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Antropologia: che è?
di Guido Marenco

Al profano occorre una partenza facile. D'accordo: definire l'antropologia è difficile, ma voglio evitare, per ora, discorsi troppo complicati. Sicché mi limiterò inizialmente ad una descrizione generica, spiegando cosa fanno e, soprattutto, cosa hanno cercato di fare, gli antropologi.
Cominciamo col dire che qui non tratteremo di antropologia filosofica, se non indirettamente. L'antropologia filosofica è una composita corrente di pensatori che, a partire da Max Scheler, ha cercato di ricostruire le differenze tra uomo, animale e pianta, inseguendo il progetto di ridefinire il posto dell'uomo nell'universo in base ad una metafisica depotenziata. Questo tipo di approccio verrà prima o poi raccontato sulle pagine di storia della filosofia, che verranno regolarmente linkate anche da questa postazione. Non nego abbia la sua importanza, ma la sensazione che si tratti spesso di "aria fritta", cioè di ragionamenti sull'Uomo che non è mai esistito e mai esisterà, è quantomeno legittima. Personalmente, ho trovato nell'antropologia un modo per rimettere la filosofia coi piedi per terra, per parlare di uomo concreto in situazioni concrete, e quindi anche di dover essere perché le cose vadan meglio, in termini più aderenti alla realtà e meno ammantati di sogni utopici.
Nemmeno un vero antropologo come Lévi-Bruhl, del resto, ragionando sulla differenza tra la mente dei primitivi che aveva studiato e quella degli occidentali, si sottrasse del tutto al richiamo della sirena dell'antropologia filosofica, asserendo che i primitivi non sanno ragionare, e che la loro mente è simile a quella di fanciulli che rifiutano il pensiero astratto e concettuale, anche perché non lo capiscono. Bartlett ebbe buon gioco a rispondere, asserendo che Levi-Bruhl aveva preso una cantonata colossale, confondendo la gran massa degli occidentali con l'elite intellettuale e scientifica. In realtà c'era del vero in entrambe le posizioni, solo che quella di Levi-Bruhl aveva il difetto grave di dimenticare che anche nelle società complesse permangono aree assai estese di tribalismo, totemismo (si pensi ai club di tifosi calcistici), nomadismo, superstizione, tabu, insofferenza alla disciplina del lavoro e all'indottrinamento forzato di certi modelli scolastici, e altro ancora. E non ebbe l'opportunità di assistere all'espansione di fenomeni quali il piercing e i tatuaggi, la world music adulterata e la disco-dance, che esprimono una mentalità tra le più primitive e fanciullesche che mai si sia dato di vedere.
Le idee di Lévi-Bruhl avevano comunque un grosso merito: contribuivano a rovesciare il paradigma di una antropologia filosofica ancora più astratta di quella proveniente da Max Scheler e successori: ovvero che lo stato primitivo non sia da considerare una condizione storica e ambientale determinata, ma una specie di degenerazione dello spirito umano. In tale ottica, il selvaggio era stato visto come un degenerato, il figlio del peccato originale, l'esito più radicale della maledizione pronunciata da Dio nei confronti di Adamo. Oggi può sorprendere che un simile pensiero abbia potuto semplicemente circolare e non sia stato fermato da risate di scherno. Eppure, se si guarda bene, lo si ritrova non solo in posizioni filosofiche vicine alla religione, ma in molte forme di idealismo, che proprio la religione avrebbero voluto 'superare'.
Con ciò, credo, mi pare d'aver evidenziato uno dei caratteri fondamentali dell'antropologia: essa studia l'uomo reale, storicamente e geograficamente determinato, lo descrive (e non lo immagina), si sforza di dare delle spiegazioni, anche se non rifugge dalle interpretazioni, le quali, d'altra parte, non possono che dar luogo a discussioni, com'è giusto che sia. Il che ha più volte portato ad incrociare le lame in violente dispute. Le discussioni non sono affatto finite, si sono solo spostate su altri piani e, d'altra parte, devono pur tener conto della globalizzazione, cioè del fatto che non sono scomparse del tutto le culture dei primitivi, al punto che riaffiorano qua e là persino nel cuore della civiltà europea e nordamericana, ma che sono però scomparse le economie primitive e che ovunque esiste un'unità di misura della ricchezza e della povertà che si chiama produzione di beni e servizi, commercio, dollaro.

Le origini
La galleria degli antenati e dei precursori dell'antropologia contemporanea potrebbe riempirsi di ritratti, da Erodoto a Rousseau, a Kant, ma se cerchiamo qualcosa di solido, un punto di svolta significativo, possiamo tranquillamente riferirci ad un nome, un luogo ed una data: Louis-François Jauffret, Parigi 1799. Qui, grazie a Jauffret, nacque la Societé des Observateurs de l'homme, in un clima culturale nel quale si era convinti che studiare i sauvages equivalesse a studiare i nostri progenitori compiendo una sorta di viaggio a ritroso nel tempo. L'impresa fallì perché Napoleone perseguiva altri obiettivi di 'politica culturale', per così dire, e non era affatto disposto a concedere spazio e denaro a intellettuali potenzialmente sovversivi, di orientamento umanistico e quindi contrapposti al suo progetto di tecnicizzazione, scientificizzazione e militarizzazione della società e dello stato.
Anche per questo, gli sviluppi più importanti dell'antropologia contemporanea vennero da studiosi di lingua inglese, che si è soliti chiamare vittoriani per il fatto che vissero in Inghilterra durante l'Ottocento, in un mondo culturale e scientifico fortemente condizionato dal positivismo e dall'evoluzionismo spenceriano, e quindi dalla nozione di progresso.
