torna a filosofia antica torna a indice la pedagogia di Aristotele


La pedagogia di Aristotele

etica ed educazione.


Un po' di storia
Per comprendere il senso e la portata della pedagogia e della specifica filosofia di Aristotele occorre inquadrare brevemente il contesto storico-ambientale.
Nell'Atene del IV secolo, in seguito all'avvento della democrazia, l'educazione era ormai accessibile a molti; ma la funzione dello stato in materia educativa non era ancora chiaramente definita.
Fanno testo in questo senso, oltre che i libri di storia, anche gli stessi testi filosofici, la Repubblica di Platone in particolare.
In generale l'iniziativa di singoli educatori, di sapienti e sofisti, cioè esperti di retorica e discorsi politici e giuridici colmava un vuoto (quello dell'istruzione superiore) e presentava indubbiamente anche qualche vantaggio in quanto i singoli potevano scegliersi un maestro anzichè sorbirsi quello designato da un ministero o da un provvidetorato agli studi in base a titoli ed esami (sic).
L'insegnamento dei sofisti, con i suoi caratteri di individualismo esasperato e spregiudicato utilitarismo, costituì una vera e propria rivoluzione nei costumi e nella cultura ateniese.
Intorno alla metà del IV secolo l'Accademia fondata da Platone, ma per certi aspetti anticipata da Socrate, venne a svolgere un ruolo di primo piano nella libera concorrenza tra le varie scuole sofistiche sia in quanto a programmi e contenuti educativi, sia in quanto a fini espliciti dello studio e quindi della formazione del cittadino.
Con Socrate e con Platone il fine dell'educazione tornò ad essere con grande forza (anche dogmatica) quello di formare cittadini virtuosi ed orientati a costruire il bene della comunità e non quello dei singoli.
Quando Aristotele, solo diciassettenne, giunse ad Atene per frequentare l'Accademia, proveniente dal nord est della Grecia, la mitica Stagira (forse poco più di una provincialissima e chiusa cittadina di provincia) si trovò dunque inserito non solo in una scuola, ma in un progetto politico-culturale oltre che filosofico.
L'Accademia, inoltre, si trovava ad essere in una sorta di concorrenza con un'altra scuola, quella di Isocrate, che mirava alla formazione dei futuri cittadini muovendo da basi più utilitaristiche, dunque in più diretta continuità con la tradizione sofistica.
La posizione di Aristotele nell'Accademia, dopo i primi anni da studente, ci è per lo più ignota.
Possiamo supporre che poco alla volta venne a guadagnarsi la fiducia e la stima di Platone e del matematico Eudosso, e probabilmente, l'invidia e l'inimicizia di altri suoi coetanei.
Possiamo pertanto dedurre che egli venne pian piano a ricoprire anche un ruolo di insegnante e maestro, gli furono affidati alcuni corsi, sicuramente quello di retorica (in quanto abile oratore) e, probabilmente venne anche incoraggiato a scrivere trattati e testi (quali il trattato Sulle idee, Sul bene, Eudemo, Sulla filosofia, Eudemo ed Esortazione a Temisone, ovvero Il Protreptico).
Dispiace che non ne sia rimasto nemmeno uno tutto intero, perchè, in fondo, sono questi i testi essoterici, cioè quelli che lo stesso Aristotele aveva destinato alla pubblicazione.
Alla morte di Platone, nel 347 a.C., passò alla guida dell'Accademia il matematico Speusippo, che interpretava le dottrine platoniche in modo piuttosto ristretto e dogmatico.
Ciò era incompatibile con le convinzioni che Aristotele era venuto maturando, specie sull'origine delle idee e sul rapporto pensiero-realtà.
Probabilmente fu per queste restrizioni di orizzonte che il giovane si allontanò da Atene ed emigrò ad Asso, nell'Asia Minore, dove sposò la figlia del tiranno Ermia.
Qui lo stesso Ermia aveva fondato un centro culturale-filosofico ed Aristotele fu incaricato di seguirlo.
Questo gli consentì di proseguire gli studi ed è sicuramente in questa fase che prese ad interessarsi ancor più attivamente di fisica, cioè di scienze della natura.
In particolare egli studiò la fauna e la flora della zona e i trattati Sulla storia degli animali e Le parti degli animali risalgono probabilmente a questo periodo (per lo meno come bozze).
