UNA VITA NON VISSUTA

Montaguto 1918.

L’Italia è in guerra ed in questo scenario si alza il sipario sui protagonisti di questa storia.

Montaguto, dove tutto sa di niente e di poco.

Strade strette con il grigio interrotto da radi ciuffi verdi che spuntano dai muri delle case e dalla pavimentazione ciottolosa di straduzze parallele: un piccolo angolo del grande mondo, posto lì su quel cucuzzolo ornato solo da grandi querce.

In una giornata in cui il cielo era completamente rasserenato, in un pomeriggio di tiepido maggio, intenso di tutti quei colori e sapori che solo il calore di quella stagione può dare, ecco che se ne sta lì, in un campo adiacente la strada a poca distanza dal paese, Emilia.

Intorno, quello sconfinato silenzio della campagna, rotto solo dal vento, che lascia ondeggiare quel piccolo mondo in un turbinio di colori che vanno dal giallo fresco delle ginestre, al rosso appena accennato delle ciliegie, al verde tenero.

Donna schietta, spavalda, baciata dal pregio-difetto della lingua incontenibile. Viso rosato, dove gli occhi color oliva mettevano due ombre ora pensose ed ora soddisfatte, che davano tuttavia grande e singolare espressione al suo viso.

I capelli folti, lunghi fino al collo, col tono cupo del mogano, ma che a tratti sotto gli ultimi raggi del sole risplendevano per caldi riflessi di rame dorato.

Con le sue mani ruvide, ma lunghe e sottili, Emilia sistemò la sua chioma ed intanto alzò gli occhi, portando lo sguardo là dove il sole muore. In quel punto, tra la luce e l’ombra, si profilano due figure maschili di giovane età:

Agostino e Peppino.

Il primo, bello nelle sembianze, ma sempliciotto nel portamento e nel porsi.

Il secondo, claudicante sin dalla nascita, ma più scaltro ed avveduto.

La salutarono, prima con ruvida deferenza e viva simpatia, poi da uomini .giovani e soli con una donna giovane e sola, ebbero a fare della galanteria poco galante.

Ella non si perse d’animo.

Da donna abituata a tenere a bada tutti, reagì con un frasario pesante ed offensivo.

Tra i tre si aprì, con atto brusco e deciso, un turpiloquio e l’Emilia in un momento ferì pesantemente l’orgoglio maschile dei due, quando con disprezzo li insultò, additandoli a mancati soldati per carenze di attributi maschili ed umiliandoli, affermando addirittura che il suo cane era più valido ed efficace di loro.

Qui scattò la rabbia irrefrenabile dei due, che in un lampo, all’unisono, afferrarono con forza la donna, sollevarono le sue semplici vesti, le slacciarono la "purtella" ed irridendola la sculacciarono sul pallido fondoschiena.

La vergogna della donna fu accresciuta dalla vista di altre persone che in quel momento erano di ritorno dalla campagna. Grande fu l’onta subita.

Le ombre della sera cominciarono a scendere sui tre.

Ella arrivò in paese trafelata, con la collera che zampillava da tutta la sua persona. Il paese l’accolse proprio nell’ora del tramonto, quando tutti, persone ed animali facevano ritorno dalla campagna, portandosi dietro i propri rumori ed umori.

Nel cuore di Emilia non c’era pace.

Le urla del silenzio la paralizzavano e nel contempo la scuotevano fin nell’intimo.

Il racconto concitato e confuso al padre Ciriaco, la rabbia per l’oltraggio subito, la sua nuova condizione di donna messa sulla bocca di tutti, scatenarono la furia dell’uomo, il quale fece appello a tutta la sua saggezza, lasciando cadere l’idea di farsi vendetta.

Per il momento la ragione superò l’istinto e si recò nella vicina Orsara per denunciare coloro che avevano violentato l’onore della giovane figlia.

La giustizia iniziò il suo corso, ed il bello ed il claudicante dopo otto giorni furono convocati dal Pretore.

Ciriaco indignato, esasperato, offeso.

Otto giorni non placarono la sua furia, anzi l’alimentarono a tal punto che la ragione soggiacque all’istinto.

Il giorno della convocazione i tepori di maggio sifacevano sentire, il verde era completamente comparso ed il cielo aveva la limpidezza degli occhi di una bimba. Peppino, il claudicante, più scaltro, temendo la vendetta, raggiunse Orsara attraverso la campagna.