Lo stesso Darwin contribuì non poco ad attizzare studi antropologici con un articolo pubblicato nel 1836 sul "South African Christian Recorder", in collaborazione con il capitano della Beagle Robert FitzRoy. Lo scritto si intitolava On the Moral State of Tahiti, ed in realtà era in gran parte opera di FitzRoy; Darwin vi incluse solo lunghi estratti del suo diario. Potrebbe far sorridere che proprio il grande sovvertitore delle credenze religiose sia intervenuto per difendere l'opera dei missionari, ma il succo dell'articolo era proprio quello, ed era motivato dall'accusa che l'esploratore russo Otto von Kotzebue aveva mosso agli stessi missionari, asserendo che essi avevano prodotto più danni che vantaggi alle popolazioni evangelizzate, soprattutto perché si erano prestati a far da supporto al potere coloniale. Al di là dell'episodio, si può tuttavia concordare con Stepehen Jay Gould quando definisce "paternalistica" la posizione di Darwin, sempre che nel concetto di 'paternalista' vi sia anche posto per un'accezione positiva. Posizione che trova nelle pagine dell'articolo una riflessione di tal fatta: «Complessivamente, è mia opinione che lo stato della moralità e della religione a Tahiti sia molto encomiabile... I sacrifici umani, le guerre più sanguinose, il parricidio e l'infanticidio, il potere di una casta sacerdotale sanguinaria, e un sistema di dissolutezza senza precedenti negli annali del mondo, sono stati aboliti, e la disonestà, la licenziosità e l'intemperanza sono state grandemente ridotte dall'introduzione del cristianesimo.» (1)
Darwin non cita, tuttavia, né poteva farlo, quello che invece è un paradosso storico e antropologico di non poco conto. Sia tra i nativi australiani che in quelli di Trobriand non si era mai formata la convinzione che tra rapporti sessuali e gravidanza ci fosse un rapporto di causa ed effetto. Furono quindi, con molta probabilità, proprio i missionari cristiani ad insegnare loro l'abc della vita! Riservandosi poi di negargliela con l'indottrinamento che costringeva le fanciulle e le donne a nascondere quanto più possibile le proprie forme.
Gould parla del Darwin 'antropologo' definendolo "migliorista nella tradizione paternalistica" e le ragioni son queste: non credeva nella disuguaglianza biologica fissa e ineliminabile. Il suo atteggiamento portava ad affermazioni 'sgradevoli' (parola di Gould), ad esempio sui 'fuegini', (2) ma non portava ad una posizione di tipo determinista che rifiutava per principio la possibilità di un 'miglioramento'. Miglioramento? Sì, precisa Gould, ovvero occidentalizzarsi, e, magari, aggiungiamo noi, cristianizzarsi. "Il determinista - scrive Gould - considera invece la cultura 'primitiva' un riflesso di un'inferiorità biologica inalterabile, e quale politica sociale deve quindi seguirne in un periodo di espansione coloniale: eliminazione, schiavitù, dominio permanente?"
Beh... non fu esattamente questo il problema che si posero i primi antropologi contemporanei, ma è indubbio che nelle loro schiere si insinuarono individui e teorie fortemente impregnate di ideologismi quali quelli richiamati da Gould. L'idea che possano esistere un'antropologia di destra ed una di sinistra non è, in fondo, sbagliata, visto che non possiamo non leggere, già negli stessi scritti di Darwin, una sorta di intenzione progressista ed universalistica. E' migliorismo, appunto. Tuttavia, gli sviluppi hanno scombinato non poco le carte così come stavano all'inizio del gioco. Se di destra, un tempo, erano idealisti da un lato e deterministi dall'altro, oggi ci si trova nella desolante situazione di dover constatare che solo recuperando qualche argomento dell'antropologia di destra, si potrebbe dar luogo ad una nuova antropologia, più obiettiva e razionale.
Attualmente, si fatica a non indentificare la 'sinistra' antropologica con il relativismo più spinto, quello che cioè asserisce che le culture si equivalgono, che la superiorità dell'Occidente è frutto del logocentrismo, che in realtà siamo sotto la tirannia della tecnica e così via. In questa sinistra antropologica la posizione di Darwin non può che essere accusata di paternalismo (quando va bene), imperialismo, colonialismo e compagnia bella.
Personalmente, sono per un'antropologia razionale ed obiettiva, quindi né di destra, né di centro, né di sinistra, sia alla luce dei teoremi di due secoli fa, sia alla luce degli studi più recenti. Mi rendo conto delle difficoltà che tale assunzione implica, non ultima la contrapposizione frontale contro l'ipocrisia del relativismo antropologico, ma non credo, quasi come Darwin, che una posizione quale quella del valoroso von Kotzebue sia in qualche modo utile., se non nei casi in cui risulta anche vera. Ciò significa che storicamente i casi di colonizzazione culturale e di uso strumentale della religione cristiana vanno analizzati e verificati. Forse noteremo che c'è stata una non piccola differenza tra i modi d'insediamento della chiese cristiane in Sud America, in Nord America, in Africa ed in Asia, nonché in Oceania. E' abbastanza difficile, se non impossibile, trarre una sorta di media statistica tra riuscita e fallimento, tra metodi buoni e cattivi. La realtà attuale è che la Chiesa cattolica fa quasi più dell'ONU per aiutare la crescita ed il miglioramento, in senso darwiniano, in certe zone del mondo, e in altre gioca un ruolo esplicitamente reazionario. Certo è, che quando si oppone all'introduzione di tecniche anticoncezionali, essa lavora ai fini del moltiplicarsi delle sofferenze umane. Preservativo non è la stessa cosa che aborto, pillola non è omicidio, possibile che sia così difficile capire concetti così elementari?
Dobbiamo quindi affinare le nostre capacità di analisi, invece che assopirci in generalizzazioni che fanno torto alla nostra intelligenza.
Il primo punto, allora, mi sembra abbastanza ovvio: ci è indispensabile una storia dell'antropologia contemporanea e nei limiti del possibile, questo cercheremo di fare, dando conto di indirizzi e scuole che a partire dal XIX secolo si sono succedute, dal primo evoluzionismo di Tylor e Morgan (e dello stesso Marx), al particolarismo storico di Boas, Kroeber, Benedict e Margaret Mead, dal diffusionismo al funzionalismo di Malinowski, dall'approccio eminentemente psicologico allo strutturalismo di Lévi-Strauss, giù fino agli sviluppi più recenti di tipo etnoscientifico e sociobiologico.
Un secondo punto basilare consisterà nel definire le aree di interesse dell'antropologo, nonché le convergenze e le reciproche influenze in rapporto ad altre discipline.
Qui, occorre subito ficcarsi nella zucca un concetto fondamentale: l'antropologia contemporanea non è come la matematica o la fisica, o la chimica, o la biologia, una disciplina che si forma scremando, e quindi limitando e concentrando l'analisi su particolari aspetti della realtà, e nemmeno è una sorta di pallida copia della filosofia, che continua a pretendere di parlare e pontificare su tutto e niente. L'antropologia nasce come convergenza di saperi e pratiche scientifiche diverse. A volte, prende pieghe filosofiche, continuando così a pontificare su tutto e niente, ma in generale essa tende a basarsi su dati, non solo sensibili, ma anche teorici. Con ciò si avvicina quindi ad un ideale scientifico, anche se poi finisce di raggiungerlo solo per alcuni aspetti.

