LE ORIGINI

È compito piuttosto arduo cercare di individuare il periodo in cui si siano costituiti i primi insediamenti abitativi. In attesa che ricerche archeologiche e storiche coraggiose, pazienti e fortunate (la Fortuna in molte circostanze si rivela magna pars nelle azioni e nei comportamenti umani), contribuiscano a diradare il buio in cui per tanti secoli è stata immersa la storia delle prime colonie stabilitesi nelle nostre zone, non è ipotesi pellegrina e lontana dal vero affermare che la nostra comunità ha una storia più che millenaria (e ciò è attestato indirettamente da numerose fonti) e che i primi nuclei abbiano scelto il "monte acuto", sia perché non era sfuggita loro la posizione estremamente strategica del luogo, ben protetto dalla natura stessa; sia perché il suolo offriva il necessario per vivere; sia perché dalla sommità potevano controllare e dominare tutte le zone circostanti. Nello stesso tempo altri nuclei si stanziarono a valle - lungo il torrente Salceto - in un'altra zona, altrettanto strategica, perché difesa alle spalle dalla montagna e di fronte dal torrente e da una serie di dirupi e di anfratti che rendevano il luogo poco appetibile e inaccessibile. A tutto questo va aggiunto che da quelle parti vi è abbondanza di acqua, e ciò non è affatto trascurabile se si pensa che allora bisognava resistere per lungo tempo agli assedi nemici e l'acqua era la ragione principale di vita.

Al di là di quelle che sono le congetture più o meno attendibili, la nostra terra è menzionata per la prima volta in un importante documento che risale al tempo dell'episcopato di Giovanni I, vescovo di Bovino, nel quale si afferma che Montaguto veniva eretto a parrocchia ed era uno dei paesi della diocesi di Bovino: siamo intorno al 950. La nostra terra, dunque, esisteva già da qualche tempo e per fregiarsi, allora, del titolo di "parrocchia" doveva avere un numero piuttosto consistente di persone e abitazioni.

L'esistenza di Montaguto poi è indirettamente attestato da un atto di donazione del Casale di Sambuceto fatto nel 1179 dal conte Roberto III Loretello al vescovo di Bovino, Pandolfo.

Nella descrizione dei confini di detto casale si afferma:

"Concediamo e doniamo il nostro Casale di Sambuceto definito nei suoi confini e sono questi: dalla parte di sotto scorre il fiume Cervaro, da un lato sale per il vallone degli elci fino alla Serra dove è ,la via per la quale si va a S. Angelo di Orsara e avanza per detta via fino all'inizio del vallone delle Signore che è vicino Monte Acuto e scende per detto vallone e arriva a Cervaro".

L'anno successivo, trovandosi il Conte Roberto a Dragonara, piccola località della Puglia (ora distrutta) e ricevendo l'omaggio del vescovo Gisone II che tra l'altro gli prospettava la povertà sua e quella della chiesa di Bovino, volle essere ancora più magnanimo: concesse al vescovo la decima di tutta la bagliva di Bovino e delle altre terre della Diocesi. Gisone ottenne la conferma nel 1184 da Guglielmo II il Buono.

Nel documento che riporta l'elenco di tutti paesi della diocesi e questa volta è citato espressamente anche Montaguto.

Roberto III, constatato che i Casali si andavano spopolando e impoverendo, accarezza l'idea di ripopolarli concedendo ai coloni prerogative e diritti quali l'uso del libero pascolo, della legna, della derivazione delle acque; ma tutto ciò non poteva bastare, anche perché i prodotti del lavoro venivano in parte assorbiti dalle prestazioni al feudatario. Malgrado ogni tentativo le campagne divennero deserte e quindi insalubri e inabitabili.

È a questo contesto economico e sociale che si deve riportare la decadenza anche del Casale di Sambuceto, i cui abitanti, dopo la distruzione della loro borgata, si trasferirono nella vicina Montaguto. Dove costruirono nuove abitazioni circondandole con mura per difendersi dai nemici.

Da allora - ora sono più di 700 anni - il Casale di Sambuceto dorme nell'oblio e nella dimenticanza, conservando geloso nelle viscere della terra i segni, le caratteristiche, gli aspetti, i documenti, gli oggetti di una delle prime forme della nostra civiltà contadina e pastorale.