Nuovi rovesci politici - l'attacco della Persia contro Asso, sospettata di simpatia per la Macedonia - costrinsero Aristotele a raggiungere l'isola di Lesbo nel 344.
Qui conobbe Teofrasto ed insieme a lui proseguì gli studi sulla natura e la biologia.
La convocazione di Aristotele alla corte di Filippo per diventare precettore di Alessandro (futuro magno) non si sa bene come avvenne, se per guadagnata fama, o per raccomandazioni di amici.
Certo è che Aristotele si trovò indubbiamente alle prese con un ragazzo difficile ed ambizioso, probabilmente afflitto da qualche mania, specie quella di grandezza, e quindi trovò gravi difficoltà a mettere in pratica le sue ancor precarie convinzioni in materia di educazione (del resto totalmente teoriche ed ...accademiche).
Dalle successive vicende sappiamo che Aristotele fu sempre filomacedone (e per questo dovette abbandonare Atene alla morte di Alessandro) ma altrettanto dissenziente dalle scelte politiche militari del giovane Alessandro.
E' semplicemente una sciocchezza credere che il disegno di ellenizzazione del mondo antico conquistato da Alessandro sia stato in qualche modo ispirato da Aristotele, anche perchè, secondo fonti storiche più che attendibili, il progetto di Alessandro non era quello di ellenizzare l'oriente, bensì quello di orientalizzare la Grecia e la Macedonia, procedendo, ad esempio, a divinizzare la figura del sovrano assoluto.
Crediamo sia ovvio che rispetto a tutto ciò Aristotele fosse oltremodo dissenziente.
Tanto più che proprio per motivi di mancato rispetto per il divino sovrano, il giovane nipote di Aristotele fu fatto uccidere da Alessandro durante una campagna militare in Persia.
In realtà la visione politica di Aristotele non inclinò mai verso la realizzazione di un cosmopolitismo e nemmeno per forme di governo teocratiche ed assolutistiche.
Ciò sarebbe stato in contraddizione palese con la sua convinzione che ogni uomo, o quantomeno, ogni Greco, cerca per natura sia la verità che l'autorealizzazione e la responsabilizzazione.
Sembra pertanto giusto osservare che egli preferì sempre un modello federalista di polis autosufficienti, governate non secondo principi unici ed uguali per tutte, ma secondo la forma di governo più appropriata alla situazione locale.
Questo stesso atteggiamento realistico e non dogmatico è per molti versi la chiave per intendere il pensiero di Aristotele più in generale.
Il ritorno di Aristotele ad Atene e la fondazione del Liceo fu reso possibile dall'appoggio della corte macedone e dal particolare rapporto di amicizia con Antipatro, nominato vicerè della Grecia.
Questo stesso appoggio gli costò poi caro in quanto, alla morte di Alessandro, Aristotele fu costretto ad abbandonare Atene per evitare una vendetta politica dei nazionalisti ateniesi e del partito antimacedone.

Il Liceo
La nuova scuola, che come le altre scuole filosofiche ateniesi era probabilmente considerata come un'associazione religiosa per il culto delle Muse (le divinità protrettrici delle arti), si differenziava dall'Accademia per l'impostazione culturale che prevedeva l'insegnamento di un numero assai maggiore di discipline, comprendendo sicuramente zoologia, biologia, botanica e forsanche la medicina. (Non dimentichiamo che Aristotele era figlio del medico Nicomaco)
Più che una comunità di ricerca modellata su un ideale di vita il Liceo si configurava come un centro studi, una specie di moderna università, nel quale docenti esperti di ogni singola disciplina tenevano corsi ed incoraggiavano ricerche individuali o di gruppo.
Molti studiosi tendono a valorizzare questo aspetto dell'organizzazione per materie sottolineandone la modernità.
Ma spesso sfugge ai più il concetto di unitarietà degli studi ed il fatto che il fine stesso dello studio nel Liceo non era quello di formare degli specialisti, ma di sviluppare l'uomo universale in quanto tale e quindi di offrire una cultura estesa e polivalente.
Essere specialisti di qualcosa era una virtù, per così dire, aggiunta. Ma alla base vi doveva essere una conoscenza completa di tutte il sapere umanamente possibile, nei limiti del possibile.