L'antropologia oggi
L'antropologia è una ricerca sull'uomo basata sull'osservazione del comportamento, delle abilità tecniche, delle regole, dei costumi e delle credenze di gruppi definibili come società, civiltà, comunità, tribù, orde e così via. Si può fare dell'antropologia anche studiando ciò che avviene sotto casa, e questo fatto non è del tutto riportabile alla sociologia, anche se è lecito chiedersi quali potrebbero essere i confini tra una disciplina e l'altra. Rinuncio volontariamente ad un tentativo erudito di elencare affinità e differenze, perché non ritengo che la questione abbia importanza primaria. Richiamo solo il fatto che mi sembra ovvia e accettata la distinzione tra antropologia fisica e antropologia culturale o sociale. La prima si occupa della storia dell'uomo e della sua evoluzione fisico-biologico dalla primordialità ai giorni nostri sulla base della teoria della selezione naturale. Questo vuol dire che l'antropologo ha constatato che si è verificata un'evoluzione e, generalmente, si è convinto che noi siamo, per ora, in quanto sapiens, l'ultimo anello di questa catena.
L'antropologia culturale studia l'uomo credendo che esso si comporti secondo la cultura acquisita e trasmessa, quindi non solo in base a un istinto, o a una psicologia che da rudimentale si è fatta via via più raffinata. Questo tipo di antropologia confina con la sociologia e persino si confonde con essa. Siamo abbastanza intelligenti ed aperti per capire che un sociologo può contribuire allo sviluppo di studi antropologici e viceversa un antropologo può contribuire agli studi sulla società. Forse, potremmo ammettere che il sociologo è più interessato allo sviluppo sociale e alle sue leggi, e l'antropologo è più interessato all'uomo. Ma non andremmo molto lontano, giacché, come constateremo, l'antropologia vittoriana si caratterizzò fortemente come antropologia sociale. Gli studi di Morgan (che era americano e non vittoriano), ad esempio, si rivolsero in particolare ai sistemi di parentela, e quelli di Maine ebbero un grande interesse per la struttura giuridica. E' vero ciò che afferma Ugo Fabbietti, i campi di analisi dell'antropologia contemporanea vennero individuati per la prima volta dagli antropologi vittoriani. «Sistemi di parentela, rappresentazioni totemiche, magia e religione, evoluzione dei rapporti tra membri della comunità domestica:questi sono i grandi temi all'interno dei quali altri, più ristretti, ma non per questo meno fondamentali, si ritagliano fin da allora uno spazio definitivo: proibizione dell'incesto, esogamia ed endogamia, e molti altri. Il tutto sorretto da un ideale epistemologico molto forte, quello della ricostruzione delle fasi di sviluppo delle istituzioni e delle pratiche sociali a partire dalla condizione primitiva dell'uomo fino alla civiltà dell'Inghilterra vittoriana.» (3) Si noterà qui, che l'ideale di Jauffret fu ripreso dagli inglesi e che la Waterloo di Napoleone continuò anche dopo il suo decesso. Non è per fare della retorica a basso prezzo, ma credo sia ovvio, per l'antropologo genuino, che se c'è un vero spirito del mondo, esso non va su un cavallo bianco ed alato, ma si trascina a piedi dal Manzanarre al Reno, se perde il treno. E quando è arrivato, va comunque a piedi per non perdersi nulla dello spettacolo che gli offre il nuovo mondo con cui è entrato in rapporto.
Battute a parte, occorre non dimenticare la psicologia. Non credo che si possa affrontare seriamente un qualsiasi approfondimento antropologico prescindendo da rudimenti psicologici, psicoanalitici e psicodinamici. L'individuo umano è un organismo vivente e sensibile, che ha bisogni fondamentali, che pensa, che è in grado di dirigere il pensiero su determinati obiettivi, che è in grado di comunicare ciò che pensa, ma che in diversi modi può trovarsi condizionato e persino imprigionato in determinati comportamenti acquisiti ed in balia di credenze assurde. Senza contare che, come ha mostrato Freud, egli può anche non avere coscienza chiara e distinta dei suoi desideri più profondi. In linea di massima, sono personalmente convinto che sia stato un errore estromettere la psicoanalisi dal ragionamento antropologico e attualmente non mi allontano di molto da quanto sostenevo, juvenilia, nel pezzo su Geza Roheim, composto qualche anno fa. Qualsiasi forma di civilizzazione comporta una penalizzazione dell'istintuale, anche se, ovviamente, la civilizzazione è preferibile di gran lunga ad un tempo di barbarie, per il semplice fatto che solo la vita civile consente all'uomo stesso di prosperare, allungarsi la vita e mantenere allo stesso tempo una vitalità dinamica. Ma questa acquisizione non può essere rimossa, pena quelle insoddisfazioni che possono degenerare in patologie nevrotiche o persino psicotiche. In altre parole, un individuo sano di mente deve avere in sé una cognizione del prezzo biologico che ha pagato e sta pagando per vivere e sopravvivere. Tanto più quando la civilizzazione stessa non sembra affatto alla gran massa dei lavoratori una specie di paradiso terrestre, ma solo un purgatorio migliore dell'inferno. E caduta l'utopia del sol dell'avvenire, il bieco realismo non può che insegnare a convivere con pezzi di inferno presenti a macchie di leopardo in tutto il tessuto della società civile.

Scienza e antropologia
Moltissimi antropologi hanno rivendicato uno statuto scientifico per la loro disciplina. E' una storia vecchia che risale alla distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito, e quindi alla convinzione che sia possibile qualcosa come una scienza sociale, una scienza della storia e così via.
Se per scienza si intende un ben definito aggregato di teorie compatibili tra loro che ci danno qualche certezza circa l'uomo, la sua origine, il suo sviluppo, le sue costanti e le sue variabili, temo che siamo ancora distanti da una vera e propria scienza, anche se i metodi scientifici sono entrati prepotentemente in scena, soprattutto nell'antropologia fisica.
