulla carta o mentalmente, senza l'ausilio del pallottoliere.
E' altresì evidente che la conoscenza preesistente accellera in modo vertiginoso le possibilità di crescita intellettuale di qualsiasi individuo.Anche questo passo è da considerare punto per punto in quanto indica in quale sfera si manifesta più immediatamente la percezione della conoscenza preesistente.
<<Similmente si dica, poi, rispetto alle argomentazioni dialettiche, sia a quelle che si costituiscono mediante sillogismi, sia a quelle che procedono attraverso induzione.
In entrambi i casi, difatti, l'insegnamento viene costruito mediante elementi già conosciuti in precedenza: il primo tipo di argomentazioni assume delle premesse, con il presupposto che l'interlocutore comprenda quanto concede, mentre il secondo tipo fornisce la prova dell'universale attraverso il manifestarsi del caso singolo. E' proprio allo stesso modo, inoltre, che le argomentazioni retoriche riescono a convincere: in effetti esse si sviluppano
o attraverso esempi - e ciò costituisce un'induzione - oppure attraverso deduzioni miranti a persuadere, il che equivale appunto al sillogismo. D'altro canto la necessità di una conoscenza anteriore si presenta secondo due aspetti. In realtà, a proposito di alcuni oggetti, è necessario presupporre che siano, riguardo ad altri, bisogna comprendere quale sia il significato dell'espressione che li indica, e rispetto ad altri ancora, occorrono entrambe le cose.>>
(Secondi Analitici, I, 1.71a...)
E' da notare la distinzione tra oggetti in quanto evidenzia che alcuni sono "significati", quindi non immediatamente presenti, ma necessitano di un segno, cioè di un significante che li indichi.Stabilito che ogni forma di apprendimento, anche la più elementare (pensiamo al significato di una parola, o anche al raddoppio del significante, se abbiamo avuto la fortuna di crescere in un ambiente familiare bilingue) richiede il possesso di qualche conoscenza precedente, Aristotele sostiene che la conoscenza non deriva da principi a priori, o da un inconscio patrimonio di nozioni presente fin dalla nascita, o anche da prima, ma solo dalla percezione.
Ancora un passo dei Secondi Analitici è esemplificativo:
<<Dalla sensazione si sviluppa dunque ciò che chiamiamo ricordo, e dal ricordo spesso rinnovato di un medesimo oggetto si sviluppa poi l'esperienza. In seguito, sulla base dell'esperienza, ossia dell'intero oggetto universale che si è acquietato nell'anima, dell'unità e della molteplicità, il quale oggetto è contenuto come come uno e identico in tutti gli oggetti molteplici, si presenta il principio dell'arte e della scienza: dell'arte, riguardo al divenire, e della scienza, riguardo a ciò che è. Le suddette facoltà non ci sono dunque immanenti nella loro determinatezza, nè provengono in noi da altre facoltà più produttive di conoscenza, ma vengono suscitate piuttosto dalla sensazione.>>Una trattazione più estesa della psicologia aristotelica è contenuta nello scritto "Sull'anima".
(Analitici Secondi, II, ...)
Con psychè si designa "anima" in un senso che è privo di connotati religiosi. Psychè è vita, principio vitale ed, in unione al corpo, è ousìa, sostanza, essenza, unione di materia e forma.
Aristotele riconosce una psychè anche alle piante e parla di psychè vegetativa.
Ovunque vi sia psychè qualcosa nasce, si corrompe e muore. Ed è quanto accade anche alle piante.
La differenza tra piante ed animali è data dalla sensazione e dal movimento.
Per sensazione (àisthesis) Aristotele intende processi psicologici e nervosi comuni a tutti i corpi capaci di movimento autonomo e di percepire attraverso organi di senso.
La sensazione non è sempre in atto, perchè gli organi di senso devono essere attivati da oggetti esterni sensibili. Il processo di sensazione è dunque un passaggio continuo dall'essere in potenza all'essere in atto.
Aristotele distingue due generi di oggetti di senso: accanto ai sensibili propri a ciascun senso (colore per la vista,, suono per l'udito ecc...) esistono proprietà come la forma, la grandezza, il numero, il movimento che non sono percepiti esclusivamente da un organo particolare, ma da più sensi congiuntamente, come ad esempio la forma ed il movimento possono essere colti sia dalla vista che dal tatto, o anche, per via del rumore, dall'udito.
Ciò lo porta a credere che vi sia "un senso comune", o come diremmo noi, un luogo in cui vengono coordinate tutte le percezioni che riceviamo.
Nella misura in cui le impressioni che provengono dai sensi si imprimono nella psychè, esse rispecchiano la realtà e sono dunque vere.