Era questo il tratto distintivo del Liceo con quel non so che che lo differenziava in modo inequivocabile sia dal modello dell'Accademia che da quello della scuola di Isocrate.
Come poi si vede dal passo seguente, Aristotele promosse anche una sorta di scuola serale aperta a tutti per promuovere un'attività culturale ed informativa rivolta anche ai giovani delle classi inferiori ed agli adulti.

La testimonianza di Aulo Gellio: le lezioni di Aristotele
Si dice che il filosofo Aristotele, maestro del re Alessandro, tenesse due tipi di lezioni e conferenze ai suoi discepoli. Le une erano quelle che chiamava exoterikà, le altre quelle che chiamava akroatikà.
Exoterikà erano dette quelle che servivano ad istruire negli esercizi retorici, nelle sottigliezze logiche, e nella conoscenza degli affari politici.
Erano dette akroatikà quelle in cui era discussa una filosofia più recondita e sottile, e quando si riferiva alla contemplazione della natura e alle discussioni dialettiche.
All'insegnamento acroatico cui ho accennato egli dedicava le ore del mattino nel Liceo, e ad esso non ammetteva nessuno senza prima aver indagato le sue capacità, le sue conoscenze elementari e il suo amore per lo zelo e per lo studio.
Le lezioni essoteriche e gli esercizi di oratoria li teneva invece nello stesso luogo di sera, e vi ammetteva una moltitudine di giovani senza distinzione.
Chiamava questo deilinòn perìpaton, passeggiata serale, l'altro, di cui ho parlato sopra, eothinòn, passeggiata mattutina; infatti in entrambi i casi faceva lezione camminando.
Divise anche i suoi libri e gli appunti su tutti questi argomenti in due sezioni, chiamando gli uni essoterici, gli altri acroatici.
(Aulo Gellio, Notti Attiche, XX, 5)

Formare un buon cittadino significa metterlo in grado di deliberare
Il secondo punto su cui occorre prestare attenzione è quello relativo alla formazione del buon cittadino.
Anche Aristotele conviene con Socrate e con Platone sulla necessità di una educazione al bene ed alla correttezza dei comportamenti civili in quanto condizione di una convivenza pacifica nella polis.
Tuttavia per Aristotele questa formazione non doveva avvenire su basi costrittive, ma argomentative.
Ognuno doveva essere in grado di deliberare e quindi scegliere.
La scelta andava fatta in vista del fine ed il fine era l'ottimo, l'eccellenza, cioè il conseguimento di un grado più alto di felicità.
Lo scopo della vita, per Aristotele, è dunque la felicità.
Ed un buon comportamento, oltre ad evitare un sacco di guai e di vite spericolate dove non dormi mai, conduce alla vera felicità, a deliberare con calma, a scegliere con giudizio.
Per argomentare in questa direzione Aristotele trae esempio dalla natura. In natura ogni ente tende al proprio completo sviluppo ed anche per l'uomo esiste dunque questo nomo (questa legge).
Tuttavia per l'uomo si pone la possibilità di un salto qualitativo: la realizzazione dell'eudamonia, cioè la felicità, non ha solo un fine riproduttivo, accoppiarsi e fare figli, cioè proseguire la vita, bensì anche un fine superiore, cioè l'acquisizione di un vero sapere del perchè delle cose, del perchè sia così, necessariamente.
Allo scopo di determinare più precisamente lo scopo di una vita umana razionale e consapevole, Aristotele individua due generi di vita: quella che si esplica nella vita di relazione coi propri simili, e trova la sua forma più alta nell'attività politica, e quella del bìos theoretikòs, la vita teoretica, che è comunque una forma di attività, non mera contemplazione (come banalmente si dice) ma ricerca, indagine, riflessione: in una parola una vita da studioso.
Esistono di conseguenza due tipi di virtù (nel senso di qualità virili): quelle etiche, ovvero la capacità di agire correttamente nell'ambito della vita associativa, e quelle dianoetiche (razionali) da considerarsi come strumenti dell'attività dello studioso.
Questa seconda virtù è la realizzazione delle potenzialità dell'intelletto ed è ciò, anzi, solo ciò, che rende l'uomo simile al divino.
La definizione è piuttosto perentoria, tuttavia non è solo un modo di dire se per divino si intende ovviamente qualcosa che non è da tutti, anche se è possibile a tutti.