Per datare i fossili ed i reperti archeologici, ad esempio, si ricorre ad una procedura ben nota, la datazione radioisotopica. Nelo 1960, Willard Libby si prese un Nobel per i contributi che diede in tal senso. Misurando la radioattività di materiali provenienti da organismi che furono viventi, si può fissare a quale periodo risale il reperto. Ciò non si limita alle ossa e ad altre parti biologiche, ma può estendersi a manufatti come il legno lavorato, la lana, la seta, i dipinti e i graffiti. Questo consente di stabilire con approssimata esattezza l'età dei corpi ritrovati. Nel 1949, Libby andò in Egitto e riuscì a datare una scheggia di legno d'acacia proveniente dalla tomba del faraone Zoser. Da allora la procedura viene abitualmente usata con un limite di applicazione di circa 50.000-60.000 anni, perché oltre tale data la quantità di carbonio -14 diventa troppo piccola per misure significative.
Sotto questo profilo, quindi, l'antropologia rivolta a studiare l'uomo primitivo e quello delle prime civiltà utilizza metodi scientifici.
Gli sviluppi recenti della biologia e della genetica hanno consentito analisi del DNA dei fossili, ed hanno fatto compiere progressi impensabili non solo rispetto ai tempi di Darwin e gli antropologi vittoriani, ma anche rispetto a quanto si sapeva o si ipotizzava solo qualche anno fa.
Questi sviluppi, tuttavia, se per certi aspetti sembrano aver dissolto o spiegato qualche enigma, per un altro hanno innescato nuovi interrogativi e nuove accese dispute tra teorie rivali. Una di queste difficoltà è segnalata da Gianfranco Biondi e Olga Rickards nel recente lavoro Il codice Darwin (4).
I due studiosi sottolineano che una qualunque categoria tassonomica può entrare nel mondo della vita solo dopo che il genoma di alcuni individui del gruppo parentale si sia modificato. Deve emergere un nuovo fenotipo. «Questo processo del tutto intuitivo - scrivono Biondi & Rickards - è ciò che gli studiosi sintetizzano nella locuzione "l'evoluzione molecolare precede quella morfologica" e rende conto dello sfasamento tra la datazione che si ricava dai fossili e quella suggerita dall'orologio molecolare. Il divario tuttavia, deve essere contenuto, altrimenti non c'è alcuna certezza di riuscire a individuare il tempo dell'origine e dovremmo così accettare l'idea dell'impossibilità di poter decidere quale delle due date sia la corretta e quale la sbagliata. Fino all'aprile 2002 pareva che le cose, per quanto riguarda la divergenza dei primati dagli altri mammiferi placentati, stessero proprio così. I fossili più antichi che si potevano assegnare al nostro ordine non andavano al di là della fine del Paleocene e l'inizio dell'Eocene, un'età eccessivamente recente se raffrontata alle indicazioni avanzate dalla biologia molecolare.» Però, se è vero che all'origine di gorilla e oranghi c'erano esserini dalle ossa minute, dev'esser plausibile che le loro ossa si siano disfatte prima della loro completa mineralizzazione. Pertanto, osservano Biondi & Rickards, il divario temporale fornito dall'approccio statistico «tra il fossile più antico conosciuto e il momento in cui visse l'antenato comune, è stato davvero notevole perché gli albori della nostra storia sono stati arretrati a circa 80 milioni di anni fa: una data che ben si accorda con quanto sostenuto dagli studiosi delle molecole.»

Dove la scienza arriva a fatica e spesso si impantana, ma dove raggiunge anche qualche importante successo: sapiens non discende da neanderthalensis; sono due specie diverse
I problemi cominciano a presentarsi in modo più aggrovigliato non appena ci si allontana dal dato oggettivo per incominciare ad interpretare, a congetturare possibili spiegazioni. Ad esempio, i resti di un bambino, deducibili dalla grandezza delle ossa e dalla loro conformazione, trovati sistemati in certo modo, possono far supporre che il bambino sia morto di morte violenta (cranio spaccato) , sia stato ucciso a scopo rituale (offerto in sacrificio) e fors'anche mangiato, cotto o crudo, od anche solo mangiato senza scopo rituale. Le congetture, sotto questo profilo, non possono dar luogo alle classiche confessioni dell'assassino che confermano le ardite ipotesi abduttive dell'investigatore. Le ossa non parlano, purtroppo si limitano a dare indicazioni. Siamo noi che dobbiamo ipotizzare. Sicché, la generalizzazione di congetture presenta ancora, e per chissà quanto, un carattere fallibilistico che accende le più vivaci discussioni e che non può popperianamente essere falsificata da alcunchè. Quale fatto potrebbe smentire una teoria concernente il carattere piacevole e gastronomico del cannibalismo? Non era, in fondo, l'antropofago, altro che un innocente buongustaio, istintivo, e dunque privo di freni morali?
Noi, finora, siamo in presenza di teorie che motivano il cannibalismo in base a credenze animistiche e religiose. Tra gli attuali cannibali, come del resto tra quelli del secolo passato, ed anche tra quelli di periodi più antichi, si mangia carne umana credendo in fenomeni quali l'incorporazione del coraggio, del valore, della virtù del corpo mangiato. E queste sono credenze materialistiche ma anche metafisiche e religiose. Suppongono che nella carne ci sia ancora una traccia dell'anima del defunto, e che la carne stessa abbia conservato qualità del malcapitato quand'era vivo. Quindi non solo proteine e calorie, come più giustamente crediamo noi. Tuttavia, non possiamo escludere che i nostri antenati ritenessero gradevole il consumo di carne umana, e che solo successivamente siano intervenute spiegazioni di tipo magico-religioso.
L'uomo di Neanderthal era con elevata probabilità antropofago, anche se questa caratteristica è decisamente negata da Gian Franco Biondi e Olga Rickards in base a ragionamenti e constatazioni più che plausibili. Ma potrebbe essere vero solo che non tutti gli appartenenti al tipo Neandhertal fossero dediti all'antropofagia, mentre dall'altro lato constatiamo che i cannibali furono presenti anche in homo sapiens, e che esistevano ancora qualche decennio fa.
Al di là della querelle antropofagica, la questione Neanderthal è uno dei capitolo più affascinanti dell'antropologia fisica: perché i neandertaliani si estinsero? Possiamo,quando si parla di tipi umanoidi, accettare la spiegazione del modello di "più adatto biologicamente"come la più decisiva, senza chiederci in quale rapporto di dominio o di subordinazione fossero le comunità neandertaliane con l'insieme dell'ambiente in cui erano prosperate? In quali rapporti erano con le comunità di homo sapiens?