 

EVENTI STORICI DAL 1200 AL 1500

La storia feudale di Montaguto fino agli albori del 1500 è strettamente collegata a quella della Baronia di Flumeri della quale costituisce uno dei castelli e ne segue il destino e le sorti, il più delle volte miserande.

Nel 1200 è signore Riccardo di Flumeri, poi la famiglia d’Aquino. Nel 1269 è nelle mani di Ada De Bruveriis e successivamente in quelle di Marcuccio Aiossa.

Nel frattempo, Montaguto con altre terre della Baronia, era stato assegnato dal re Roberto D’Angiò alla regina Sancia, sua moglie per lo spillatico (danaro o beni che il marito dava alla moglie per le "piccole" spese personali).

Roberto D’Angiò conservò queste terre fino al 1343, anno in cui furono vendute a Raimondo del Balzo, conte di Avellino, il quale, non avendo figli, adottò il secondogenito del conte di Nicola Roberto Orsini e di Sveva Del Balzo, sua sorella.

Questi si chiamava Nicolò Orsini che dal momento dell’adozione assunse anche il cognome Del Balzo e nel 1375 ereditò i feudi di Raimondo.

A Nicolò seguì nel 1418 Ramondello, principe di Taranto, al quale la regina Giovanna II confermò la baronia di Vico, Flumeri … Monteacuto, Accadia, Minervino, Altamura…

Il 2 settembre 1431 viene dato il consenso regio al matrimonio tra Giovannella Caracciolo, figlia del siniscalco Sergianni, e Gabriele Del Balzo Orsini, fratello del principe di Taranto. Mentre Sergianni assegnò alla figlia 10.000 ducati di dote e molto argento, oro lavorato e pietre preziose, il Principe fece dono al fratello di molte terre e castelli, nei quali era compreso Montaguto.

Il 7 giugno 1454 Alfonso I, re di Napoli, ordina che tutti i vassalli soggetti alla giurisdizione dei Del Balzo Orsini prestino assicurazione di fedeltà a Maria Donata del Balzo Orsini, figlia primogenita ed erede del defunto Gabriele del Balzo Orsini.

Il testo originale latino conservato nell’Archivio di Stato di Napoli sottolinea che il re Alfonso I accondiscese alla richiesta di Maria Donata, "in considerazione anche degli ingenti servizi" offertigli dal magnanimo Giovanni Antonio del Balzo Orsini, Principe di Taranto e da Gabriele, padre di Maria Donata.

Quest’ultima sposò Pirro Del Balzo, dal quale ebbe due figlie: Isotta, che sposò Pietro dé Guevara, marchese del Vasto, conte di Ariano e gran siniscalco del Regno; e Isabella che andò sposa nel 1483 a Federico d’Aragona, secondogenito di Ferdinando I: fu lei che nello stesso anno, fra gli altri, ebbe in dote anche il feudo di Montaguto.

Dopo la congiura dei baroni, il 1° giugno 1487, a Federico era stata concessa dal Re la Castellania delle terre di Pirro del Balzo che il Re possedeva in conseguenza della clausola, stabilita negli accordi di pace con i baroni, secondo la quale questi si impegnavano a cedere al re la guardia dei loro Castelli. Poco tempo dopo (30 giugno 1487) il Re affidava l’incarico ad Antonio de Gennaro di procedere ad assicurare i vassalli di Federico nelle terre assegnate dal padre alla sposa, che erano Acerra, Minervino, Montemilone, Lavello, Lacedonia, Flumeri, Rocchetta, Vico, Castello, Carife, Santa Maria, Pulcarino, San Sossio, Vallata, Guardia, Montaguto.

Con diploma dato in Napoli il 3 agosto 1487 anche la Baronia di Vico e Flumeri insieme ad altre città e castelli furono assegnati a Federico.

L’anno seguente Fderico fece ritorno ad Andria in Puglia, dove assistette alla nascita di suo figlio Ferrante (17-12-1488).