L'importante è non considerare questa definizione come enfatica o come autoglorificante.
Questa distinzione tra etico e dianoetico (che non possiamo concepire tuttavia come una suddivisione, dato che è implicito che l'uomo, anche il più studioso, viva entrambi i livelli con identica partecipazione, in quanto anche la relazione sociale è conoscenza) comporta un'analoga distinzione anche metodica tra due forme di educazione.
La prima, ovvero la conoscenza speculativa, è universale e necessaria, è una forma di sapere superiore, anche se non scienza, ed è comunicabile mediante un insegnamento discorsivo.
La seconda, ovvero l'etica, è rivolta in sostanza all'arte di stare al mondo in mezzo a variabili umane piuttosto scostanti ed imprevedibili. Dunque non può avere carattere di scienza, ma solo di informazione su dove siamo, con chi siamo, quali comportamenti osserviamo ecc...
Il sapere teoretico è definito come disposizione dimostrativa, cioè attitudine a ricavare il sapere sia dall'osservazione diretta, sia dal sapere precedente, attraverso il ragionamento.
La virtù etica, la saggezza (phrònesis), è appunto la capacità di deliberare saggiamente intorno a ciò che è bene, o meglio, per me, per te, per chiunque convenga sulla possibilità di ragionare su queste cose.
Potrebbe sembrare che la sapienza etica venga così a fondarsi su presupposti extrarazionali, o persino irrazionali.
Ma ciò è probabilmente dovuto al fatto che abbiamo della razionalità una visione piuttosto rigida e dogmatica.
E' più accettabile l'osservazione che l'etica aristotelica si fonda su un modo opportunistico di affrontare la realtà.
Ma, ciò, lungi dal considerarlo un disvalore, ci pare nientaltro che sano realismo e spiccato senso della possibilità.
Certamente potrà apparire singolare e rivoluzionario questo atteggiamento flessibile di Aristotele in campo etico rispetto alle rigidità intellettualistiche e razionalistiche di Socrate e di Platone, i quali tendevano, come si sa, ad escludere che gli individui agissero male per il male, coscientemente.
Per Socrate il male era il risultato di una ignoranza del bene e della virtù morale.
Per Platone era l'ignoranza delle essenze sublimi, il cedimento dell'anima concupiscente alle passioni del mondo.
Per Aristotele queste furono spiegazioni insufficienti e semplicistiche (non semplici), anche se apparentemente razionali.
Infatti, secondo lo stagirita, i discorsi generali sull'etica non hanno molto senso.
Non conta tanto sapere cos'è il bene, ma diventare buoni, agire in ogni circostanza particolare per il meglio.
Un esempio in questo senso rende meglio l'idea: si può sapere cos'è il bene e tuttavia non farlo.
Sappiamo che riempirci la panza con ogni sorta di leccornie e bevande fa male.
Tuttavia, ogni tanto, noi desideriamo mangiar bene, in compagnia, partecipare ad una sorta di simposio platonico e quindi scegliamo di farci male ed invitiamo altri a fare altrettanto.
Come si vede le cose, in pratica, non sono così semplici come affermavano Socrate e Platone.
Si deve altresì notare che un comportamento da mangione è un comportamento irrazionale.
Ma questa è la vita.
E' solo in questa luce pratica che si può dunque intendere la questione della medietà o del giusto mezzo.
La virtù, cioè l'agire saggio, è per Aristotele una giusta ed equilibrata condotta tra due estremi quali l'eccesso ed il difetto.
Ad esempio: essere vili ed essere temerari (cioè osare oltre i propri limiti) è un comportamento riprovevole: occorre semplicemente essere coraggiosi, cioè una via di mezzo tra due comportamenti estremi.
Ma questo comportamento non può essere prescritto con ricette valide per ognuno ed in ogni circostanza.
Essa va colta, e non solo in modo intuitivo e irrazionale, ma attraverso il ragionamento sullo specifico.
Nell'Etica Nicomachea, che è l'opera aristotelica in cui la riflessione morale di Aristotele tocca i maggiori livelli di profondità, lo stagirita ribadisce che in campo etico non si deve prendere le mosse del ragionamento sul Bene in sè, ma solo dalle concrete situazioni in cui l'uomo agisce, situazioni mutevoli.