Gli interrogativi sono destinati ad aumentare anziché a diminuire man mano che si procede. Si può andare da un primo e per nulla clamoroso esempio di pulizia etnica compiuto da gruppi di sapiens ad una caduta verticale per motivi biologico-patologici, ad una variazione climatica improvvisa, ad una carestia di proporzioni inaudite e a chissà che altro. Comunque sia, oggi la scienza pare in grado di poter dire una parola decisiva su un punto di particolare interesse: homo sapiens non discende da neanderthalensis. Tale è l'affermazione che Biondi e Rickards condividono, sulla scorta delle ricerche sul DNA antico condotte da Svante Pääbo e altri, tra i quali il nostro David Caramelli. E' altamente improbabile che il 25% del nostro genoma ci sia stato fornito dai neanderthalensis, come affermato da studiosi di orientamento continuista. Pare accertato, secondo Mathias Currat e Laurent Excoffier, che nei circa 15000 anni di coabitazione tra sapiens e neanderthalensis non si siano verificati più di 120 incroci. Un livello tanto basso di scambi genetici suggerisce, secondo Biondi e Rickards, "che tra i due taxa ci fosse una quasi completa sterilità". Ovvero: i neandertaliani costituivano un'altra specie, e questa specie si è estinta.
La conclusione "scientifica", tuttavia, lascia ampio margine all'insoddisfazione. Neanderthalensis non era uno "scimmione", ma un essere in grado di resistere al freddo utilizzando le pellicce degli animali uccisi, costruire capanne e utensili, comunicare. Era faber, e a differenza di come usano utensili e corpi naturali in grado di funzionare come utensili le scimmie più evolute, gettandoli via dopo l'uso, egli era in grado di riporre l'attrezzo in un luogo deputato alla conservazione. Sapeva ritrovarlo quando occorreva. Sapeva custodirlo. In sostanza, se per distinguere l'uomo dal resto delle antropomorfe si adotta come criterio quello dell'abilità manuale più o meno consapevole e della pre-organizzazione del lavoro più rudimentale, egli era già uomo, pur non essendo della nostra specie. In alcuni casi, pare provato che Neanderthal seppellisse i morti, anche se pare dubbio si sentisse in dovere di fare offerte votive. Alcuni hanno interpretato questo punto come semplice negazione di credenze religiose nell'immortalità dell'anima, preferendo sostenere che la sepoltura era funzionale a tener lontani iene ed avvoltoi. Altri hanno asserito che la mancanza di prove non elimina la congettura e non può portare alla soppressione di un programma di ricerca finalizzato alla riabilitazione di Neanderthal. Si è anche parlato di una sorta di religione, il "culto dell'orso", ed esso derivò, probabilmente dalla riconoscenza che Neanderthal sentiva nei confronti di un animale che forniva la pelliccia, cioè un elemento indispensabile alla sopravvivenza nelle zone più fredde. Basta questo poco ad alimentare gli interrogativi.

Ma l'antropologia non è solo "studio di cannibali"
L'antropologia non si può affatto definire come uno 'studio dei cannibali', in senso spregiativo e goliardico, come a volte accade di sentire. Cercando, l'uomo e le molteplici manifestazioni dell'umanità presenti attualmente o presenti nel passato, noi cerchiamo qualcosa di più che un'occasione per stupirci. Per quanto possa sembrare gratificante e avventuroso, lo studio antropologico non è un passatempo qualsiasi. Pare che il termine 'antropologico' sia stato usato da Aristotele in senso spregiativo: voleva dire pettogolezzo, chiacchiera di infimo ordine. L'antropologo crede oggi di poterlo usare in tutt'altro senso, e crede ovviamente che la sua disciplina sia tra le più nobili. Personalmente, credo che non ci si possa accostare a questi studi senza un sentimento di fratellanza per tutta l'umanità che trascende il tempo, la distanza, la geografia, le razze e le culture. Così molti si avvicinano all'antropologia trascinati dall'ideale di abbattere i pregiudizi razziali. Questa è una nobile causa, ma non dovrebbe interferire nel nostro approccio, almeno fino al punto di oscurare l'obiettività. Perseguendo come ogni scienza un'ideale di verità obiettiva, l'antropologia porta spesso alla luce fenomeni tutt'altro che interpretabili in chiave progressista. Sarà pur vero che l'essere umano è un animale razionale, bipede e politico, ma non è affatto buono in sé, e quando finalmente impara ad usare la testa per ragionare invece che picchiarla contro qualche muro del pianto, molto spesso si abbandona ai più perversi ragionamenti su come riuscire a soggiogare e sfruttare altri esseri umani. Ciò vale in tutte le civiltà e in tutte le epoche, a tutti i gradini della scala evolutiva, ed in questo senso potrebbe sembrare vero che una civiltà vale l'altra. Ovviamente non è così. La strada imboccata con la Rivoluzione Francese non ha dei veri precedenti nella storia dell'umanità. La dichiarazione dei diritti dell'uomo segna uno spartiacque abbastanza netto. Il mondo da allora è cambiato e oggi l'opinione pubblica in generale ha una percezione molto più profonda di ciò che è umanamente tollerabile e ciò che non lo è.
La conoscenza antropologica è perciò qualcosa che può aiutare ad orientarci meglio nella società multirazziale e pluralista in cui stiamo vivendo, e che molti di noi, semplicemente sopportano. Non mi metto fuori dalla mischia perché quando vedo una zingara che espone i suoi piccoli al freddo per raccogliere elemosine, divento una belva, anche se poi non so cosa fare. Potremmo sopportare meglio la 'contaminazione' se vedessimo quale ricchezza ci può venire dall'ingresso del diverso. L'antropologia ci può aiutare. Accresce la nostra cultura in un senso non solo disinteressato ma anche utile. Tuttavia, tengo a precisarlo, senza un reale incontro con l'altro, il diverso da noi, non ci può essere preparazione accademica e libresca che tenga. Noi dobbiamo fare esperienza degli altri e nessuno creda di poterli conoscere davvero solo attraverso i libri o guardando i documentari di Piero Angela & figlio. Con gli altri bisogna parlare, né dall'alto in basso, né dal basso in alto, ma guardandosi negli occhi, e pacatamente cercando di discorrere. A che serve, altrimenti, tutta la nostra scienza?