In questo burrascoso periodo storico, sul finire del 1400, in seguito alla discesa del francese Carlo VIII in Italia, le nostre popolazioni, nella speranza di scrollarsi di dosso le vessazioni alle quali erano continuamente sottoposte ora dall’una ora dall’altra parte, si schierarono con i Francesi, ma bastò che il Marchese di Mantova, Francesco Gonzaga arrivasse dalle nostre parti e prendesse con la forza qualche castello "perché tutti i popoli spaventati, cioè gli habitatori di Vicobisaccia, di Carife, delle Guardie, di Cività Santo Angelo, ritornarono a ubidienza de gli Aragonesi. Il medesimo poco dapoi fecero Pandinesi, e Montecutani; e con una sola, e molto presta fattione s’aperse tutta quella strada …".

E’ da evidenziare che di tutta la baronia di Flumeri, soltanto "quattro piccoli Castelli, cioè Flumeri, Zungoli, Percarino et la Grota" parteggiavano per gli Aragonesi. L’avversione di gran parte dell’Irpinia agli Aragonesi non trova altra spiegazione che nello sfruttamento continuo al quale erano sottoposte queste terre. Tale odio era poi ancora di più alimentato dal comportamento di alcuni feudatari che rendevano lo sfruttamento tanto odioso e pesante da spingere all’esasperazione.

Il re Ferdinando I aveva concesso qualche privilegio, ma qualche sporadico atto di benevolenza non era sufficiente ad allontanare dal cuore delle popolazioni un odio sempre alimentato e mai sopito.

Ma la ragione, come spesso avviene, cede alla forza e il marchese Gonzaga, venuto in aiuto degli Aragonesi, nel giro di pochi giorni, riuscì a riportare l’ordine nella baronia di Flumeri e in altri luoghi tra l’Irpinia e la Puglia.

Giuseppe Coniglio, un attento studioso degli eventi di quel tempo afferma che il Marchese Gonzaga il 6 maggio del 1496 "si spostò verso Vallata, che conquistò d’assalto e trattò con grande severità. Gli abitanti di altri centri, spaventati, pensarono di arrendersi, come fecero quelli di Carife, Trevico, Castel Baronia, Bisaccia, Guardia Lombardi, Lacedonia, Orsara, Montaguto. Successivamente il Gonzaga ritornò a Lucera, dove il 17 maggio concentrò il suo esercito, che presentò al re".

Le operazioni così vengono descritte in due lettere che lo stesso Francesco Gonzaga indirizzava, la prima alla sua "amatissima moglie" alla quale confida:

"Da poi acquistata la terra de Pandi… ve havemo significato… noi se inviassimo alla volta de l’Orsara… dove ne vennero incontra li sindaci de Monteacuto, portandone le chiave de la terra… Datum Lucerie XVIII MAIJ 1496".

E nell’altra al Signor Floriano Dolfo, giureconsulto bolognese con importamti incarichi presso la repubblica di Venezia, così si esprimeva:

"… noi se trasferessimo alla Baronia de Flumere, la qual tutta acquistassimo in quattro giorni, dando una asperissima bataglia ad Vallata, la qual expugnata misimo al sacho cum occisione de più de 250 persone, … el che fo tanto spavento che tutto il resto, col maggiore timore del mondo, retornarono alla pristina Regia devotione, et ultra de questo, Monteleone, Pandi, et Monteacuto lochi ultra la fortezza assai de importantia, per avere via expedita di Napoli, dove prima non se posseva andare…". La lettera è datata 28 giugno 1496.

L’atto di sottomissione dei sindaci montagutesi è un gesto tutt’altro che isolato, in quanto i documenti del tempo, tanto più attendibili, perché provenienti da fonti diverse e da testimoni disinteressati, evidenziano in molti casi proprio l’atteggiamento avvilente dei Sindaci di vari paesi che, "tremando cum le chiave in mano e col maggiore timore del mondo" si recano dal vincitore per "domandar misericordia" come se si fossero resi colpevoli di grandi reati.

Come se non bastassero le disgrazie e le miserie provocate dagli uomini, di tanto in tanto i nostri antenati vengono colpiti da calamità naturali, carestie, pestilenze.

Epidemie si ebbero a più riprese nel 1340, nel 1348, nel 1458.

La cenere del Vesuvio arrivò dalle nostre parti, a memoria d’uomo, per la prima volta nel 1139, a seguito dell’eruzione di detto vulcano.

Di terremoti si ricordano quello del 3 dicembre 988 allorché "in Ariano e Fricento" i danni furono molti, due nei secoli XIII e XIV, due a distanza di dieci anni l’uno dall’altro nel 1456 e nel 1466.

