ifare l'Uomo



Apparato critico di presentazione su Dovilio Brero per la mostra "Le Chitarre Morte" 2006

Certo e' autunno: nel vento a brani /le morte chitarre sollevano le corde / su la bocca nera e una mano agita le dita di fuoco. /(Salvatore Quasimodo)

Neruda risulta determinante per la formazione di Quasimodo del linguaggio. Rifare l'uomo significa per Quasimodo, rifare del tutto il linguaggio. "Rifare l'uomo: questo il problema capitale. Per quelli che credono alla poesia come a un gioco letterario, che considerano ancora il poeta un estraneo alla vita, uno che sale di notte le scalette della sua torre per speculare il cosmo, diciamo che il tempo della "speculazione" e' finito. Rifare l'uomo, questo e' l'impegno".

("Rifare l'uomo" saggio pubblicato su "Poesia contemporanea" nel 1946)


Per rifare l'uomo, Quasimodo riteneva utile lavorare sul linguaggio. Dovilio, sull'immaginario. Come si legge nella struttura scenografica di gran parte dei suoi cicli pittorici, Dovilio cerca nella sua rivisitazione del passato di portare l'uomo alla sua radice. E' chiaro ed evidente che nella condizione generale dell'uomo si è perso l'orientamento e seppur cercando di mantenere un equilibrio, in lui è sempre in atto la caduta.
Grazie all'arte però l'uomo può risvegliare la propria coscienza e con la mente mettere in discussione l'esistere nel male per aprirsi al disegno superiore (l'essere nel bene) spostandosi da uno stato di dedalo ad uno più speranzoso e vivificatore, quello del labirinto. E sfuggire così all'ineluttabilità della fine.
Dunque, nel lavoro di Dovilio, l' arte è un tessuto connettivo che trasforma il nostro sentire dall'impossibilità alla possibilità. Dalla tremenda condanna all'infinito cercare, allo spazio del possibile trovare.
Ma è necessario essere persi per potersi ritrovare? E' necessaria la morte per comprendere la preziosità della vita?
La conoscenza della natura e della struttura della coscienza umana, l'autocoscienza della coscienza, dimostra Dovilio con questo nuovo progetto sulla morte e il mito, è un sapere prezioso perché da una parte ci permette di usare meglio il nostro cervello e le sue risorse più profonde e dall'altra può portare a una maturazione degli individui in grado di cambiare la società.
Una società dove i pregiudizi hanno qualcosa in comune con gli ideali, le fedi, i credi. E proprio per questo, uccidono. I nostri ideali ci privano infatti della capacità e dell'energia necessarie per pensare, per osservare, per indagare e scoprire che cosa c'è dietro la confusione, l'infelicità, il terrore e la tremenda violenza di tutti i giorni. Come un assassinio.
Dovilio allarga le maglie della domanda sulla morte per assassinio, sviluppando l'aura immaginifica di John Lennon, Gandhi, Gesù Cristo, Martin Luther King, Ipazia. C'è poi un tributo alle donne, alle chitarre "morte" e alle catene della pace. Attraverso le sindoni proposte ne "LE CHITARRE MORTE" egli ci porta ad intraprendere un viaggio dentro di noi, in quel gomitolo ingarbugliato che è il nostro essere che combatte con l'inconoscibile. E' un viaggio che conduce nei cunicoli più profondi di noi stessi. E quindi ci frega. Ci frega perchè ci chiama all'appello del risveglio della coscienza. Ci frega, perché, nella sua inflessibile coerenza tra bellezza e orrore, fa venir fuori l'enigma, la non soluzione, la visione frammentata tra vita e morte che alberga dentro il nostro cuore. In un territorio dove la mente raramente riesce a mettere ordine, troppo occupata com'è a combattere un quotidiano fatto di universi cannibali, tra informazione celata e bugia sventolata che mangiano - boccone dopo boccone - le nostre poche e confuse certezze.
Un piano di lettura apparentemente semplice, quello delle opere di Dovilio. Ne rimaniamo sedotti, affascinati, persino, a volte, disturbati da tanta opulenza talentuosa. Peccato non vedere la botola che sta a due centimetri da quelle proporzioni e forme troppo perfette per essere vere, troppo disarmanti nella loro ricchezza armonica. Noi comuni mortali, presi come siamo dalla bellezza rincuorante del suo linguaggio iconografico non ci accorgiamo dello strapiombo che ci offre questo suo modus. Uno stratagemma che l'artista attua per farci intraprendere a cuor leggero un cammino altrimenti troppo difficoltoso. Un ironico gioco di prestigio per farci sopravvive al messaggio in un modo più comprensibile. Così lasceremo aperta la porta, e lui, l'Artista potrà venire a visitarci. E a quel punto saremo a noi a doverci chiedere dove siamo veramente. In un dedalo senza uscita o in un labirinto capace di darci una via di fuga?
In queste sindoni la realtà proposta da Dovilio è un viaggio a tappe. Ogni personaggio avvolto nel suo sudario trionfa comunque e vince, nell' accrocchio di un paesaggio formale mutevole e volubile. E ne emerge l'anima eterna, il volto resistente alla morte. La giustezza che non può essere uccisa.
L'allestimento di questa mostra richiama una scenografia teatrale tra icone tombali. Un drappo rosso conduce tutto, e ci segna verso la presa di coscienza. Noi, lettori e fruitori, tentiamo di leggere queste opere per riconoscerci come uomini migliori, pronti a lottare con la nostra linea d'ombra, il nostro cuore di tenebra, la bestia inconfessabile che vive in noi. Come se, nell'atto di guardare i questi lavori tornassimo ad essere un Sisifo che cerca il raggiungimento di una vetta allo scopo di liberarsi di un enorme sasso. Un sasso ingombrante di cui non capiamo bene il senso. Ma di cui sappiamo desiderarne intensamente l'annullamento e lo scioglimento dalle nostre catene.
Sta a noi prendere il drappo che ci viene offerto e scioglierlo, magari stendendo sui nostri incidenti di percorso come una compassionevole sindone. "Daremo così un senso ai nostri morti", conclude. con un mezzo sorriso, Dovilio.
Noi, come Sisifo, sul crinale della montagna, rimaniamo in attesa. In attesa che si possa rifare l'uomo.

Torino - Lanzo, Luglio - Ottobre 2006

Monica Nucera Mantelli


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