Uno dei padri dell'antropologia contemporanea, Franz Boas, affermò che l'antropologia non è una disciplina 'naturalistica', ma 'scienza dello spirito'. Pertanto deve avvalersi del metodo storico. L'idea di Boas è che ogni cultura abbia una propria struttura specifica. Le analogie tra le varie culture dovrebbero pertanto essere spiegate in base a contatti storicamente accertabili, quindi a 'processi di diffusione'.
Non è che un'idea valga l'altra, ce ne sono di migliori e di peggiori. Questa non è esattamente la mia idea, però credo sia una buona idea di partenza. Diffusione potrebbe voler dire anche 'contaminazione', cioè scambio non a senso unico tra diversi. E quando si parla di diversi, spesso c'è un superiore che impone o dona, ed un inferiore che subisce o che smania di imitare. Contaminazione vuol dire però che elementi fondamentali di una cultura elaborata da modelli di società giudicati inferiori sono penetrati in quella superiore. Gli esempi storici non mancano e basterebbe averli presenti. Ebraismo e cristianesimo primitivo, elaborati da popolazioni giudicate inferiori, indegne della cittadinanza romana, entrarono a forza nelle grandi città ellenistiche e romanizzate dell'impero, fino a conquistarlo religiosamente, se non culturalmente. Elementi dichiaratamenti etnici quali il ritmo, le melodie e le armonie africane sono penetrate a fondo nella civiltà nordamericana, dando vita al blues ed al jazz, espressioni culturali da molti salutate come un rinnovamento della musica in una fase di acutissima crisi dell'ispirazione artistica dei musicisti europei.
Le società chiuse, quelle che non hanno subito interferenze, sono al contrario l'esempio di una purezza razziale e culturale incontaminata. Vennero considerate 'inferiori' dai primi antropologi. Oggi si tende a negare la parola stessa. Non so se sia una forma di ipocrisia, come credo per lo più, o una convinzione radicata, come credo in alcuni certamente. Certo è che il senso comune diffuso tra europei ed americani, all'opposto, vede un boscimane come 'fossile vivente'. Questa impressione non è affatto facile da sradicare, e forse non dovremmo cercare nemmeno di sradicarla. Personalmente, ormai è noto, rifiuto diversi generi di relativismo, in primo luogo quello antropologico. Oltretutto non ci serve. Io so che un aborigeno australiano è mio fratello o cugino allo stesso titolo di un padano o di un egiziano. Non c'è bisogno di abolire le distinzioni e le valutazioni per promuovere una retorica della fratellenza universale. Dobbiamo solo riconoscere che noi desideriamo per loro un futuro migliore del passato che hanno ereditato. Vorremmo che potessero studiare, alimentarsi come noi, avere le nostre stesse opportunità, non già perchè siamo convinti di vivere in un paradiso di privilegiati, ma perché siamo consapevoli che il nostro non è un paradiso, ma solo un modo di soggiornare su questa terra che offre qualche opportunità in più, allunga la speranza di vita, e diminuisce la possibilità di essere sfruttati, trattati come strumenti, presi a calci da individui senza scrupoli e coscienza morale. Nessuno può dimenticare a cuor leggero che l'indice di mortalità dei bambini nati in una società come la nostra è sceso all'1%, mentre il tasso di società arretrate era e continua ad essere del 20%.

Sandokan, la musica dei Kota, tutto ciò che li rendeva ripugnanti ad altri esseri ripugnanti e l'azione di riforma avviata dal piccolo Sulli
La mia esperienza personale, a questo punto, può tornare utile. Da ragazzo fui colpito dai romanzi di Emilio Salgari, che esprimeva, tra l'altro un sano sentimento di odio-amore per gli inglesi. Era amore quando essi si opponevano ai thugs, gli strangolatori fanatici devoti alla dea Kalì. Era odio quando essi opprimevano e dominavano, appoggiando avventurieri e sfruttatori come il famigerato rajah bianco di Sarawak, nemico giurato di Sandokan. Tremal Najk e Sandokan erano comunque la dimostrazione, per quanto fantastica, di un fatto che ho sempre considerato ovvio: l'eroe, l'ideale dell'Io che sconfigge i prepotenti non ha colore né razza. Può essere un principe indiano come il capitano Nemo di Jules Verne, può essere Sandokan, può essere Capo Giuseppe, che fu un personaggio storico, quindi molto più efficace come esempio. Le premesse per la mia passione antropologica avevano radici nel mito, anche se nel mito costruito dalla letteratura d'evasione e dai fumetti, quindi da miti ultramoderni.
Cominciai ad interessarmi coscientemente all'antropologia dopo aver visto il film Rapa nui, che raccontava in modo crudo e realistico cosa potrebbe accadere in una società chiusa e isolata, come appunto quella sviluppatasi sull'isola di Pasqua. Poi mi imbattei in una lettura casuale che mi coinvolse intensamente, il saggio Un riformatore del suo popolo di David G.Mandelbaum. E' contenuto in La ricerca antropologica a cura di Joseph B. Casagrande, edita in due volumi da Einaudi nel 1966. Il saggio ha per oggetto Sulli, un Kota, cioè un appartenente ad una popolazione del pianoro del Nilgiri, posto sulla punta meridionale della penisola indiana. Su tale pianoro, in quasi perfetto isolamento, vivevano quattro popoli, che stavano tra loro in rapporti di dipendenza reciproca. "I Kota - racconta Mandelbaum - coltivavano un poco di terra, ma erano soprattutto artigiani e musicisti; fornivano merci e prestavano opera ai pastori Toda, agli agricoltori Badaga e agli abitanti della giungla Kurumba."
Cosa avevano di particolare queste popolazioni? Che erano molto arretrate, in un paese di per sé arretrato, nella parte più arretrata del subcontinente indiano. Nè Kota, né Badaga, né Toda, né Kurumba avevano raggiunto il livello di civilizzazione presente nell'India che più o meno conosciamo. Eppure, tra queste popolazioni accomunate dalla miseria, esisteva una specie di razzismo. Toda e Badaga consideravano i Kota con disprezzo, "mangiatori di carne putrida e seguaci di altri vili costumi".