Non mancano le cavallette: difatti il cronista Matteo Spinelli di Giovinazzo, tra gli eventi e le calamità del 1250 annota:

"Chisto anno foro li grilli et consumaro omne cosa".

Ad esse segue nel 1269 una terribile carestia, durante la quale in tutto il Principato Ultra e nel Meridione la gente muore di fame ed è costretta a pagare le milizie armate per difendersi da briganti e nel 1304 a causa di una terribile peste le verdi sementi del frumento e dei legumi furono bruciate ed essiccate.

Il 1269 è anche l’anno in cui si ha notizia di persecuzioni religiose: infatti in un documento del 12 agosto viene riportato un elenco di eretici che devono essere subito arrestati. L’eresia professata da questi ricercati dovrebbe essere quella dei Catari o dei Patari che si era diffusa anche in Puglia e dalle nostre parti, tanto è vero che Carlo d’Angiò con decreto dell’11 marzo 1269 da Foggia, dava disposizione al Giustiziere di principato Ultra per l’incameramento dei beni mobili degli uomini della Ferrara e delle Terre circostanti.

 

MONTAGUTO DAL 1500 AL 1700

Smembrata la Baronia di Flumeri e divenuto re Federico d’Aragona, incoronato a Capua il 26 giugno del 1497, del feudo di Montaguto ebbero l’investitura i fratelli Agostino e Giovanni Adorno di Biella, poi la famiglia De Bernardo e nel 1562 una Cornelia de Bernardo lo portò in dote a Giovanni de Sato; dalle mani di Cornelia il feudo di Montaguto finì in quelle di un altro de Bernardo, Consalvo Ferrante, che, però, non riuscì a tenerlo a lungo, in quanto perseguitato dai suoi creditori poco generosi che nel 1576 lo espropriarono del feudo, facendolo mettere in vendita dal Sacro Real Consiglio. Se lo aggiudicò Francesco de Bernardo, parente del Consalvo, per la somma di circa 8500 ducati.

Verso la fine del ‘500 ebbe il dominio e la signoria del feudo di Montaguto la famiglia Bauci-Orsini, con la quale Montaguto ebbe il riconoscimento di feudo nobile.

Agli inizi del 1600 divennero signori delle nostre contrade i fratelli Ferdinando e Nicolantonio Capace-Zurolo che ebbero la potestà di fregiarsi del titolo di principi di Montaguto.

Intorno al 1550, essendo viceré di Napoli il duca di Alcalà, nelle nostre terre si ebbero eventi straordinari: peste, terremoti, persecuzioni.

A proposito di persecuzioni religiose, in una delle missive inviate nel 1564 dal cardinale Ghisleri, futuro papa Pio V capo dell’Inquisizione, al gesuita Cristoforo Rodriguez, incaricato di indagare e prendere gli opportuni provvedimenti sulla diffusione della dottrina protestante a Montaguto e Monteleone, si afferma "Può essere intorno ad un anno che un Petruccio Cola da Monteleone mi scrisse una lettera, dove mi dava informatione d’alcune cose pertinenti alla religione che passavano in quei paesi. Questa lettera che io non ho avuta altrimenti, egli mi dice, che fu trabalzata in potere delli uomini di Montaguto, da un donno ( = signore) Ottolino Cella, d’Aquadia, che la pigliò in casa di un Giovanni Alfonso Volpe, servo dell’arciprete di Monteleone e che di questo sono informati Pietro Copola et Francesco Culeri da Montaguto e Giovanni Culeri da Monteleone".

Non è dato sapere se l’adesione al protestantesimo fosse determinato più da scelte di carattere morale e da convinzioni religiose che da un disorientamento degli animi e delle coscienze dovuto a situazioni di natura politico-sociale, dato il cattivo governo della cosa pubblica.

Tra il maggio e l’agosto del 1656 una nuova terribile pestilenza si abbatté sul regno di Napoli e non risparmiò nemmeno piccole comunità come quella di Montaguto che con il censimento del 1669 fu tassato per soli tre fuochi (meno di quindici abitanti), mentre per gli anni precedenti le famiglie residenti erano state di molto più numerose e precisamente 52 nel 1532, 64 nel 1545, 62 nel 1561, 64 nel 1595, per scendere a 29 nel 1648 che è l’anno della conclusione della guerra dei Trent’anni e ciò spiega il sensibile calo, saranno 49 nel 1732, dopo il ripopolamento promosso dal principe Luigi Pinto.