Agostino, più ingenuo, percorse la provinciale.

In un punto, detto da "m ‘zzon", si abbattè su di lui la furia omicida di Ciriaco che, comparsogli dinanzi, gli scaricò due colpi di fucile.

Complice la notte e la luna, che col suo chiarore illuminava i poveri resti dello sventurato, con freddezza assoluta, trasportò il corpo esanime su di un cumulo di letame lì dappresso, ed estratti dalla tasca di uno sgualcito pantalone dei fiammiferi, dette fuoco allo stallatico.

Alzando poi il capo fiero, disse forte e senza tremare:

"giustizia è fatta".

Non aspettò che il corpo fosse ridotto in cenere. La corsa fino a casa fu rapida. Un’ altra notte di tormento alimentò il cattivo sonno di Ciriaco che, per un sovrapporsi di pensieri, ricordò tutta la sua vita in breve tempo.

La mattina successiva si annunciava in tutto il suo splendore col sole che ad est faceva la sua comparsa.

Il paese si svegliava. I rumori. I lavori di sempre.

Gennaro iniziò la sua giornata, ripulendo la stalla dal letame. Come ogni mattina lo caricò sull’ asino ed iniziò il suo viaggio verso il letamaio che avrebbe dato vigore al terreno. Giuntovi vicino, l’animale restò impietrito. Gennaro, timoroso, si guardò intorno. Non si spiegava il perché di questo recalcitrare. Avanzò allora da solo per sincerarsi che l’asino non avesse visto qualcosa di strano. Ai suoi occhi, ben svegli dopo il riposo notturno, si presentarono i resti non del tutto arsi di un giovane corpo.

Lo sgomento fu terrificante.

Riguardò ancora in cerca di una risposta, ma il terrore fu tale che abbandonò tutto e corse in paese, spargendo la notizia. Il paese si riempì di voci contrastanti che corsero di casa in casa.

La giustizia fu messa al corrente e nelle persone di Luigi di "Scheca" e di "Ciappittone", gendarmi del paese, iniziò la sua indagine.

Dopo breve tempo fu identificata la vittima e quindi il suo giustiziere che fu subito incatenato e fatto girare per le strade del paese, come esempio per tutti.

Grande fu la sua vergogna nell’essere condotto incatenato per le strade di quel paese che l’aveva visto tante volte baldanzoso e ossequiato.

Enorme fu il dolore nel vedere, attraverso gli occhi della sua gente, la disapprovazione per il suo gesto.

Ed intanto lacrime non piante sgorgavano silenziose e nascoste su quel viso bruno, rugoso, e a tratti assente.

Intorno a lui era tutto un brusio di voci sommesse, dalle finestre semichiuse la gente spiava quel passaggio ed un veloce segno di croce era l’unico gesto che faceva.

A tratti anche il brusio cessò e il rumore delle catene divenne assordante.

Il suo animo era colmo di rabbia, di sdegno per tutto quanto, ed intanto un pezzo del suo cuore sanguinava per quella sua collera malsana.Le strade, prima percorse e ripercorse in breve tempo, ora sembravano interminabili.

I volti: tanti sconosciuti.

Quel cielo: una maschera che sogghignava al suo passaggio. Tutta la fierezza che per anni lo aveva sostenuto, rendendolo certo di un potere che si rilevava inesistente, disparve.

Si sentì piccolo fra i piccoli, esposto come tutte le creature del mondo, al vento dell’oblio, della indifferenza, del disonore.

Vide attraverso le palpebre un chiarore rosso. Pensò al fuoco che aveva divorato la sua rabbia.

Fu condotto in carcere ad Orsara e poi processato in quello di Avellino.

La condanna: sei anni solamente.

Qualcuno stupito malignò che da "possidente" qual era, aveva utilizzato la forza del danaro. Certamente, però, anche la difesa dell’onorabilità della figlia aveva avuto il suo peso.

Ad Agostino, lungo la provinciale che porta al Orsara, nel punto dove la sua giovane vita fu stroncata, una fredda lapide...

 

...nato nel 1894 morto il 28 maggio 1918.

 

Di lì a poco la guerra sarebbe finita e i giovani scampati alla morte sarebbero ritornati in quel mondo, scosso da quel fragore di fucile che aveva fatto come vittima un giovane che la "Patria" aveva rifiutato.

 

                                

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