E nell'India, dare del 'mangiatore di carne putrida' a qualcuno è proprio un insulto. Per gli induisti le vacche sono sacre, per i mussulmani i maiali sono impuri. Trovare una macelleria è come trovare un ago in un pagliaio, e quelle che trovi non hanno il frigorifero! Sicché chi mangia carne rischia comunque molto, e forse non dimostra grande intelligenza.
Dal canto loro, dice Mandelbaum, i Kota sembravano rendersi conto della loro funzione indispensabile nell'economia locale. Senza la loro musica, ad esempio, le cerimonie Badaga e Toda non sarebbero state così belle e splendenti. Putroppo, Mandelbaum non ci dice nulla sulla musica dei Kota e sulla loro straordinaria sensibilità estetica e ritmica. Mi sono ingegnato a trovare qualche supporto fonografico anche in stuazioni di grave carestia documentaria come quella attuale, e quel poco che sono riuscito a trovare sulla musica del Sud dell'India non è strettamente riportabile ai Kota. Tuttavia, quel poco, è già sufficiente a documentare che noi occidentali abbiamo una percezione distorta della musicalità indiana. Non è solo raga, non è solo il lancinante e ossessivo suono del sitar. Sotto c'è la tabla, la fuente del ritmo, ed il ritmo è una concezione del tempo che lo scompone ad ogni colpo, lo accelera e lo rallenta, lo rende fluido. Il ritmo esalta la corporeità, ma non è affatto nemico della spiritualità, mentre ci sono melodie estenuanti che vorrebbero esaltare la spiritualità, ma finiscono solo col risvegliere l'animalità negata. Uno dei grandi desideri della mia vita è andare sul posto e fare ricerche, cioè ascoltare, vedere, scoprire se vi sia nella musica dei Kota qualcosa che riproponga quella genuina gioia di vivere di cui si sono perse molte tracce.
Il fatto raccontato da Mendelbaum è che un giorno, tra questo spregiatissimo popolo, apparve Sulli, niente di eccezionale dal punto di vista fisico, un Kota medio in un mondo di piccoli indiani del Sud, ancora più piccoli degli indiani del Sud. Sulli, però, senza presentare alcun carattere razziale differente, era profondamente diverso da tutti gli altri Kota. Era un rivoluzionario, o per dirla con Mandelbaum, un riformatore. Le imprese di Sulli non possono essere riassunte facilmente, sono la sua vita, la sua lotta, l'ncomprensione e l'ostilità che incontrò tra i suoi e tra gli altri, gli appartenenti alle popolazioni superiori dei Badaga, dei Toda e dei Kurumba. Eppure, infine, Sulli vinse la sua battaglia. I Kota continuarono ad essere Kota, non persero quella seconda identità collettiva di popolo, forse di "nazione", ma cominciarono a cambiare costumi ed abitudini, cominciarono a lavorare in modo diverso e con tecniche progredite. Cominciarono ad usare la testa non solo per conformarsi alla propria tradizione ed alla propria etica, ma per vivere in modo migliore.
Non saprei dirvi come stiano oggi le cose, ma è assai difficile che i Kota siano ritornati indietro al periodo pre-Sulli. Potrei anzi scommettere che attualmente vi è qualche Kota, istruito nelle scuole indiane, che lavora a casa sua, per poche rupie, con un portatile e molto software fornito da qualche multinazionale. Quello che a noi pare un miserabile esempio di sfruttamento nel mondo globalizzato, apparirà al giovane Kota come un grande successo. Egli penserà che i suoi antenati lo guardano con orgoglio e che anche Sulli, posto che non si sia reincarnato in qualche forma superiore, si compiace di aver seminato bene. Il nostro giovane Kota potrebbe anzi essere convinto di essere lo stesso Sulli reincarnato, portatore di un karma abbastanza positivo e orientato a ricevere ulteriore illuminazione sul senso della vita.
Terminato il lavoro, il giovane Kota, dedica molto tempo all'educazione dei fanciulli Kota e aiuta i maestri elementari con corsi di informatica per gli scolari. Ha sposato una Badaga di razza superiore, ma non superiore di casta, sia per evitare complicazioni sociali, sia perché era semplicemente innamorato di quella tipa lì e non cercava di meglio.

Il succo di questa storia narrata da Mandelbaum è che anche in una popolazione umana di infimo rango, ma pur dotata di qualche qualità (la sensibilità musicale), può nascere un riformatore stimolato sia dall'esterno, cioè dall'osservazione di quanto accade nelle altre società, sia dall'interno, cioè dal riconoscimemto di avere in sé stessi potenzialità e qualità in grado di portarci a qualche miglioramento. Non è dunque una questione di razza, e nemmeno di geni, ma una propensione dell'uomo in quanto uomo. Ma lo studio di Mandelbaum porta anche ad altre conseguenze, porta cioè a riconoscere che l'insieme degli individui che componevano la "nazione" Kota era fermamente ostile ad ogni cambiamento e che l'insieme delle nazioni confinanti, Badaga e Toda in particolare, era del tutto contrario agli esperimenti sociali propugnati da Sulli. Il che significa che gli uomini, proprio in quanto uomini continuano a vedere in ogni cambiamento una minaccia, a confondere l'ordine cosmico con l'ordine sociale senza rendersi mai conto che qualsiasi ordine che neghi la dignità dell'uomo non è né cosmico, né veramente sociale, ma solo fondamentalmente ed inequivocabilmente ingiusto. Devo dire che di fronte a questi fatti, ho proprio scritto fatti, non posso nascondere che sono diventato, non un pessimista antropologico, ma un antropologo pessimista.
In tutte le civiltà, a tutte le latitudini, in tutte le epoche, l'uomo medio si è rivelato spesso e volentieri come un essere assai poco razionale ed assai poco aperto. Ha fatto scarsamente uso della sua intelligenza e del suo potenziale e, quando l'ha fatto, ha per lo più perseguito obiettivi dissennati di dominio.
L'antropologia ci può condurre quindi a conclusioni pessimistiche e siccome, per la mia parte, non posso che dirmi pessimista, mi sento di dover concludere con un consiglio: cedere al pessimismo è la peggiore delle cose che ci possa capitare. La democrazia e l'uguaglianza dei diritti non saranno vangelo, ma sono tuttavia la sola opportunità che abbiamo per migliorare la nostra condizione e la nostra capacità di formare scienziati, antropologi, artisti e filosofi in grado di aiutare quel cazzo di uomo medio ad uscire dal suo conformismo e dal suo cieco egoismo. Od anche dal suo cieco altruismo.

