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Adam Smith (1723-1790)
L'importanza di Adam Smith, nato a Kirkaldy,
Fife, nei pressi di Edimburgo in Scozia nel
1723, è collegata al fatto che egli venne
considerato il primo esponente dell'economia
politica classica, in pratica il fondatore di questa disciplina.
In realtà egli fu allievo di A. Ferguson,
il quale aveva già compiuto una buona parte
di strada, studiando, ad esempio la divisione
del lavoro in Essai sur l'histoire de la socièté civile pubblicato a Parigi nel 1784. E non possiamo
del resto ignorare che a scrivere di economia
politica furono in molti, prima di lui, sia
nell'antichità, sia in epoca moderna, a partire
da Thomas Mun per finire con William Petty.
Notevole importanza ebbero, inoltre, i fisiocratici,
e la stessa importanza di Smith è in parte
dovuta alle critiche ed alle correzioni del
modello fisiocratico. Una notevole influenza
sul pensiero filosofico di Smith fu esercitata
da Hutcheson.
Non va dimenticato, anzi, che Adam Smith
fu anche un filosofo, intimo del fisico Black
e del geologo Hutton, vicino a Hume, e legato
a questi da una amicizia non disgiunta dalla
condivisione delle idee di Hume sull'uomo
e sulla sua particolare natura di essere
socievole, che prova sentimenti altruistici
verso i propri simili.
Anche Smith scrisse un testo al riguardo,
la Teoria dei sentimenti morali, nel quale sostenne che l'altruismo porta
ad agire in vista della maggiore quantità
possibile di felicità per tutti. Come Hume
sottolineò l'importanza della simpatia, la quale, con termine moderno, diviene
facilmente empatia, ovvero una tendenza a mettersi nei panni
degli altri, a vivere e rivivere le loro
situazioni, e ci consente quindi di formare
una coscienza morale estesa.
Ma in Smith rimase l'idea di Dio come giudice
supremo, a differenza di Hume. Egli pertanto
non si servì delle idee sulla coscienza morale
di Hume per fondare un'etica indipendente
dalla religione e dalle credenze tradizionali
e tramandate.
Studiando l'economia, Adam Smith seguì una
teoria del tutto diversa da quella avanzata
nel saggio sui sentimenti morali.
Siamo ovviamente ad una fase di svolta che
Smith percepì con una certa lucidità, cioè
al passaggio da un'economia di capitalismo
mercantile, nel quale i capitali, cioè le
grosse concentrazioni di denaro, sono nelle
mani dei mercanti che acquistano grandi partite
di merci per rivenderle ad un prezzo superiore,
ad un capitalismo di tipo industriale, nel
quale il capitale finanziario serve soprattutto
agli imprenditori per acquistare terreni,
edifici e macchinari per la produzione delle
merci.
Smith notò che l'economia gira, per così
dire, non in forza di sentimenti morali,
ma in ragione dell'interesse individuale,
ovvero il profitto e la ricchezza del singolo.
Ovviamente non è che l'uno escluda l'altro,
che l'uomo imprenditore o mercante sia soltanto
un sordido calcolatore. Tuttavia sia nella
produzione che nel commercio, ciò che conta
è la motivazione al guadagno.
Questa constatazione è di estremo realismo
e fa il paio, tutto sommato, con la più antica
teoria politica di Machiavelli, per il quale
lo scopo della politica è quello di conquistare
il potere e mantenerlo.
Se questo è lo spirito del capitalismo dominante
non solo all'epoca, ma nel tempo, è evidente
che la società umana diviene una realtà dominata
dalla competizione. In essa ciascuno, sia
esso imprenditore, mercante od anche operaio,
mira esclusivamente al proprio vantaggio,
come in una sorta di jungla nella quale o
si mangia o si è mangiati.
Lo scopo dell'operaio è quello di conquistare
un salario più alto. Quello dell'imprenditore
consiste nell'ottenere profitti più elevati.