Esiste quindi, almeno in questa prima fase del processo cognitivo, la possibilità di una percezione veritiera dell'oggetto che non lascia dubbi e non può essere questionabile "filosoficamente".Una maggiore possibilità di errore si da quando le percezioni simultanee di diverse cose sono afferrate dal "senso comune", cioè da più sensi simultaneamente e quindi coordinate ed, in qualche misura, resi intellegibili.
Questo particolare aspetto del problema è trattato nei Piccoli trattati di storia naturale, una raccolta di diversi testi.
Tra questi è di particolare interesse quello intitolato "Della memoria e della reminiscenza" in quanto
è evidente che il "sapere" è memoria ed il vero sapere è una memoria organizzata.
Se vogliamo imparare qualcosa dobbiamo "ficcarcelo in testa" e se vogliamo insegnare qualcosa dobbiamo "impressionare" la memoria altrui con i mezzi più adatti.
In questo trattato Aristotele distingue tuttavia tra memoria e "reminiscenza" in quanto la memoria è il collegamento meccanico esistente in noi tra immagine ed oggetto, mentre la "reminiscenza" viene presentata come un atto volontario che richiama un'immagine dalla memoria.
Nella pedagogia aristotelica la facoltà immaginativa ha dunque un'importanza centrale.
Infatti, producendo rappresentazioni interiori, che possono essere vere o false in quanto non più in diretto contatto con l'oggetto, segna un primo distacco dall'esperienza immediata e diretta e promuove l'attività intellettiva.
L'intelletto non può pensare senza questa ricostruzione interiore dell'oggetto, cioè senza immaginare.
Solo da questo immaginare possiamo ricavare per astrazione le forme intelligibili dell'oggetto considerato.
Gran parte del terzo libro del De Anima è occupato da questo esame del rapporto tra Nous (intelletto)
e anima che riflette e concepisce.
Poichè l'atto di intellezione abbia luogo è necessario che un intellegibile imprima la sua forma su un recipiente passivo, la psychè è dunque questo recipiente docile, che dovrebbe farsi esaminare.E' molto interessante notare questa "dialettica" interiore tra soggetto percipiente che richiede presenza di immagini ( e parole evocatrici di immagini) e il percepito presente come rammemorazione, perchè svela in modo molto chiaro come pensiamo. Noi vorremmo pensare, ma non sempre siamo in grado di farlo, perchè la memoria ci può tradire, non obbedisce in toto alla nostra volontà. Può dipendere anche da un non sufficiente esercizio, quella ginnastica mentale che sola può garantire il corretto (migliore) funzionamento del cervello. Ma può dipendere anche da altri fattori come lo stress, cioè un esercizio esagerato. In questo senso quelli che i "sessantottini" chiamavano esagerati carichi di studio nei loro documenti di contestazione al sistema scolastico nozionistico era in fondo una presa di posizione aristotelica, fondata sulla dottrina del "giusto mezzo".
Per chi volesse approfondire le tematiche strettamente psicologiche, alcune delle quali tremendamente impegnative in quanto la differenza tra intelletto attivo che coglie le impressioni ed intelletto passivo che le raccoglie e le ospita come fosse una tavoletta di cera (la tabula rasa), solleva numerose perplessità e richiede accurate spiegazioni, rinviamo ad un file in preparazione sulla pagina "filosofia" di questo sito.
Ai fini di questa specifica esposizione è solo necessario ancora quanto segue.Come si forma il pensiero
Il culmine delle funzioni cognitive è dunque il nous, l'intelletto definito come la 'parte' o facoltà della psychè preposta al pensiero.
La produzione del pensiero è dovuta in primo luogo alla passività dei sensi che subiscono l'influsso dell'oggetto percepito, ne subiscono l'influsso, ne accolgono la forma e le proprietà.
Tale passività non comporta un'alterazione dell'oggetto percepito. Esso è com'è e, come tale diventa anche oggetto dell'intelletto.
Analogamente l'intelletto è passivo rispetto all'intellegibilità (potremmo parlare di 'afferrabilità')
dell'oggetto percepito anche intellettualmente.
Ma tra senso ed intelletto vi sono importanti differenze. L'intelletto non è 'mescolato' con gli oggetti che deve conoscere, ma secondo Aristotele non è nemmeno 'mescolato' con il resto del corpo conoscente. Se così non fosse avrebbe per sostrato un organo, come avviene per tutti i sensi.
Per Aristotele l'intelletto è dunque immateriale, ed è, ulteriore difficoltà da comprendere, anche agente.
Non solo, è questa istanza ultima, l'attivo coglitore, che probabilmente possiede, come fosse un io persino estraneo alla propria mente ed al proprio corpo, l'immortalità immateriale.