Non credere di cavartela con così poco!
Sì, d'accordo, a tutto quanto detto finora manca qualcosa di essenziale. Non ho per nulla affrontato temi quali l'archeologia, lo studio dei miti, della magia dello sciamanismo e delle religioni, le stesse filosofie orientali, le quali poi, secondo molti, ed anche secondo me, ci guardano sorridendo sprezzantemente se proviamo a trattarle come materiale fossile e residuale di civiltà passate. Ciò potrebbe voler dire che il luogo 'antropologico' non è il più adatto per affrontare temi quali la metafisica indù, il buddhismo, lo zen, il confucianesimo e le dottrine di Lao Tsu. Tuttavia, poiché esse derivano in diversi modi da una mitologia preesistente, ad esempio, per quanto riguarda l'India, da grandi poemi epici quali Ramayana e Mahabarata, e anche da testi quali i Veda, non potremmo sottrarci, in definitiva, alla necessità di un confronto con le stesse filosofie orientali, filosofie che sono alla base, molto spesso, degli insegnamenti spirituali che tanti guru, tra cui non mancano i cialtroni peraltro, cercano di propinare agli occidentali come terapia dell'anima.

Testi: il pene scarificato e "arrabbiato" dei Mehinhaku
Che bisogna leggere per cominciare ad occuparsi di antropologia? La bibliografia comincia ad essere imponente e non vorrei far torto a qualche opera importante. Mi limito ad alcune indicazioni iniziali. Quelli che ci seguiranno, troveranno via via, altre segnalazioni.
Un buon ripasso delle Origini dell'uomo di Darwin mi sembra in ogni caso preliminare. E il codice Darwin di Biondi & Rickards ha il pregio di presentare un aggiornamento del tutto in linea con la teoria darwiniana. Per quanto attiene ai fondamenti dell'antrologia vittoriana, il testo segnalato a cura di Ugo Fabbietti, Alle origini dell'antropologia, possiede il pregio di tutte le antologie. Consente di farsi un panorama del dibattito che inaugurò il sorgere della disciplina partendo da una presentazione tanto essenziale quanto ricca di indicazioni. Un testo di Francesco Remotti, Prima lezione di antropologia (Laterza 2000), pare particolarmente indicato ad orientare quei giovani in cerca di un indirizzo universitario adeguato alle loro aspirazioni. Remotti insegna a Lettere e filosofia a Torino e può stimolare molti residenti nel Nord Ovest a scegliere quella facoltà. Ma il testo può tornare prezioso anche a chi ha ormai deposto ogni velleità accademica e si propone solo di arricchire le proprie conoscenze. Oltre ad una parte teorica piuttosto densa che prova a definire l'antropologia, com'è ormai vezzo, anche come metaantropologia, cioè come riflessione sull'antropologia stessa, il libretto si concede qualche importante escursione nella ricerca antropologica vera e propria. Ho trovato di estremo interesse il III capitolo del libro intitolato Fare umanità e ne consiglierei la lettura a chiunque. Remotti ci insegna, ad esempio, che in molte società primitive lo status virile è sia una conquista che un'ossessione. I Mehinhaku dello Xingù, Brasile, si sono creati grandi problemi con l'assillo da prestazione sessuale. «La paura dell'impotenza e della scarsa virilità sessuale li induce a strofinare sul loro membro particolari sostanze vegetali e animali, e a inciderne la pelle procurandosi dolorosi scarificazioni. Tutto ciò serve a rendere il pene "arrabbiato" e a evitare che diminuiscano le proprie prestazioni sessuali: ci vuole infatti poco perché la fama di "veri uomini" crolli miseramente.» (5)
Il modello Mehinhaku è una dittatura etica, con aspetti di totalitarismo impressionanti. Il giudizio delle donne, il gossip tra comari, il mobbing al femminile nei confronti del malcapitato maschio Mehinhaku sembra avere avuto successo al limite della paranoia, al punto che chi tra i maschi si ribella a questa dittatura della sessualità, rinunciando così ad essere virile secondo i severissimi canoni descritti, si ritrova relegato nell'immondezzaio del villaggio, come "scarto" sociale.
Remotti, per la verità, mette le stesse donne in secondo piano, relegate nella vita domestica, come a dire che il modello Mehinhaku è tutt'altro da una società matriarcale governata da api regine. Il che, sotto un punto di vista formale, potrebbe esser vero. La piazza del villaggio è occupata da maschi che si pavoneggiano. Ma la sostanza della questione pare proprio altra. L'ossessione dei maschi è quella di rendersi continuamente gradevoli alle femmine e soddisfare ogni loro desiderio. E' insieme il trionfo di una forma esasperata di narcisismo e la resa incondizionata alla dittatura della sessualità femminile, morbosamente ed eternamente insoddisfatta. Inutile sottolineare che tale 'ridicolo' paradigma non è solo affare da Mehinhaku. Basta guardare a che accade sotto i nostri occhi con tutti questi tizi impegnati ore e ore in palestra, aggrovigliati alla loro copia di Man's Health, la cui lettura procura più angosce che certezze, per capire quanto sia facile 'regredire' ad uno stato patologico 'primitivo' anche in società come la nostra.

1) La citazione è tratta, così come la riporta l'autore, da S. J. Gould - Otto piccoli porcellini - Bompiani RCS 1994
2) Darwin: «Questi poveri rottami umani erano rachitici, avevano facce orbitali imbrattate di pittura, pelle sudicia e untuosa, capelli arruffati, voce sgraziata e gesti violenti. Guardando uomini siffatti si stentava a credere che fossero nostri simili, e abitanti dello stesso nostro mondo. Si fanno spesso congetture sul piacere che possono provare nella vita alcuni animali inferiori, ma con quanta più ragione potremmo porci la stessa domanda a proposito di questi barbari!» C. Darwin - Viaggio di un naturalista intorno al mondo -
3) a cura di U. Fabietti - Alle origini dell'antropologia - Bollati Boringhieri 1980, ristampa 1998
4) G. Biondi - O. Rickards - Il codice Darwin - Codice edizioni 2005 / Mi consento di consigliarne la lettura perché offre il quadro più aggiornato attualmente disponinbile degli studi di antropologia fisica
5) Francesco Remotti - Prima lezione di antropologia - Laterza 2000

gm - 19 febbraio 2006