io-Bouteilles



ENRICA BORGHI - PER UNA POLIFONIA DELL’AMPOLLA


Flaconi,ampolle, boccette. Chi conosce la produzione creativa di Enrica Borghi, artista torinese riconoscibilissima in Europa per la coerenza del suo lavoro ultradecennale con materiali riciclati tra cui carte, plastiche e oggetti in vetro di produzione industriale, non può rimanere stupito davanti alla sua scelta di sviluppare con il vetro soffiato il soggetto “bottiglie”.

Un tema caro all’artista che da sempre lo ha scelto come una tra le più frequenti modalità applicative di repechage. Quella di Enrica Borghi è una ricerca artistica dedita al ritrovare un senso nuovo agli oggetti vecchi o dimessi. Un modo dunque per ritrovare senso ulteriore a quanto è già esistito e ha avuto un suo perchè. E forse potrebbe, con una concezione originale, proporsi in modo rinnovato nell’utilizzo o nella fruizione futura.

La bottiglia, di per sé è già predestinata. Normalmente la sua funzione è quella di essere un contenitore di pregiatezze o preziosità da conservare: acqua, vino, olio, profumo… In questa serie si bottiglie ideata dalla Borghi, prodotta da Adriano Berengo e realizzata con altrettanta organicità, bizzarria e leggerezza dal maestro vetraio Danilo Zanella, natura e artificio, seduzione ma anche fragilità, offrono punti di vista molteplici e variegati sull’oggetto. Sopra le ampolle panciute e delicatissime, con apparente casualità, sono stati adagiati minuscoli ninnoli: piccoli animali e fiori sempre in vetro soffiato che rimandano a lavorazioni delicate come quelle di Luciano Bubacco. Quasi magiche decorazioni che si materializzano tra le superfici tondeggianti degli oggetti-contenitore.

Enrica ha creato nei suoi piccoli microcosmi vitrei un habitat di cristallo, con arbusti (le bottiglie), ripetuti in modo modulare ma sempre diverso, che simulano una foresta luminosa di infiorescenze, quasi ricca di mille pistilli multiformi e multicolori.

La domanda però sorge spontanea. Perché la Borghi ha scelto tra tanta polifonia estetica sul tema della bottiglia, il rifacimento di forme già ben note alla storia dell’arte applicata in vetro? Chi scrive ha scelto di guardare all’opera per tentare di trovare una risposta. Ed è proprio lì, nell’enfasi policromatica e nella ridondanza formale di alcuni orpelli, che si anima la possibile soluzione. La Borghi ha voluto “ripescare”, “reinterpretare”, l’estetica della forma preesistente nella tradizione del vetro soffiato. Questo, per non togliere forza ne’ abbassare il potere espressivo-concettuale dell’operazione. Ha voluto ri-fare, e in questo modo, riciclare, i criteri di autenticità dell’ oggetto originario, per poi porli in un contesto nuovo. In questo caso, all’interno del progetto “Biò”, l’installazione artistica di una camera composta da oggetti di provenienza solo ed esclusivamente naturale presso il Centro per l'Arte Contemporanea di Bordeaux, in Francia.

Il risultato, in apparenza conosciuto e “scontato” di questa produzione segna dunque l’identità, e quindi i criteri di autenticità del prodotto denominato “bottiglia in vetro soffiato” e della sua provenienza territoriale: “Murano – Venezia”. E’ proprio l’etimo della tradizione di quest’eccellenza “made in Italy” ad essere di supporto contenutistico alla ricerca concettuale dell’autrice delle “bio-bouteilles”. Ad un’immediata lettura, queste opere danno la sensazione del passato. Quasi come entrare in una vetreria di oggetti degli anni ‘30 e ‘40, tra preziosi flaconi stile Lalique e Baccarat, dotati di trasparenze e compenetrazioni materiche come le murrine, le minuscole tessere di mosaico ed eventuali petites intrusioni colorate. Ma l’intenzione sotterranea dell’artista in questione è invece quella di voler riqualificare il gesto e l’esperienza artigiana del passato, offrendogli una possibilità di riscatto dall’impiego precedente.

Un’operazione di riciclaggio della tradizione artigiana che la Borghi ha svolto matericamente in questi anni di percorso artistico, e che ora, con il vetro soffiato muranese, ripropone come gesto ed esperienza nuova.

Come ha scritto Paul Klee nel 1928 nel saggio “Esperienze esatte nel campo dell’arte”, con alcuni artisti “si impara a vedere dietro la facciata”. Si impara ad afferrare le cose alla radice. Si impara a riconoscere quel che scorre al di sotto. Si apprende la preistoria del visibile. Si impara a mettere a nudo, a scavare in profondità, a motivare, ad analizzare. Anche quello che in apparenza sembra “banale”.


Monica Mantelli
Murano (Ve) 2004, in occasione della produzione delle opere di Enrica Borghi nella fornace di Berengo Fine Arts



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