La peste, dunque, distrusse quasi interamente la popolazione di Montaguto o, quanto meno, la costrinse a disperdersi in località diverse nella vana speranza di scampare alla morte quasi sicura. I pochi sopravvissuti, tuttavia, di tanto in tanto facevano ritorno nella loro terra e vi tenevano periodiche riunioni per non vedersi privare dei diritti di comunità.

Nel 1627 un violento terremoto sconvolse ancora una volta le nostre contrade, apportando lutti e rovine. Quattro anni dopo, un’eruzione del Vesuvio, provocò una nube di cenere che per diversi giorni, dal 16 al 27 dicembre cadde sulle nostre terre.

Nel novembre del 1689 su richiesta del principe di Montemiletto, venne concesso al dottore Gaetano Fortunato di esercitare per un altro anno l’ufficio di governatore nei feudi di Montemiletto, Torre Nocelle, Montefalcione, Fontanarosa e Monte Acuto, avendolo già tenuto "con tutta integrità e rettitudine".

Essendo morti, i Capace-Zurolo senza lasciare eredi diretti, il feudo di Montaguto, secondo le ferree leggi del tempo, fu incamerato dalla Corona.

 

IL SETTECENTO MONTAGUTESE

Il XVIII secolo trova Montaguto nelle mani di una nuova famiglia di feudatari; si tratta dei Pinto y Mendoza che l’acquistarono con il principe Luigi su stima redatta dal tavolario Mario D’Urso che, non senza una certa esagerazione, concludeva la sua relazione con queste paeole: "La Terra di Montaguto al presente è tutta diruta, senza abitazioni di vassalli, ed è ridutta ad un montone ( = mucchio) di pietre. Vi stava situato in detta terra il Palazzo Baronale con una chiesa sotto il titolo di San Giovanni Battista. Al presente sono tutte dirute, non essendovi rimasto altro che alcune pietre in piedi".

Luigi Pinto si diede subito alla ricostruzione del paese al quale pensò di dare una nuova conformazione abitativa. Se fino a quel momento l’accesso era avvenuto dalla parte di mezzogiorno attraverso Portone Vecchio, ora si entrava per il Portone Nuovo che si trova all’ingresso di Piazza Antica, di fronte alla chiesa dalla parte di occidente.

Del Portone Nuovo, ai giorni nostri, si conserva solo la testimonianza in una iscrizione su pietra del 1704, essendo stato demolito nel 1830.

Il principe Luigi Pinto non si limitò alla sola ricostruzione del Paese, ma legò il suo nome anche ad un palazzo munito di scuderia, carcere e posto di guardia che si affacciava su via Villa; alla chiesa, che fu poi portata a termine con il contributo spontaneo dei cittadini e con la rinuncia da parte del vescovo di Bovino alla decima; ad una Taverna sulla via Nazionale delle Puglie; ad un mulino ad acqua che era detto "del Marchese" in contrada Fiego. Contribuì, infine, alla realizzazione di una strada rotabile che attraverso le contrade Masseria di Pizzella, Serro di Luca, Fontanelle, Piano delle Sorgenti, Fosso di Vito, aia di don Saverio, Molino Vecchio, portava alla Nazionale.

Il feudo di Montaguto fu popolato da famiglie fatte venire dai paesi vicini e da allora si ebbe un sensibile e costante aumento della popolazione che fece annoverare la Nostra Terra tra le Università del Regno.

Proprio in considerazione del ripopolamento avvenuto in almeno due momenti successivi nel corso del 1700 il Vescovo di Bovino Ceraso dispose l’invio di un sacerdote per l’amministrazione dei sacramenti nella persona di don Marco Antonio Spadafora di Avellino, anche se un altro Vescovo, il Lucci, si lamenterà delle disagiate ed estremamente precarie condizioni economiche della Parrocchia di Montaguto.

Essendo morto il suo unico figlio maschio, Luigi Pinto rinunziò definitivamente a ritornare a Montaguto, cedendo il feudo al fratello Gregorio, tesoriere generale e governatore della regia cassa militare del Regno di Napoli.