Come a dire che con la morte non si salva l'anima, ma ciò che dell'anima coglie attivamente tutte le affezioni, i ricordi ed i pensieri, i quali invece svaniscono con la morte. Quando l'anima cessa di produrre e la vita abbandona il corpo, solo l'intelletto agente rimane come ultimo ed irriducibile nucleo psichico.
Ma esso manca di memoria, esattamente come un pc privo di una "cartella documenti", od un programma di posta privo di e mail ricevute o inviate.
Come pura attualità egli è solo presente all'eterno presente.
Si tratta, come si vede, di una concezione realmente metafisica che tuttavia ha poco a che vedere con le grossolane sciocchezze sulla salvezza e la trasmigrazione dell'anima della vulgata spiritualistica.Un'altra importante differenza tra l'intelletto ed i sensi è per Aristotele nel fatto che i sensi possano essere danneggiati da un uso eccessivo.
L'intelletto, al contrario, è impassibile, proprio in quanto separato. E quindi, se stanco di un particolare, può rivolgersi altrove. Il relax, come l'intendiamo noi, non è una rinuncia ad usare il cervello, ma un dedicare l'attenzione a qualcosaltro, ad esempio un gioco, o un'attività fisica, oppure al sonno.
Infine è propria dell'intelletto la riflessione e persino l'autoriflessione, coincidente con l'apprendimento degli intellegibili, in pratica l'essenza smaterializzata delle cose.
L'intelletto può inoltre conoscere per astrazione oggetti quali la retta, o il triangolo, non immediatamente presenti.
E su ogni oggetto considerato può dunque formulare le sue valutazioni.Il linguaggio pedagogico
Per trovare infine un riferimento al problema della comunicazione pedagogica, cioè al tipo di linguaggio
specifico atto ad insegnare, dobbiamo fare un salto al secondo libro della Metafisica.
Qui conviene esaminare quanto scrisse lo stesso Aristotele:
<< L'efficacia di una lezione è strettamente legata alle abitudini dell'ascoltatore, giacchè noi stimiamo che si debba usare un linguaggio conforme a quello con cui siamo soliti esprimerci, e le cose dette in un modo diverso da questo, non sembrano più le stesse, ma piuttosto incomprensibili e straniere per il fatto che non ci sono familiari: infatti è noto solo ciò con cui abbiamo dimestichezza. E quanta sia la forza della consuetudine è provato dalle leggi, nelle quali le espressioni che più hanno di leggendario e di fanciullesco, proprio in virtù del fatto che sono quelle più comunemente in uso, hanno un peso maggiore che non la conoscenza stessa delle leggi. Non mancano, indubbiamente, alcuni che gradiscono solo le espressioni usate dal linguaggio matematico, ma vi sono altri che gradiscono le esemplificazioni, e altri ancora che pretendono si faccia ricorso a testimoninanze poetiche.Nelle Confutazioni sofistiche ancora Aristotele scrisse.
Alcuni vogliono che tutto sia detto con precisione, ad altri la precisone da fastidio, sia perchè non sono in grado di annodare le fila di un ragionamento sia perchè questo è troppo stringato; difatti l'esattezza ha certe caratteristiche che ad alcuni la fanno sembrare illiberale non solo nei rapporti di affari, ma anche nelle discussioni filosofiche.
Ecco perchè si ha il dovere di darsi una perfetta educazione per trattare ciascun argomento particolare in modo adeguato, giacchè sarebbe assurdo pretendere che si ricerchino contemporaneamente la scienza ed il modo per conseguirla: anzi non è agevole apprendere neppure una sola di queste due cose. Nè, d'altra parte, si deve pretendere l'uso di un esatto linguaggio matematico indistintamente in ogni settore di ricerca, ma soltanto nel caso si studino enti immateriali.>>
(Metafisica, II, 3.994b 34-995a 17)<< L'insegnamento si differenzia dalla discussione, e [...] nel primo caso a chi insegna tocca non già di interrogare, bensì di chiarire spontaneamente l'oggetto, mentre nel secondo caso chi conduce la discussione deve semplicemente interrogare.>>Da ciò ci sembra possibile dedurre che un buon insegnante, per Aristotele, non pretende che i suoi allievi si adeguino a lui, ma pretende sempre, da sè stesso, una naturale capacità di adeguarsi ai suoi allievi ed al loro livello, utilizzando il linguaggio più appropriato.
(Confutazioni sofistiche, 10-11.171a)
Ciò presuppone una conoscenza dell'ambiente preliminare.
sommario
La pedagogia di Aristotele: il fine dell'educazione
Etica ed educazione: un po' di storia