Prescrivere significa cadere in un intellettualismo astratto e dogmatico.
In particolare egli comprende che le componenti prerazionali ed istintive di tutti gli esseri umani non possono essere semplicemente cancellate con un colpo di spugna, come se fossero un errore.
In realtà è proprio muovendo dagli istinti umani, tra i quali vi è la concupiscenza del sapere e del conoscere, che si può ammaestrare l'individuo sia alla scienza che alla saggezza.
I tre fattori fondamentali su cui far leva per insegnare sono la disposizione naturale, l'abitudine (èthos) e la facoltà di ragionare (lògos).
La naturale disposizione ad agire virtuosamente, maggiore o minore a seconda degli individui, è solo una potenzialità che può attuarsi.
Tuttavia è opportuno notare, onde evitare fraintendimenti, che in un passo dell'Etica Nicomachea Aristotele evidenzia che le virtù non sorgono spontaneamente per natura, ma per apertura, giacchè nulla infatti, tra le cose che vi sono in natura prende un'abitudine diversa.
Gli esempi addotti da Aristotele non sono tra i migliori, giacchè parla di sassi e di fuoco, tuttavia rendono sufficientemente l'idea del fatto che ad esempio un animale selvaggio potrà essere addomesticato, ma mai del tutto, mentre è molto più possibile che un barbaro (cioè un selvaggio umano) venga civilizzato.
Ed ancora: Non è dunque per natura nè contro natura che le virtù sorgono in noi, bensì esse nascono in noi, i quali, atti per natura ad accoglierle, ci perfezioniamo attraverso l'abitudine.
(Etica Nicomachea II, 1)
La ripetizione di azioni giuste o conformi all'eccellenza porta poco a poco ad assimilarne anche il significato ed il senso più generale.
La ragione, cioè il lògos, porta alla riflessione critica sui propri comportamenti ed è solo agendo e sperimentando, anche il male, che noi diventiamo virtuosi, cioè coraggiosi, corretti, buoni e quantaltro si voglia.
E' da notare che per quanto riguarda il coraggio, ad esempio, non si parla in vista di cosa (per quale causa) si debba essere coraggiosi, ma questo, evidentemente, è implicito in ogni situazione data.
In generale occorre affrontare la vita con coraggio: questo si acquisice con l'abitudine ad essere meno timidi.
Nel bambino premio e rimprovero son ovviamente formidabili coadiutori della formazione di sane abitudini.
Nell'adulto è spesso necessario il ricorso alla legge coercitiva che proibisce comportamenti criminali o dannosi per i singoli e la comunità della polis.
Diamo una serie di citazioni tratte da opere aristoteliche sugli argomenti trattati.

La critica all'intellettualismo socratico
Il vecchio Socrate pensava che lo scopo della vita fosse il conoscere la virtù e ricercava che cosa fosse la giustizia, che cosa il coraggio e ciascuna parte della virtù.
E aveva ragione a far così, poichè riteneva che tutte le virtù fossero scienze e che perciò accadesse contemporaneamente di conoscere la giustizia e di essere giusto, così come contemporaneamente apprendiamo la geometria e l'architettura e diventiamo architetti e geometri.
Per questo egli cercava che cosa sia la virtù, ma non come essa si acquisti e di che cosa si componga.
Ciò invero si verifica nelle scienze contemplative: non v'è infatti nessun altro scopo dell'astrologia, nè della scienza della natura, nè della geometria oltre il conoscere e l'osservare la natura, nè della geometria oltre il conoscere e l'osservare la natura degli argomenti speciali delle scienze; e tuttavia nulla impedisce che accidentalmente queste scienze possano esserci utili in molte necessità.
Ma invece lo scopo delle scienze pratiche è diverso dalla scienza e dalla conoscenza: ad esempio la salute è lo scopo della medicina, della politica è scopo il buon governo o qualcosa del genere.
Certamente è bella cosa il conoscere ciascuna delle cose buone, tuttavia per la virtù la cosa più preziosa non è il conoscere cosa essa sia, bensì donde derivi.
Noi infatti non vogliamo sapere che cos'è il coraggio, ma essere coraggiosi; e non sapere che cos'è la giustizia, ma essere giusti; così come è pure meglio essere sani che non conoscere che cosa sia la salute e avere una buona disposizione d'animo piuttosto che che sapere cosa sia la buona disposizione d'animo.