Fu proprio con i due fratelli Pinto che si deteriorarono ulteriormente i rapporti con la diocesi di Bovino; rapporti che per la verità non erano mai stati buoni se è vero che numerosi vescovi erano stati seriamente impegnati nella difesa e nella rivendicazione dei diritti della chiesa contro le inveterate ingerenze e i ricorrenti soprusi di alcuni baroni, primi fra tutti i principi di Montaguto.

Gregorio Pinto y Mendoza, tra l’altro, considera suo diritto non solo la nomina del curato economo e l’esazione delle decime prediali ecclesiastiche che dal 1700 fino alla costituzione della arcipretura nel 1735 costituiscono l’unica rendita della Chiesa di Montaguto, ma di esse ne trattiene tre parti "col pretesta che dà sei ducati al mese all’economo, non riflettendo che questa somma la deve dare per un altro titolo, ossia per la messa quotidiana che l’economo celebra in una sua cappellania…". La controversia si protrasse per diversi anni, in quanto si compose con reciproca soddisfazione soltanto con la sottoscrizione dell' Istrumento di fondazione dell’arcipretura del 30 maggio 1735 con il quale il vescovo concedeva al principe il giuspatronato e questi assegnava al parroco pro tempore la consegna di 60 scudi, più altri dieci per il mantenimento della fabbrica della chiesa e riconosceva che "le decime, proventi, limosine, obbligazioni, tasse di funerali, di matrimoni e cose simili de jure spettano alla chiesa e ai loro parroci".

Il principe Gregorio aveva occupato indebitamente anche il feudo di Sambuceto che apparteneva alla Mensa Vescovile di Bovino fin dal 1179, approfittando dello stato di salute del predecessore del vescovo Lucci, che per lunga vecchiaia era "inabile a più invigilare per se medesimo agli interessi della mensa e sprovvisto di buoni ministri".

La causa civile, che si trascinò stancamente per altri dieci anni presso il Sacro Regio Consiglio di Napoli si concluse con una transazione nel 1741, obbligandosi il principe di Montaguto al pagamento per una sola volta della somma di cento ducati per il tempo passato ed di 50 ducati l’anno per il futuro in perpetuo alla Mensa vescovile.

Morto il principe Gregorio Pinto il feudo di Montaguto fu ereditato dalla figlia Barbara che era andata sposa al duca di Acquara.

Ultimi principi di Montaguto furono gli Spinelli nella persona di Cristina Spinelli, principessa di Cariati che, però, si fece rappresentare di tanto in tanto in questo suo feudo dalla sorella principessa di Belmonte.

Pur avendo percorso le orme dei suoi predecessori nell’esosa amministrazione di Montaguto, la principessa Cristina Spinelli ebbe il merito di aver consentito ai cittadini montagutesi di costruirsi case di abitazione: difatti in un giudicato del 1780 si afferma che è "permesso ai cittadini della Terra di Montaguto previa licenza della illustre principessa fabbricare case per loro uso, pagato che essi abbiano il canone di grani ovveri di assi quindici per ogni superficie di trenta palmi quadrati".

Nel 1772 i montagutesi si rivolsero al Sacro Regio Consiglio chiedendo di essere esonerati dal pagamento delle decime, dal momento che al Parroco veniva già corrisposta una congrua annua di settanta ducati.

L’istanza,tra l’altro, conteneva la seguente dichiarazione dalla quale si evincono le tristi condizioni economiche e sociali delle nostre contrade "… certamente ognun vede che troppo deplorevole è la condizione dei montagutesi. Dopo di aver essi esposto se stessi al caldo e al gelo e sparso il loro sudore per tutto l’anno in coltivare i campi per trarne gli alimenti, vengon torsi di bocca con infinito cordoglio i frutti del loro lavoro". Le rimostranze vengono prese per buone e le giuste richieste accolte con decreto reale del 25 luglio dello stesso anno.

 

GLI EVENTI DEL XIX SECOLO

Il secolo XVIII si chiudeva nell’Italia meridionale con un grande evento, la Rivoluzione partenopea del 1799; il nuovo secolo si apriva all’insegna di avvenimenti altrettanto importanti e rivoluzionari.