Tutto ciò da luogo a conflitti, ma lungi
dall'essere una abnormità del tempo moderno,
si tratta, per Adam Smith, di processi del
tutto naturali, conformi alla natura umana.
In un certo senso le leggi dell'economia,
che sono immutabili nel tempo, rassomigliano
a quelle della fisica del tempo di Smith.
Ma Smith andò oltre questo livello di constatazione
e di analisi. Egli osservò altresì, riprendendo
un ragionamento di Mandeville, che nonostante
questa lotta di tutti contro tutti, davvero
quasi per miracolo, la vita economica si
risolve in un vantaggio generale, cioè in
un bene comune. Quando tutti cercano di arricchirsi
il più possibile - secondo Smith - ad esempio,
impiegando il proprio capitale per espandere
la propria attività, assumere dipendenti,
e rafforzare la propria impresa, questo diviene
un elemento di ricchezza comune. E' il lavoro
che crea il lavoro, in sostanza, e permette
di estendere gli scambi.
Per Smith, chiunque agisca in vista del proprio
interesse esclusivo, è come guidato da una
mano invisibile a conseguire uno scopo che
non era nelle sue intenzioni originarie,
ovvero il bene comune di tutta la società.
Sul piano politico si rivela pertanto la
necessità che ognuno sia lasciato interamente
libero di agire come meglio crede; occorre
che lo stato non si intrometta nelle attività
economiche, lasciando spazio alla libera
concorrenza.
Ogni intervento statale rischierebbe di intralciare
il corso naturale delle cose, e quindi di
impedire il raggiungimento del vantaggio
generale.
Siamo dunque all'esplicita teorizzazione
del laissez faire, laissez passer che era già stata presentata dai fisiocrati
francesi. Ma il dato rilevante nel pensiero
di Smith fu la teorizzazione della divisione
internazionale e geografica del lavoro per
la produzione di merci e la proposta di non
intralciare la libera circolazione di queste
con balzelli doganali e misure per la protezione
del mercato interno alle nazioni. Se, infatti,
veniva giudicato più conveniente acquistare
vino dalla Francia o dalla Spagna, anzichè
produrlo in proprio piantando vigneti sulle
colline scozzesi, era del tutto assurdo scegliere
questa seconda opzione e sovraccaricare il
prezzo del vino con tasse sull'importazione.
In Smith questa analisi assunse anche una
valenza scientifica in quanto venne presentata
come una legge costante della società.
Ovviamente l'analisi non si fermò a queste
considerazioni generali, che peraltro restarono
ad una superficie generica dei conflitti
reali descritti come candidi ed incruenti,
quando invece erano da sempre marchiati da
una avidità senza freno, dalla disonestà
sistematica, da una mancanza di etica del
lavoro e dell'impresa. Entrando nel dettaglio,
Smith sviluppò un'analisi dei processi reali
che portano alla divisione del lavoro, alla
circolazione della moneta, alla formazione
dei prezzi e dei salari, alla determinazione
del profitto e della rendita fondiaria che
ancor oggi sono alla base di qualsivoglia
teoria economica.
Sia la distinzione tra prezzo naturale, ovvero
il semplice costo di produzione di una merce,
e prezzo di mercato, ovvero la legge della
domanda e dell'offerta, che quella tra valore
d'uso e valore di scambio, risalgono a Smith,
anche se la seconda distinzione era già stata
avanzata da Aristotele.
Il punto di maggiore importanza nell'analisi
di Smith, che sarà poi ripreso anche da Marx,
sta nell'aver compreso che l'autentico valore
fondante dell'economia capitalistica non
è il denaro, come credevano i mercantilisti,
nè le risorse naturali, in particolare la
terra, come sostenevano i fisiocratici, ma
il lavoro umano indispensabile alla produzione.
Per un approfondimento del pensiero economico
di Adam Smith vedi queste schede a cura di
Guido Marenco:
Premessa all'economia politica classica
Adam Smith e la critica al mercantilismo
moses - 11 luglio 2001
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