(Etica Eudemia, I, 5. 1216b 2-26)

La saggezza
Possiamo renderci conto della saggezza, osservando quali persone noi chiamiamo sagge.
Sembra dunque che sia proprio del saggio il saper deliberare bene intorno alle cose che sono per lui buone e giovevoli, non in particolare, (ad esempio quali cose siano buone e convenienti per la salute o la forza), bensì quali lo siano in generale per vivere bene.
Prova ne è che noi chiamiamo saggi anche quelli che lo sono intorno a qualche cosa particolare, quando ragionino bene per un fine buono [...].
Cosicchè in generale chi delibera bene è anche saggio. Nessuno poi delibera intorno alle cose che non possono essere altrimenti, nè intorno a quelle cose che non gli è dato di compiere; cosicchè, se la scienza si accompagna alla dimostrazione e non vi è dimostrazione di ciò i cui principi possono essere altrimenti (in tal caso infatti tutto può essere altrimenti), e se non è possibile deliberare intorno alle cose che sono necessariamente, allora la saggezza non può essere nè scienza, nè arte (nel senso di tecnica, n,d.cactus): non sarà scienza perchè l'oggetto dell'azione può essere altrimenti da quello che è, non sarà arte (nel senso di tecnica) perchè diverso è il genere dell'azione e quello della produzione.
Resta ch'essa sia una disposizione pratica, accompagnata da ragione verace, intorno a ciò che è bene e ciò che è male per l'uomo.
Infatti nella creazione artistica vi è un fine diverso da essa stessa, dell'azione invece non ci può essere: il fine è infatti la stessa bontà dell'azione.
Per questo riteniamo che siano saggi Pericle e gli uomini simili, per il fatto che sanno vedere quali sono i beni per loro e per gli uomini; e noi pensiamo che tali debbano essere gli uomini che governano la famiglia e lo stato.
(Etica Nicomachea, VI, 5.1140a24-b 10)

Il giusto mezzo
Anzitutto dobbiamo notare che le azioni di cui abbiamo parlato sono soggette a divenire imperfette o per difetto o per eccesso.
(per servirci di testimonianze evidenti intorno a questioni oscure), come possiamo vedere a proposito della forza e della salute: infatti sia gli eccessivi esercizi ginnici, sia gli scarsi nuocciono alla forza, parimenti anche il bere ed il mangiare sovrabbondanti o deficienti rovinano la salute, mentre la giusta proporzione la produce, l'aumenta e la preserva.
Così dunque accade anche intorno alla moderazione, al coraggio, e alle altre virtù.
Infatti chi fugge e teme ogni cosa e nulla affronta diviene timido, chi invece non teme proprio nulla, ma va contro ogni cosa diviene temerario; parimenti chi gode di ogni sorta di piacere e non si astiene da nessuno diventa intemperante, chi invece li fugge tutti, come i rustici, diviene insensibile; dunque la moderazione e il coraggio vengono rovinati sia dall'eccesso che dal difetto, mentre vengono preservati dalla via di mezzo.
(Etica Nicomachea, II, 2. 1104a 12-26)

La ginnastica
Che si debba dunque usare la ginnastica e in che modo si debba usare è ammesso concordemente (fino alla pubertà, quindi, bisogna allenarli con esercitazioni più leggere, evitando la nutrizione forzata e le fatiche violente, perchè non siano di impedimento allo sviluppo.
E che davvero possano provocare tale effetto si prova ampiamente dal fatto che tra gli olimpionici se ne trovano due o tre che hanno riportato la vittoria e da uomini e da giovani, giacchè, esercitandosi in tenera età hanno esaurito le loro forze negli esercizi violenti.
Ma quando si sono dati per tre anni dopo la pubertà gli altri studi, allora è giusto occupare il prossimo periodo della vita negli esercizi faticosi e nel forzato regime di nutrizione.
Non bisogna sforzare nello stesso tempo il corpo e la mente perchè ognuno di questi due sforzi produce, per la sua stessa natura, effetti contrari e cioè lo sforzo del corpo impedisce la mente, lo sforzo di questa il corpo.
(Politica, VIII, 4.1338b 40-1339a 11)