I fermenti rivoluzionari repubblicani del 1799 raggiunsero anche la nostra Terra; di essi è testimonianza certa e dettagliata in un atto notarile del 21 settembre del 1799, ora nell’Archivio di Stato di Lucera, dal quale risulta che, costituitasi la municipalità, ne assunse la presidenza Don Luigi Iagulli e la "esercitò finché la sedicente repubblica svanì", il fratello Ferdinando Iagulli, notaio, esercitò la carica di municipale insieme all’arciprete della stessa Terra Don Domenico Spinelli, mentre il reverendo don Raffaele Andreano rispose che la carica di municipale "non si uniformava al suo carattere sacerdotale e perché fu minacciato di fucilazione finse di accettare per allora, ma in tutto il tempo della sedicente Repubblica mai volle inserirsi. Cosicché cadde nello sdegno di detto presidente Iagulli e dei municipali per cui ebbe a soffrire carcerazione, saccheggio e fu vicino ad essere fucilato, come svelato regalista. Per segretario di detta municipalità fu proposto dal presidente Iagulli, Angelo Pezzella, il quale mai volle esercitare la carica sotto il pretesto di essere ignorante, vecchio e impotente nell’esercizio, per cui si tenne lontano".

Comandante della truppa civica fu nominato Angelo Iagulli, altro fratello del presidente. Capitani furono Isidoro Iagulli e Genovine, i primi due tenenti Domenico Sauchelli e Crescenzo Iagulli "il quale non volle mai accettare e quanto meno accettare la carica". I sottotenenti furono scelti nelle persone di Scipione Iagulli e Giuseppe Borrelli "che oltre ad essere sottotenente faceva anche lo spione della Repubblica cosicché lui guidò la truppa civica ad Orsara per arrestare due regalisti. Infine Ciriaco Evanerio e Liborio Gagliardi ebbero la funzione di sergenti.

E’ in queste circostanze che anche a Montaguto viene eretto l’albero della libertà che aveva un berretto grigio per coronamento e ogni volta che doveva celebrare un matrimonio veniva rinverdito con rami freschi.

Il rituale repubblicano imponeva che gli sposi dovessero ciascuno fare tre giri intorno all’albero della libertà, ripetendo per tre volte lo sposo: "O bell’albero fiorito, questa è mia moglie, io son suo marito!". E la moglie rispondeva: "O bell'albero fiorito io son la moglie, questi è mio marito".

La municipalità di Montaguto ebbe un’esperienza travagliata tanto è vero che dopo breve vita, cessò di esistere nel 1803, tre anni dopo venivano abboliti i diritti feudali.

Sotto il Regno di Giuseppe Bonaparte, con successive leggi del 27 settembre 1806 e 12 gennaio 1807, Montaguto veniva assegnato alla Provincia di Capitanata e vi restava fino al 17 febbraio 1861, quando con un decreto luogotenenziale Eugenio di Savoia Carignano ne prevedeva la riammissione al Principato Ulteriore.

I moti insurrezionali e rivoluzionari del 1848 fecero sentire i loro influssi anche nel nostro paese, dove la mattina del 7 agosto circa trecento popolari armati convinsero l’Arciprete, il Sindaco e il Segretario a unirsi a loro nell’occupazione delle terre della Marchesa Mari, terre che essi ritenevano appartenenti al demanio del Comune. Fallì ogni tentativo di persuasione anzi i rivoltosi costrinsero le autorità a prendere possesso di Taverna Vecchia e Bosco facendo saltare con le zappe le pietre che segnavano il confine tra le due proprietà.

Il 16 agosto, però, il Sindaco fece leggere alla presenza del Parroco dal signor Camillo Spinelli il documento della Commissione Feudale che comprovava la proprietà della marchesa Mari, Anna Olimpia de Ligni di Napoli.

Di lì a poco tempo 40 persone si trovarono imputate nel processo che ne seguì e che fu celebrato a Lucera il 31 gennaio del 1849. Davanti ai giudici gli imputati si difesero affermando che "la Marchesa era stata avvantaggiata dall’occupazione perché le avevano arate le terre".

Del resto fino a giugno del 1850 si era sempre creduto che Montaguto non avesse beni demaniali, né procedimenti connessi a questioni demaniali, nel 1856, invece, dal certificato redatto dal Cancelliere del Comune risultò demaniale quella parte del territorio chiamata Bosco dell’edera che aveva un’estenzione di 240 tomoli.

Nel 1896 il Consiglio Comunale stabilì di far dissodare e concedere in fitto circa 60 tomoli di bosco: venivano, così, realizzati 14 lotti e assegnati in seguito a 14 famiglie possidenti in cambio di un affitto annuo di 19 lire, per cinque anni. L’assegnazione provocò le rimostranze e le proteste dei proletari che ritenevano di essere i legittimi assegnatari. Non potendo, però, far valere legalmente un loro diritto fecero ricorso alla forza e occuparono le terre assegnate. Intervenne la forza pubblica che provvide a qualche arresto: il tutto si concluse con la promessa di assegnazione di altri lotti ai nullatenti.

Nel 1859, ricoprendo la carica di Consigliere distrettuale il notaio Francesco Paolo della Rovere, che negli stessi anni faceva anche parte del Consiglio Provinciale di Capitanata, veniva proposto l’impianto a Montaguto di un ufficio postale, ma essendo sopravvenuti i moti del 1860, si poté raggiungere l’intento solo due anni dopo, con l’intervento di Antonio Pepe, consigliere provinciale.

Tra il 1875 ed il 1876 vennero realizzate numerose opere pubbliche: l’impianto di illuminazione, la costruzione di due nuove fontane, il rifacimento della Chiesa, la sistemazione delle strade interne.

Montaguto non rimase estraneo al fenomeno del brigantaggio che prosperò nel "Vallo di Bovino" divenuto allora tristemente famoso.

Da una relazione del Sotto Prefetto di Ariano del maggio 1863 risulta che nella nostra Terra quattro erano gli individui che facevano parte di comitive brigantesche. Già nel luglio del 1861 lo stesso Sotto Prefetto aveva proposto ai Comuni la creazione di "una squadriglia di campagna per provvedersi alla sicurezza delle messi", ma non fu possibile portare a termine il piano perché le Municipalità non avevano i mezzi finanziari sufficienti per far fronte alla spesa.

Il Governo da parte sua aveva provveduto con legge 5 luglio 1860 all’istituzione in tutti i comuni della Guardia nazionale che doveva essere formata da padri di famiglia, possidenti, negozianti, impiegati di età non inferiore a 30 anni e non superiore ai 55.

Nonostante tutti gli sforzi, però, il Vallo di Bovino fu teatro per diversi anni delle imprese e delle scorrerie di quelli che dalle legittime autorità costituite erano considerati briganti.

Nel 1837, nei mesi estivi, si ebbe il colera che portò ad una vera e propria decimazione della popolazione. I morti venivano seppelliti in appositi cimiteri e in alcuni casi nei luoghi dove morivano. Nel 1867 l’epidemia si rinnovò e anche questa volta i morti furono tanti.

 

IL NOVECENTO

Nel corso del nostro secolo gli avvenimenti di carattere nazionale, (la prima guerra mondiale, il fascismo, le conquiste coloniali, il secondo conflitto mondiale), esercitano una innegabile influenza sulla vita montagutese.

Gli eventi, il più delle volte dolorosi tennero gli animi sospesi, forze produttive vennero sottratte alle normali occupazioni, quasi tutte le famiglie vissero direttamente le tragedie della guerra che scompaginò e alterò le sane e solide abitudini di vita, ognuno visse sconvolto il dramma esistenziale, destinato a rimuoversi nel Dopoguerra, quando si assiste quasi impotenti allo sfaldamento delle famiglie contadino-pastorali.

L’emigrazione esercita nei giovani un irresistibile richiamo e negli anni sessanta la nostra agricoltura subisce un tracollo verticale della produzione e la popolazione attiva subisce una flessione media che si aggira intorno al 65%. L’esodo dei giovani e anche dei meno giovani verso l’estero o le città industriali del Nord, incrementa in misura notevole il peso degli anziani.

Oggi Montaguto è appunto solo un paese di anziani: è questa la triste e amara realtà sulla quale le forze politiche locali e quelle regionali sono chiamate a riflettere e a fornire risposte concrete al fine di ridare fiducia a coloro che aon amore filiale restano ancora legati alla propria terra e vogliono che Montaguto non muoia. Le speranze di sopravvivenza e di rinascita sono affidate al piano per gli insediamenti produttivi (P. I. P.) dello Scalo di Montaguto.

 

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